Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro settimo/15. Vittorio Amedeo I, Francesco Giacinto, Carlo Emmanuele II

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15. Vittorio Amedeo I, Francesco Giacinto, Carlo Emmanuele II

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15. Vittorio Amedeo I, Francesco Giacinto, Carlo Emmanuele II
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[p. 64 modifica]15. Vittorio Amedeo I, Francesco Giacinto, Carlo Emmanuele II [1630-1675]. — Se la Provvidenza avesse dato immediatamente al Piemonte un secondo regno di mezzo secolo e d’un principe simile a Carlo Emmanuele I, casa Savoia sarebbe forse diventata regina di mezza Italia, ovvero ella si sarebbe rovinata del tutto. Ma la Provvidenza sembra aver destinata quella casa a un crescer costante, ma lento; ed ella frappose ai due regni, simili per [p. 65 modifica]lunga e grande operositá, un intervallo di quarantacinque anni, e tre principi minori con due reggenze. — Succeduto Vittorio Amedeo I [luglio 1630], continuò la guerra della successione di Mantova pochi altri mesi; poi si venne a’ trattati; e per quelli di Cherasco [6 aprile 1631] e Mirafiori [5 luglio 1632] rimasero. Mantova e Monferrato al Nevers-Gonzaga; Alba, Torino ed alcune altre terre a Savoia. Ma questa ebbe a dar Pinerolo a’ francesi, e cosí fu riaperta a questi l’Italia, e disfatto il benefizio di Carlo Emmanuele quando aveva avuto Saluzzo in cambio alle province francesi. E posossi per poco. Ché, signoreggiata Francia dal Richelieu, questi riprese l’idea d’Enrico IV di diminuir casa d’Austria, massime in Italia, ed a ciò [11 luglio 1635] fu firmato in Rivoli un trattato tra Francia e Savoia, a cui aderirono Parma e Mantova, ed applaudí Urbano VIII, il papa Barberini che fu o apparve primo dopo il Caraffa a prender noia del giogo spagnuolo e volgersi a Francia. Cosí riaprissi la guerra, che durò poi variamente ventiquattro anni. Ma Vittorio Amedeo, generalissimo della lega, non la condusse che due anni. Morí ai 7 ottobre 1637. — Allora si aggiunse una contesa di famiglia, e diventò guerra civile, la sola che sia stata mai in Piemonte. Succedeva ad Amedeo suo figlio di cinque anni, Francesco Giacinto; e fu presa la reggenza dalla vedova madre di lui, Cristina di Francia, figliuola di Enrico IV, donna di alti e gentili spiriti, come il padre. Aveva contro a sé, Spagna aperta nemica; Francia o almen Richelieu avidi amici che volean tiranneggiarla; e i due cognati, Tommaso buon guerriero al servigio di Spagna, e Maurizio pure spagnuolo di parte, che le contrastavano la reggenza appoggiandosi bruttamente a Spagna, nemica allora di lor famiglia, nemica naturale di ogni principe indipendente italiano. Dichiararonsi mentre Leganes e gli spagnuoli invadevano. — Morí in questo [giugno 1638] il duca fanciullo Francesco Giacinto; e succedette suo fratello piú fanciullo Carlo Emmanuele II. Nel 1639, il Piemonte fu quasi tutto de principi zii. Nella notte del 26 e 27 luglio, sorpresero Torino. Madama reale (come si chiamava la duchessa) ne fuggí prima in cittadella, poi qua e lá fino a Grenoble, ma lasciando il [p. 66 modifica]figliuolo chiuso in Monmelliano con ordine al governatore di non dar né figlio né fortezza, nemmeno per niuno scritto di lei; e cosí salvollo dal Richelieu che lo voleva. Nel 1640, fu ripresa Torino, e tornovvi madama reale. Nel 1642, si fece accordo tra lei e i cognati; e le rimase la reggenza fino al 1648, e naturalmente poi per piú anni il governo del figliuolo maggiorenne ma adolescente. E durò la guerra ma lungamente tra Francia e Spagna. Ravvivossi nel 1656 colla presa di Valenza, ma senza grandi risultati nemmeno. Erano i tempi della decadenza in Ispagna, e della Fronda in Francia. Finalmente, addí 17 novembre 1659, facevasi la pace de’ Pirenei tra Spagna e Francia; e fu firmata per questa dal Mazzarino, cardinale italiano e successore al Richelieu nel ministero. E cosí liberato Piemonte da amici e nemici, regnò Carlo Emmanuele II tranquillo, splendido, edificator di chiese, palazzi e ville, protettor di lettere, buono ed elegante principe. Disputò vanamente per il titolo di re di Cipro con Venezia; e pacificatosi, le mandò il marchese di Villa suo generale ed un corpo di truppe, ad aiutar Candia assediata dai turchi. Mosse due cattive guerre contro a’ valdesi, e le finí lasciando le cose come prima. Nel 1670, aprí tra’ dirupi di Savoia una strada a Francia, opera alla romana, ammirata e superata da Napoleone, che se Dio voglia sará superato da’ principi nostri, aiutati dalla presente civiltá. Nel 1672, mosse guerra a Genova; ma non riuscí a nulla nemmeno esso, e si rifece pace nel 1673, per mediazione e minacce di Luigi XIV di Francia. Morendo [12 giugno 1675], fece aprir le porte del palazzo, per vedere il popolo suo che amava riamato. Fu de’ pochissimi di casa Savoia, che non conducessero le armi sue. — Il resto d’Italia non ebbe in questo tempo nemmeno il solito vantaggio di giacere in pace. I ducati settentrionali, Parma, Modena, Mantova con Monferrato, furono attraversati da combattenti, e sforzati di prendere parte a quasi tutta la guerra fino alla pace de’ Pirenei. Oltreché, essendo Ottavio Farnese carico di debiti, ed avendo ipotecato a’ creditori il ducato di Castro e Ronciglione, papa Urbano VIII (forse per investirne i Barberini suoi nepoti) li sequestrò; e ne nacque, frammista alla guerra [p. 67 modifica] grossa, una piccola, in cui Venezia, Modena e Toscana mossero per il Farnese [1641-1644], finché fu fatta pace [1644]. Ma succeduto a Ottavio Ranuccio II figliuolo di lui, e guastatosi per la nomina di un vescovo con papa Innocenzo X, si riaprí la guerra; e questi sequestrò di nuovo Castro e Ronciglione, che furono incamerati e ritenuti, anche dopo la pace ed altri trattati, per sempre, dalla Santa Sede. E rimase confermata la riunione d’Urbino alla morte di Francesco Maria, l’ultimo Della Rovere [1636]. D’allora in poi, da due secoli in qua, gli Stati della Santa Sede furono tali quali sono ora (salvo che l’Austria occupa ora militarmente Ferrara, e stabilmente un lembo di Oltrepò). — In Modena successero Alfonso IV, figlio di Francesco I [1658], e Francesco II, figlio di Alfonso IV [1662]. — In Mantova e Monferrato, giá diminuito, successero Carlo II figliuol del primo [1637], e Carlo III (che vedrem l’ultimo di quella terza schiatta di Monferrato) figliuol del secondo [1665]. — In Toscana, al pacifico e letterato Ferdinando II succedette il pacifico e letterato Cosimo III [1670]. — In Roma, ad Urbano VIII Barberini, succedettero, Innocenzo X [Panfili, 1644-1655], che perseguitò i nipoti del predecessore, e ingrandí i suoi; Alessandro VII [Chigi, 1655-1667], che non volle dapprima ma finí con nepotizzare egli pure, e che per una zuffa di servitori di casa sua e dell’ambasceria francese, ebbe a soffrir le prepotenze di Luigi XIV e fargli scuse; Clemente IX [Rospigliosi, 1667-1670], e Clemente X [Altieri, 1670-1676], nepotisti essi pure. — Venezia ebbe a sostenere una gran guerra contro a’ turchi, che le assaliron la bella ed ampia isola di Candia: e vinseli in due battaglie navali, ma perdette l’isola finalmente nel 1669. — Genova fece poco piú che poltrire, salvo quella volta che si difese contra Carlo Emmanuele II. E le province spagnuole pativano, ed erano spogliate peggio che mai; ma Milano senza muoversene; Sicilia e Napoli, all’incontro, mostrando velleitá piccole e varie di sollevazioni. Il fatto sta, che, dei grandi imperii antichi o nuovi i quali furono al mondo, niuno forse fu piú mal connesso, piú mal costituito, piú mal governato che quello spagnuolo. Vantavasi che vi splendesse a tutt’ore il sole girando intorno [p. 68 modifica]all’orbe. Ma quest’era appunto il gran vizio di esso; era immane e disseminato, forse oltre alla potenza governativa di qualsiasi governo, certo oltre a quella di que’ principi oziosi, e di que’ lor ministri e cortigiani depredatori. E giá s’era venuto sfasciando, scemando quell’imperio per ribellioni numerose: quella de’ mori di Granata, che, vinti e cacciati in Africa, lasciarono scemata la popolazione spagnuola; quella de’ Paesi bassi, staccatisi ed ordinatisi in bella e durevole repubblica; quella di Portogallo, rivendicatosi in regno indipendente; quella di Catalogna, erettasi essa pure a repubblica, quantunque per poco. Ultimi a seguir tali esempi furono i pazientissimi italiani; anzi ultimi e minimi, senza disegno, senza vigoria, senza prudenza, senza costanza, senza pro. Una carestia ne fu causa od occasione in Sicilia. Sollevossi la infima plebaglia contro al pretor di Palermo, che aveva scemate le pagnotte; poi contro a Los Velez viceré. Un Nino della Pelosa fu primo capopopolo; vollero accostarsi a’ nobili, e far re un de’ Geraci che avean nome di esser sangue dei re Normanni. Ma né questi volle, né gli altri nobili si scostarono da Spagna, né il popolo perdurò; e Nino con tre altri furono strozzati, quaranta mandati alle galere. Poi, una rissa tra alcuni servitori d’un nobile e alcuni plebei risuscitò il chiasso. Giuseppe d’Alessio, battiloro, ne rimase capo, fu gridato capitano generale del popolo, sindaco perpetuo di Palermo. Los Velez s’imbarcò, ed Alessio fece da viceré, governò assoluto e pomposo. Altre cittá si sollevarono. L’Alessio perdé il cervello, richiamò il viceré; ed unitisi, viceré, nobili ed ecclesiastici insieme, e stancandosi, al solito, il popolo, fu preso e decapitato, l’Alessio con una dozzina d’altri o piú, e tutto tornò come prima. — Né diversamente in Napoli, quantunque ivi fosse l’estremo della tirannia spagnuola. Narra il Botta che piú di cento milioni di scudi, cioè un cinquecentocinquanta milioni di franchi, i quali al ragguaglio del valore attuale de’ metalli sarebbono un miliardo e piú, furono tratti dal Regno in tredici anni [1631-1644] da due viceré; e che molte famiglie di Puglia e Calabria migrarono a’ turchi; e che un viceré si vantò di lasciar il Regno ridotto a tale, che quattro famiglie non vi rimanevano ove si [p. 69 modifica]potesse cuocere una buona vivanda; e che disse un altro; — E’ si lagnano di non poter pagare? Vendan le mogli e le figliuole! — Succedette un viceré men cattivo, l’almirante di Castiglia, un respiro; ma poi il duca d’Arcos, di nuovo predatore e crudele. Il quale non sapendo piú di quale erba far fascio, quali gabelle aggiungere alle tante poste e cresciute, posene una sulle frutte, che sono lá pascolo de’ piú poveri. Al 7 luglio 1647, volendosi levar la nuova tassa, un fruttaiuolo rovescia irato i panieri, e li calpesta; si fa tumulto, e vi si pone a capo Masaniello, un pescivendolo, bel giovine e di credito fra’ popolani. S’avventano a’ palazzi de’ nobili, e vi rompono ed ardono quanto possono, ma senza predare; gridano voler i privilegi, lo Stato come era sotto Carlo V, ma non rinnegano l’obbedienza al re presente, e come in Sicilia, fanno un capitano generale del popolo, Masaniello. E questi pure governa con prudenza, giustizia e gran pompa alcuni dí. Cento sedici mila della milizia napoletana ei rassegna, non caccia il viceré, ne è trattato da pari a pari. Dura cosí un otto dí; poi anch’egli n’impazza a un tratto, dopo una visita al viceré che fu creduto l’attossicasse. Ma è chiaro che sarebbe stato piú facile e piú spedito farlo ammazzare, che farlo impazzir con veleno. Ad ogni modo, abbandonato dal popolo, alcuni congiurati l’ammazzarono a schioppettate come una fiera [16 luglio]. Il popolo lo seppellí con tardi onori, e non si posò. Fecero un secondo capitano generale, un nobile, Toraldo principe di Massa; e insospettitine, l’uccisero. Ne fecero un terzo, un popolano, archibusiere, Gennaro Annese. Sotto il quale o piú ribelle o traditore, o forse or l’uno or l’altro, s’inasprí il popolo, rinnegò l’obbedienza, ricorse al papa e a Francia da’ quali fu respinto, e al duca di Guisa, un signor venturiere francese discendente dagli Angioini. Venne costui, e governò il popolo coll’Annese; poi si guastò con lui, e Annese si raccostò all’Ognate nuovo viceré; e i due insieme, coll’almirante di Castiglia venuto su d’una flotta spagnuola, cacciarono il duca, che fu preso e condotto a Spagna, e tenutovi prigione a lungo; mentre l’Annese traditore fu tradito dagli spagnuoli, e preso pur esso e decapitato ed impiccati alcuni altri popolani. E cosí [p. 70 modifica] finirono queste sollevazioni [1648]. Poco appresso il Mazzarino le volle ravvivare, e mandò con una flotta francese il principe Tommaso di Savoia, giá tutto spagnuolo, or avido di tôrre a Spagna un regno. Ma questi non approdò nemmeno. Succeduto poi a Filippo IV il figliuolo di lui, Carlo II, incapacissimo ed ultimo degli Austriaci spagnuoli [1665], sollevossi [1674] Messina, e chiamò francesi, e bandí re Luigi XIV, e guerreggiossi ivi e in gran parte dell’isola quattro anni; fino a che Luigi XIV e i francesi l’abbandonarono, e gli spagnuoli incrudelirono nelle vendette. — Ed anche a Fermo si tumultuò in simili modi, cioè inutilissimamente. Noi vedemmo giá intorno alla metá del secolo decimoquinto il tempo aureo delle congiure. Ora alla metá di questo decimosettimo si può dir quello delle sollevazioni popolari ne’ principati (perciocché non parlo di quelle fatte giá nelle nostre repubblichette, dove elle furono quasi mezzo legale o costituzionale di governo). Del resto, inefficaci vedemmo le congiure, ed inefficaci vediamo le sollevazioni. Ma, scellerate le prime senza dubbio e sempre, niun uomo ardirebbe dir sempre scellerate le seconde; non quelle sorte senza congiura, senza ambizioni, per giusta ira comune contro ad una vera e scelleratissima oppressione. Ma qui sta il punto, qui la gran differenza tra quelle sollevazioni del Seicento, e quelle che si fanno o si vorrebbon fare nell’Ottocento; ché allora appunto erano reali ed estreme le oppressioni, le tirannie, e toglievano le vite o i mezzi delle vite, le ultime sostanze al popolano, alla moglie ed a’ figli di lui: mentre ora non sono tali tirannie; e ciò che «tirannia» si chiama, non pesa su quelle vite o quell’ultime sostanze, né nemmeno su que’ popolani, ma piuttosto od anche solamente sulle ambizioni, sulle opere de’ ricchi nobili o borghesi, sulla partecipazione che essi desiderano a’ governi; la quale, sia pur giustamente desiderata, non è desiderata dall’universale del popolo, non importa a lui. Dal che si conchiude poi facilmente: primo, che quelle sollevazioni del Seicento furono senza paragone piú innocenti che non sono o sarebbon queste nostre; e secondo poi, che se quelle piú innocenti e sorte dall’offese vere fatte agli interessi popolari furono pure mal sorrette [p. 71 modifica]dal popolo, molli, brevi, insufficienti, inefficaci, tanto piú è naturale che sieno queste, le quali si fanno o farebbono senza il motore degli interessi universali.