<dc:title> Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Cesare Balbo</dc:creator><dc:date>1846</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Balbo, Cesare – Storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, Vol. II, 1914 – BEIC 1741401.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Della_storia_d%27Italia_dalle_origini_fino_ai_nostri_giorni/Libro_sesto/29%C2%B7_Francesco_Sforza,_quarto_duca_di_Milano&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20180421124156</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Della_storia_d%27Italia_dalle_origini_fino_ai_nostri_giorni/Libro_sesto/29%C2%B7_Francesco_Sforza,_quarto_duca_di_Milano&oldid=-20180421124156
Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni - 29· Francesco Sforza, quarto duca di Milano Cesare BalboBalbo, Cesare – Storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, Vol. II, 1914 – BEIC 1741401.djvu
[p. 266modifica]29. Francesco Sforza quarto duca di Milano [1447-1466]. — Il ducato era stato
dato a’ Visconti in feudo mascolino; niuna femmina, niun discendente o
marito di femmine, v’avea diritto. Tuttavia vi preteser cosí parecchi; il
duca di Savoia, il duca d’Orléans e Francesco Sforza. I milanesi si
rivendicarono in libertá, restituirono il comune o repubblica, ma non
seppero ordinare armi proprie a difenderla; assoldarono i migliori
condottieri, due Sanseverini, Bartolomeo Coleoni, due Piccinini figli di
Niccolò [morto nel 1444], e Francesco Sforza stesso. L’Orléans assaliva dal
Piemonte, prendeva Asti, e la serbava poi; i veneziani continuavan la
guerra incominciata contra il Visconti e passavan l’Adda. Sforza vincevali
e rivincevali costí e sul Po, tre volte in un anno [1448]; ma faceva poi
pace con essi, a patto d’esserne aiutato alla signoria di Milano [1448]; e
cosí alzava lo stendardo contro alla repubblica, indebolita giá per sue
pretese a serbar le cittá suddite. Perciocché, il nome di «libertá» è bello
ed attraente senza dubbio; ma a chi la vuol per sé e la toglie altrui, il
nome sta troppo male in bocca e non tira nessuno. E perché cosí facevano di
lor natura tutte le cittá o [p. 267modifica]repubblichette del medio evo, perciò poche
poterono fondare Stati grossi. Insomma, le cittá del ducato apriron le
porte allo Sforza, e Milano restò quasi sola. Nel 1449 fece con Venezia un
trattato a cui lo Sforza accedé, ma per poco. Anzi, riprese l’armi, tagliò
le vettovaglie a Milano; e il popolo si sollevò, e addí 26 gennaio 1450 gli
aprí le porte e riconobbelo per duca. — E qui v’ha chi piange, e dice
perduta una grande occasione di collegarsi le tre repubbliche di Milano,
Venezia e Firenze per l’indipendenza di tutta Italia; e certo s’ei vuol
dire che elle avrebbero dovuto ciò fare, io consento per questa come per
qualunque altra occasione. Ma il fatto sta che le repubbliche o comuni o
cittá, furono, piú che non gli stessi signori, discoste sempre da tali
idee; e che la storia de’ quattro secoli addietro dimostra la loro
incapacitá ed all’indipendenza ed alla libertá stessa; e che qui appunto,
da questa metá del secolo decimoquinto, da questo ascendere dello Sforza
alla signoria, incomincia un periodo, pur troppo breve, non arrivante a
mezzo secolo, ma che fu forse il piú felice, il piú vicino all’indipendenza
compiuta, certo il piú fecondo di grandezze e splendori che sia stato mai
all’Italia, dopo il vero imperio romano. E il fatto sta che la
preoccupazione repubblicana fece a molti travedere ed anche travisare la
storia d’Italia; li fece quasi per disprezzo tralasciare di studiare e
notare la storia di que’ grandi principati italiani, che si vennero
apparecchiando fin da quest’epoca, che durarono d’allora in poi, e durano,
che hanno quindi per noi un interesse molto piú attuale. Siffatte
preoccupazioni esclusive, siffatte trascuranze volontarie od involontarie
di tutta una serie di fatti, sono fonti di miseri errori, grettezze in
tutti gli studi; nella storia, nella scienza de’ fatti, sono distruzione
della scienza intiera. — E studiando dunque i principati non meno che le
repubbliche, noi noteremo fin di qua, che qui si vede la gran differenza
tra un principe assoldator di condottieri, e un principe condottiero lui
stesso. Quattro anni bastarono a Francesco, principe nuovo ma militare, per
finir quelle guerre che avean occupata tutta la vita di Filippo Maria,
principe antico ma non militare. Nel 1454 fu firmata una pace, stabile
oramai, che fermò, limitò gli Stati [p. 268modifica]di Milano e Venezia, quali li vedemmo
fino a’ nostri dí. Francesco signoreggiò poi tranquillo, glorioso,
splendido altri dodici anni; e negatagli l’investitura da Federigo
d’Austria, non se ne curò; offertagli per danari, la ricusò. — Costui era
disceso nel 1452, ed avea fatti gli Estensi duchi di Modena e Reggio, cosí
innalzando un altro de’ principati duraturi; e scansata Milano, erasi fatto
incoronar a Roma, non solamente imperatore, ma, contra l’uso, re d’Italia,
da papa Niccolò V troppo condiscendente; poi era risalito. Nel 1453,
Stefano Porcari, un gentiluomo romano, che poc’anni addietro,
nell’interregno della elezione di Niccolò, avea propugnati i diritti di
libertá del popolo romano, fece una congiura di fuorusciti, rientrò con
trecento una notte in una casa; fu tradito, accerchiato, preso,
appiccato. — In quest’anno medesimo si compiè la gran vergogna e calamitá
della cristianitá europea; fu presa Costantinopoli da Maometto II e i
turchi; e cosí finí l’imperio greco, orientale, romano, quella reliquia,
lungamente superstite, della civiltá antica. Quindi si sparsero i turchi
tra pochi anni nelle province greche dell’Eusino, del Danubio, di Atene,
della Morea e nelle isole; facendovi servi, «giaurri», i milioni
d’abitatori cristiani. Spaventossene la cristianitá, ma non se ne mosse;
non avea piú quel fior di zelo cristiano che avea mosse le crociate; non
ancora quello zelo di civiltá che la muove, benché tanto discordemente
epperciò lentamente, a’ nostri dí. E giá fin d’allora lo zelo commerciale
superava qualunque altro, faceva prendere i mezzi termini. Nell’anno della
conquista, Venezia fece col barbaro conquistatore un trattato di pace,
d’alleanza e buon vicinato, per salvare i suoi stabilimenti, i suoi scali,
e a capo di essi il bailo ambasciadore, consolo, giudice de’ cittadini
veneziani lá sofferti. Trovasi menzione d’una lega italiana ideata tra il
1454 e il 1455; ma furon parole: gl’interessi minori ma presenti fecero
lasciare i maggiori e lontani. Fu nuova vergogna e danno alla cristianitá;
danno poi particolare all’Italia, in cui saran sempre sogni le
confederazioni immaginate in generale, senza scopo, senza occasione; in cui
le occasioni sole posson condurre alle leghe temporarie, e queste sole, se
mai, a qualche [p. 269modifica]confederazione perenne; in cui dunque dovrebbesi prender
come benefizio della Provvidenza qualunque occasione di far leghe, piccole,
grosse, temporarie o durature. Ad ogni modo spargevansi in Italia
letterati, filosofi, reliquie di quella reliquia; a’ quali fu mal
attribuito il fior delle nostre lettere giá fiorenti spontanee da duecento
anni, a cui è tutt’al piú da attribuir l’esagerato affetto alle cose
antiche che seguí. Furono accolti principalmente da Cosimo de’ Medici e da
Niccolò V, il quale morí poi due anni appresso, e, dicono, di dolore
[1455]. — Successegli Calisto III, uno spagnuolo, un primo Borgia, ottimo
papa, che occupò il breve pontificato in confortar invano la cristianitá
contro a’ suoi nemici naturali. E morto esso [1458], succedette Pio II
(Enea Silvio Piccolomini) un dotto ed elegante uom di lettere, che diede
due buoni esempi: lasciar le lettere per li fatti quando s’arriva a
potenza, e condannar gli scritti propri quando non si trovan piú buoni.
Volsesi poi tutto anch’egli a riunire e confortar contro a’ turchi la
cristianitá. Venezia fu costretta [1463] a romper guerra per le sue
possessioni stesse in Morea; e allora fece alleanza con Mattia Corvino re
d’Ungheria e grand’uomo, col duca di Borgogna uomo ambizioso che volea
porsi a capo della crociata, e con Giorgio Castriotto sollevator degli
albanesi. Ma morirono Pio II [1464], e il Castriotto [1466]; e tutto quel
rumore cessò, e Venezia che s’era voluta isolare nella pace, rimase
meritamente sola alla guerra. Nel papato successe Paolo II (Pietro Barbo
veneziano). — Intanto [1456] era succeduta in Venezia una nuova di quelle
misteriose tragedie a lei peculiari o simili solamente a quelle del
serraglio o dell’altre corti orientali. Dogava dal 1423, cioè dall’epoca
delle ambizioni, delle conquiste, delle glorie di sua patria, Francesco
Foscari, il piú glorioso principe che Venezia avesse avuto da Enrico
Dandolo in qua. Eppure, fin dal 1445 gli era stato perseguitato, torturato,
esiliato il figlio Iacopo, accusato da un vil fuoruscito fiorentino d’aver
toccato danari dal Visconti. E fu riaccusato di assassinio, ritorturato,
riesiliato cinque anni appresso. E fu accusato, torturato una terza volta
per una lettera di lui al duca di Milano; scritta apposta, disse [p. 270modifica]il
miserando giovane, per essere cosí ricondotto dall’esilio, e ricomprare con
quelle torture l’invincibil brama di riabbracciar i parenti decrepiti, la
dolce moglie, i figliuoli. E per la terza volta fu ricacciato, e morí
lontano. Quindici mesi appresso, il vecchio glorioso, ma certo rimbambito,
posciaché soffrí di regnare dopo tutto ciò, fu deposto; e al sonar della
campana grossa che annunciava l’incoronazione del successore, morí di dolor
d’ambizione colui che non avea saputo morire di dolor di padre [1457]. Che
libertá, che repubbliche, che aristocrazie! — Con gloria piú incolume, morí
[1458] Alfonso il magnanimo. Benché signor di altri regni in Ispagna, non
avea piú lasciato quello delle Due Sicilie da trentott’anni; v’avea
combattuto a lungo, l’avea pacificato, ordinato, fatto riposare e
risplender d’arti e di lettere; e compié i suoi benefizi a’ sudditi
napoletani, lasciando i regni spagnuoli e Sicilia a Giovanni suo fratello,
ma Napoli distaccato, a Ferdinando suo figliuolo naturale. Se non che, qui
come ad ogni altra occasione passata, presente o futura, lamenteremo sempre
qualunque sminuzzamento del bello ed util Regno di qua e di lá dal faro,
come di qualunque altro Stato italiano esistente. Ma che giova? Mentre si
disperano e cercano riunioni l’une difficili, l’altre impossibili, si
sminuzza ciò che è giá riunito. Sogni ed ire, sempre la medesima storia.
Non solamente il desiderabile proseguito in luogo del possibile; ma niun
criterio a distinguere ciò che sia desiderabile veramente, niuna costanza a
desiderar le medesime cose; inconseguenza, inconsistenza,
passioni. — Ferdinando poi non valse il padre: s’inimicò i baroni; e questi
chiamarono un duca di Calabria figlio di Renato d’Angiò, che scese e si
mantenne parecchi anni nel Regno. Ferdinando fu mantenuto dalla sapienza
politica dello Sforza e di Cosimo de’ Medici, che non vollero introdurre un
nuovo straniero in Italia; ma si deturpò peggio che mai colle vendette, e
col tradimento che fece a Iacopo Piccinino, accarezzandolo, traendolo a sé,
ed uccidendolo, a modo di Venezia con Carmagnola [1465]. — Pochi mesi
addietro era morto Cosimo de’ Medici il gran cittadino di Firenze, il
grande autore e conservator della pace in sua cittá e in Italia. [p. 271modifica]Avea
governato per mezzo di sua parte giá democratica, poi meno aristocratica,
poi aristocratica sola; né aveva usurpati, o nemmen ritenuti carichi; anzi
li avea dati e mantenuti a Neri Capponi, a Luca Pitti, a tutti i grandi
minori di lui; avea portato il segno della vera e rara grandezza, non aveva
avute invidie. Non vi fu sangue al tempo suo; pochi di quegli stessi
esigli, i quali son forse inevitabili nelle repubbliche, dove qualunque
cittadino presente può forse esser potente; mentre ne’ principati puri è
facilissimo annientar un suddito, presente come assente. Ed a malgrado di
tutto ciò, Cosimo è da alcuni vituperato quasi tiranno, perché, volente o
non volente (chi può saper le intenzioni?), egli apparecchiò le vie a’
discendenti che tiranneggiarono cinquanta o sessant’anni dopo lui. Ma il
fatto sta, che ei governò la repubblica, primo sí, ma non principe, ed
anche meno tiranno; ch’egli ottenne da’ contemporanei il nome di «padre
della patria»; ch’ei somigliò a quanti grandi cittadini furono nelle piú
splendide repubbliche antiche, e superò forse quanti furono nelle italiane.
Quando saprá l’Italia far giustizia tra i veri e i falsi grandi suoi? Forse
non prima che ella sia compiutamente libera. Intanto par che corra quasi un
impegno di abbassare i veri grandi e d’innalzare i piccoli di nostra
storia. Sarebb’egli per ridurli tutti insieme alla misura di nostra
mediocritá? Vi badino coloro che han credito sull’opinione patria. Forse
per gran tempo ancora non si potrá in tutta Italia dare a coloro che la
servono, ciò che ogni generoso fra essi desidera naturalmente piú, i mezzi
di piú e piú servirla, la potenza; per gran tempo ella non avrá altro
premio a dar che le lodi; sappiamo almeno non negarle né
avvilirle. — L’ultimo a morire di questa gran generazione del mezzo del
secolo decimoquinto fu Francesco Sforza [1466]. Due anni innanzi, Genova,
che dal 1458 aveva ridonata la signoria a Francia, abbandonata da questa,
l’aveva donata a lui. Cosí morí Francesco nel colmo di sua fortuna; uomo
meno incolpevole certamente, ma non minor principe egli, che Cosimo gran
cittadino; la loro amicizia serbò allora la pace d’Italia, e li onora
presso ai posteri amendue.