Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro sesto/34. Coltura del terzo periodo o secolo di Dante, da Carlo d'Angiò al ritorno dei papi

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34. Coltura del terzo periodo o secolo di Dante, da Carlo d’Angiò al ritorno dei papi

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34. Coltura del terzo periodo o secolo di Dante, da Carlo d’Angiò al ritorno dei papi
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[p. 285 modifica]34. Coltura del terzo periodo, o secolo di Dante, da Carlo d’Angiò al ritorno dei papi [1268-1377]. — Questo poi fu certamente uno de’ [p. 286 modifica]periodi di qualunque nazione, in cui sieno mai progredite piú a un tratto ed insieme tutte le colture. E Dante fu uno degli uomini che sieno mai progrediti piú sopra i propri contemporanei. Nato nel 1265, l’anno della calata di Carlo d’Angiò, cresciuto, educato tra i trionfi della libertá fiorentina e della parte nazionale, e insieme in sull’aurora del poetare italiano, in tempi dunque d’ogni maniera propizi allo svolgersi di suo grande ingegno; preso di gentile e puro amore fin dall’adolescenza, infelice in esso fin dalla gioventú, provata poesia, ideato e lasciato il poema giovanile, provata la vita pubblica, e respinto da essa e di sua cittá per quella moderazione di opinioni, per quell’ardenza nel proseguirle che tutti gli animi un po’ distinti sentono, che i volgari di qua e di lá, di su e di giú non capiscono e non perdonano; si rivolse, esulando, allo scrivere, all’idea giovanile, a quel poema di religione, di filosofia, di politica e di amore, il quale, simile nella forma a parecchi contemporanei, supera forse in sublimitá e vigor di pensieri, agguaglia per certo in tenerezza e splendor di poesia ed in proprietá di espressioni i piú belli delle piú colte etá antiche o moderne; ed in tale opera, e nell’esiglio, perseverò poi vent’anni fino alla morte [1321]. Noi non celammo l’error politico di Dante, che fu di lasciare la propria parte buona e nazionale perché si guastava in esagerata, straniera e sciocca, di rivolgersi per ira alla parte contraria ed essenzialmente straniera; ed aggiungeremo qui ch’ei pose il colmo a tale errore, protestando di continuar nella moderazione, affettando comune disprezzo alle due parti, mentre rivolgevasi a propugnare l’imperio, e nel poema, e in quel suo libro, del resto mediocre, Della monarchia. Ma ciò posto ed eccettuato francamente, ed eccettuate forse alcune vendette personali terribilmente fatte con sue parole immortali, Dante e il poema suo restan pure l’uomo e il libro incontrastabilmente piú virili ed austeri della nostra letteratura: virile l’uomo, nel saper sopportare le pubbliche, le segrete miserie dell’esiglio, nel non saper sopportare né le insolenti protezioni delle corti né le insolentissime grazie di sua cittá, nel sapere dalla vita attiva, che pur anteponeva ma gli era negata, passare alacre alla [p. 287 modifica]letteraria e farvisi grande: virile poi ed austero il poema in amore, in costumi, in politica, in istile, e per quella stessa accumulazione di pensieri che fa del leggerlo una fatica, ma la piú virile, la piú sana fra le esercitazioni somministrate dalle lettere nazionali ai molli animi italiani. Quest’esercizio dunque, e non le opinioni politiche particolari, sovente guaste, sovente contradicenti a se stesse, è ciò che si vuol cercare, è ciò che si troverá abbondantemente nel nostro poema nazionale; è ciò che il fa caro a tutti coloro che si congiungono nel desiderio di veder ritemprati gli animi italiani; è ciò che il fa odiato e deriso da tutti coloro che ci vorrebbon tenere nelle nostre mollezze secolari. Farebbe opera feconda di risultati non solamente letterari, ma morali e politici, chi mostrasse questo che a me par merito incontrastabile di Dante sopra tutti i nostri scrittori de’ secoli seguenti. Ma egli spicca, forse piú che altrove, al confronto dei due, i quali insieme con lui son volgarmente detti padri della nostra lingua. — Petrarca [1304-1374] ha parecchi grandi meriti senza dubbio: quello d’essere sommo tra quanti poetarono d’amore in tutte le lingue romanze; quello d’aver cantato d’Italia nobilissimamente e forse piú giustamente, piú per l’indipendenza, che non Dante stesso; e quello poi di essere stato non primo (ché fu preceduto almeno da san Tommaso), ma uno de’ primi e piú efficaci cercatori e restauratori degli antichi scrittori greci e latini. Ma quanto alla poesia amorosa, romanza o lirica, è a considerare, che non solo ella fu una sola parte, quasi uno squarcio dell’ingegno di Dante, da lui negletto per salir piú su; ma (ed importa molto piú) che questo bello e facil genere non sale, non può riuscire a grandezza mai, non sopratutto innalzare o temprare una lingua, una letteratura, una nazione; tantoché ne restarono forse stemprate le stesse poesie nazionali di Petrarca, ne restò stemprato per certo l’ingegno di lui, il quale fece pochissime di tali poesie, e non seppe darci un canzoniere nazionale o popolare, come Dante ci avea dato un poema; tantoché sorse quindi una serie, una folla d’imitatori i piú fiacchi e piú noiosi che siena stati mai. Del resto, Petrarca portò il segno della sua inferioritá a [p. 288 modifica]Dante, invidiollo; e si vede (senza scendere agli aneddoti) da ciò, che nei Trionfi d’Amore e della Fama non seppe trovar luogo al piú amoroso e famoso de’ suoi contemporanei. Petrarca fu un gran letterato e nulla piú; non ha quella gloria che sola può innalzar gli scrittori alla dignitá degli altri servitori della patria, quella d’aver servito a migliorarla. — D’animo piú gentile, non invidioso, anzi di quelli che son sensitivi, che trovan piacere alle grandezze altrui, fu Boccaccio [1313-1375]; ma ei pur fu di quelli in parte utili, in parte nocivi alla patria. Fu utile anch’esso collo studiare e cercar codici, autori antichi; e fu utile lasciandoci la vita del sommo poeta, ed instaurando una cattedra apposta per leggere e spiegare il sommo poema. E fu gentile poi, fu sommo egli in un altro genere de’ tempi suoi, nelle novelle. Ma ei non fu utile in esse certamente; e perché non seppe indirizzar quel genere di letteratura a que’ fini morali e politici ai quali fu innalzato poi variamente da Cervantes in Ispagna, Fénelon in Francia, Walter Scott in Inghilterra, Manzoni in Italia, e pochi altri; perché all’incontro egli l’avviò a solo piacere, anzi al piacere talor basso, sovente dissoluto; ed anche perché, sommo scrittor di prosa de’ suoi tempi, ma scrittor per celia, e forse per celia imitator dello stile fiorito e rotondo di alcuni antichi, egli incamminò la prosa italiana per quella via dell’imitazione latina, che è innaturale, antipatica alla nostra lingua priva di casi, ingombra di particelle staccate. Gran danno fu, per certo, che lo scrittor primo diventato modello, che il formator di nostra prosa sia stato un novellator per celia; come fu poi gran vantaggio di una nazione vicina l’aver avuti a modelli e formatori di sua prosa due severi filosofi e geometri, un Descartes e un Pascal. Del resto, siffatto danno nostro fu conseguenza naturale di nostra precocitá, quasi sconto od inconveniente della gloriosa nostra precedenza nelle lettere; e non si deve quindi apporre a que’ padri della nostra lingua, i quali non potevan essere progrediti come i padri della francese, venuti quattro secoli piú tardi. Ma deve apparsi si a tutti que’ nostri scrittori posteriori e presenti, che, or per natural pigrizia, or per istolta affettazione di nazionalitá, non sanno uscire dalla [p. 289 modifica]imitazione de’ nostri padri precoci, non ne sanno imitare gli ingegni vivi, inventivi, larghi, eclettici, accettatori, cercatori d’ogni bellezza antica, moderna, classica, romantica, nazionale o straniera, non sanno imitare se non le voci, i modi di dire, i periodi, i vezzi e quasi le smorfie de’ lor modelli, e di quel Boccaccio specialmente il quale rideva scrivendo, ma riderebbe ora anche piú al leggere cosí pedanti, pesanti e dislocate imitazioni. — A petto de’ tre sommi scompariscono poi i molti poeti e prosatori loro contemporanei; fra gli altri Guitton d’Arezzo [-1294?], Brunetto Latini [-1294], Matteo Spinello, Guido Cavalcanti [-1300], fra Iacopone da Todi, Cecco d’Ascoli [-1327], fra Domenico Cavalca [-1342], Bartolomeo da San Concordio [-1347], Francesco da Barberino [-1348], Giovanni [-1348] e Matteo Villani [-1363], Iacopo Passavanti [-1357], Fazio degli Uberti [-1360]; ed in lingua latina, oltre parecchi di questi, Albertin Mussato [-1330], Pietro d’Abano medico ed alchimista [nato 1250], Pier Crescenzio filosofo ed agronomo [-1320], Cino da Pistoia [-1336] e Bartolo [-1356] giureconsulti. Ma tutto questo era pure un bell’accompagnamento letterario e filosofico ai tre grandi. La teologia e filosofia speculativa sole (se non vogliansi contar due donne, santa Caterina e santa Brigida, morte 1373, 1380) non trovansi guari coltivate in Italia lungo questo secolo. Ma non che biasimo le ne darem lode. Perciocché non essendo queste due scienze, come l’altre, indefinitamente progressive, ci pare che dopo un grandissimo uomo, come fu san Tommaso, sia stato molto piú opportuno il tacerne e riposarvi degli italiani, che non il ridisputarne e dividervisi tra tomisti, scotisti e albertisti, che seguí oltramonti. Né le dispute precedenti, de’ nominalisti e realisti, non eran giunte a turbarci gran fatto; e in generale (salvo poche eccezioni, di che Dio voglia continuar a guardarci), le astrazioni, le sottigliezze, le entelechie, le pretese soverchie della metafisica non allignarono guari mai in Italia; le menti italiane sono limpide di lor natura, resistono all’appannatura, respingono le nebbie all’intorno. Del resto, non vorrei esser franteso; Dio mi guardi dal voler respinti que’ nostri grandi e pochi i quali continuano [p. 290 modifica]sinceramente l’antica opera di Anselmo e san Tommaso, l’unione della filosofia e della teologia, della ragione e della fede, del naturale e del soprannaturale. Ma io rispingerei volentieri tutti que’ disputanti continuatori, que’ noiosi imitatori, que’ nocivi esageratori, tutta quella turba di filosofanti, che fanno uscir lor scienza da’ limiti suoi per turbarne la storia, la politica, la giurisprudenza, l’economia pubblica, la pedagogia, tutte le scienze di Stato e di pratica. Del resto, avremo pur troppo a tornare a tale assunto. — Fecersi all’incontro in quell’operosissimo secolo grandi progressi nell’arti e nelle scoperte geografiche, e grandi invenzioni o introduzioni. Nell’arti, Cimabue primo [-1300], Giotto secondo ma d’un gran salto piú su [-1336], volsero ormai decisamente la pittura dalla imitazione de’ greci a quella dell’antico od anche meglio della natura; e furon seguiti da molti, fra cui principali Taddeo [-1350] ed altri Gaddi, Andrea [-1380] ed altri Orgagna fiorentini, Simon Memmi [-1344] ed altri sanesi, Franco bolognese ed Oderisi da Gubbio miniatori. E progredirono poi nella medesima buona via, da esse giá presa, l’architettura e la scultura esercitate da quasi tutti i sopranomati pittori, e da Arnolfo di Lapo [1310], architetto e scultore che ideò e incominciò la bella Santa Maria del fiore di Firenze; da Giovanni [-1320?] figlio di Nicola pur architetto e scultore, e da Andrea pisano [1350] scultore della prima porta del battistero di Firenze. Vedesi quindi continuato, ed accresciuto della pittura, quell’esercitarsi le tre arti sorelle da’ medesimi artisti, che dicemmo peculiaritá italiana. Piú si va, piú si vede quanto mirabilmente si volga a tutte le colture l’ingegno italiano; a niuna forse cosí facilmente e abbondantemente come alle arti del disegno, o piuttosto a tutte l’arti del bello. — E tutto ciò fu grande senza dubbio; eppure virilmente, cristianamente, un po’ altamente considerando o le virtú promotrici o gli effetti promossi, tutto ciò dico, fu un nulla se si compari all’opera di quei grandi viaggiatori, missionari o commercianti, che sorsero pochi anni prima, e moltiplicaronsi al tempo e lungo tutto il secolo di Dante. Questi sono i precursori di quell’altro italiano, piú grande che Dante stesso, di quello che ebbe (salvo [p. 291 modifica]forse Gregorio VII) piú efficacia sui destini del genere umano, di Colombo. La religion nostra, il suo spirito propagatore, i suoi capi, pontefici romani, dieder le mosse; il commercio allor ardito, il genio allor venturiero degli italiani le seguirono. Giovanni da Pian Carpino italiano fin dal 1246, Andrea di Longimello [1249], Rubruquis olandese (?) e Bartolomeo da Cremona [1253] monaci e missionari, viaggiarono e predicarono tra’ mogolli; Anzelino domenicano andò ambasciator del papa al khan di Persia [1254]; e seguí [1270-1295] quella famiglia veneziana de’ Poli, e principalmente quel Marco che visitò, abitò e descrisse poi Mongolia, Tartaria, Cina ed India, tutta l’Asia de’ primi discendenti di Gengis khan; e che venne a languir poi in un carcere e morire ignoto tra’ pettegolezzi cittadineschi italiani. Seguirono ed esplorarono pur l’Asia Oderico da Pordenone francescano [1314-1350], Marco Cornaro veneziano [1319], Pegoletti [1335] e Marin Sanuto [-1325]. — E intanto [1202 circa] Leonardo Fibonacci, un mercatante pisano, ovvero portava egli nella cristianitá da’ saracini che li avevan portati dall’Indie, ovvero faceva volgari co’ suoi scritti que’ primi elementi dell’algebra che altri dice portati o ritrovati da Gerberto papa. — E Flavio Gioia d’Amalfi [1300 circa] introduceva dalle medesime regioni la bussola. Ma anche questa invenzione o introduzione ci è disputata da’ francesi. — E di chiunque fosse, non fu poi italiana quella poco posteriore della polvere da guerra. Né, quand’anche n’avessimo luogo, noi disputeremmo qui od altrove delle nostre glorie dubbiose. N’abbiam tante delle certe! E in somma, questo secolo di Dante fu certo cosí grande in colture, come il vedemmo piccolo e cattivo in politica. E fu accennato da Dante che se n’intendeva.