<dc:title> Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Cesare Balbo</dc:creator><dc:date>1846</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Balbo, Cesare – Storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, Vol. II, 1914 – BEIC 1741401.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Della_storia_d%27Italia_dalle_origini_fino_ai_nostri_giorni/Libro_settimo/17._Una_digressione&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20180426224406</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Della_storia_d%27Italia_dalle_origini_fino_ai_nostri_giorni/Libro_settimo/17._Una_digressione&oldid=-20180426224406
Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni - 17. Una digressione Cesare BalboBalbo, Cesare – Storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, Vol. II, 1914 – BEIC 1741401.djvu
[p. 73modifica]17. Una digressione. — Io non so lasciare il tristo Seicento, senza
spender alcune righe a combattere qui uno storico sempre eloquente e
ben intenzionato, per vero dire, ma troppo sovente cattivo politico, a
parer mio, cattivo intenditor de’ tempi che descrive, e di quelli a cui
scrive. Il quale dice dunque di questi del Seicento: «Gran differenza
si osservava allora in Italia fra i paesi soggetti alla signoria
spagnuola ed a quella di Savoia d’un lato, e le due repubbliche di
Venezia e di Genova, lo Stato ecclesiastico e la Toscana dall’altro:
quelli erano infelicissimi; questi se non appieno felici, almeno in
minor grado di infelicitá costituiti. Della quale diversitá assai
manifesta è la cagione: i primi obbedivano a signori che si dilettavan
di guerra; i secondi, a chi era amatore di pace». Ora io qui [p. 74modifica]veggo tre
errori importanti a notare, siccome quelli d’uno scrittore il quale è
forse piú di nessun altro nelle mani de’ nostri compatrioti; tre errori
dico, uno storico, uno politico, ed uno filosofico o morale. — Errore
storico o di fatto parmi il dire, che fossero egualmente o similmente
infelici i popoli della monarchia di Savoia e quelli delle province
spagnuole. Certo le sollevazioni popolari cosí frequenti, cosí grosse,
cosí centrali de’ due regni spagnuoli, non furono nella monarchia di
Savoia. Qui non s’ebbero, se non quelle molto minori, parziali, e per
cause speciali, de’ valdesi e di Mondoví. E qui, all’incontro, fu
fatta una sollevazione, tutta lealtá ed amore, da’ torinesi contra a’
francesi, un dí del 1611, che si sparse la voce, aver questi morto
il duca Carlo Emmanuele I; il quale fu pure il principe di Savoia
che abbia mai stancato di piú guerre e piú tasse i popoli suoi.
Ancora, quell’altro Carlo Emmanuele II che morí in mezzo al popolo
suo introdotto in palazzo (di che non so forse una piú bella scena in
nessuna monarchia), quel Carlo Emmanuele II, egli pure avea stanco di
guerra nella prima metá del regno suo e stanco di edificazioni nella
seconda metá i popoli suoi. Come tuttociò? Come tant’amore reciproco?
Certo, o bisogna dire che i piemontesi d’allora fossero il piú vil
popolo del mondo ad amar cosí i loro oppressori (il che è dimostrato
falso dalla loro perseveranza ed alacritá militari, che son qualitá
incompatibili coll’avvilimento de’ popoli); o bisogna dire che fosse
pure alcun che, che unisse que’ principi e que’ popoli piemontesi
sinceramente, strettamente, appassionatamente tra sé, a malgrado le
gravezze. Né è poi difficile a scoprire quell’alcun che. Appunto,
perché non vili originariamente, e non corrotti dalla invecchiata
civiltá e dalle scellerate politiche del resto d’Italia, ma anzi
nuovi, ma virtuosamente rozzi e quasi antichi erano que’ piemontesi,
perciò virtuosamente, alacremente soffrivano le inevitabili gravezze
recate dagli stranieri, e pesanti sui principi loro non meno che
su essi; e soffrendole insieme, si compativano, si stringevano, si
amavano; ed insieme con amore operando, erano meno infelici nelle
sventure, felicissimi ne’ ritorni di fortuna. E poi, qual paragone
fare tra le gravezze, [p. 75modifica]tra le tasse piemontesi, fossero pure eccessive
ma rimanenti in paese, e quel miliardo che lo stesso Botta accenna
portato via in tredici anni dal solo Regno di qua del Faro? Qual
paragone tra le vite spente sui campi, od anche tra gli stenti di
guerra, e quelle spegnentisi a poco a poco sotto alle spoliazioni
fatte dai viceré stranieri, e lor cortigiani spagnuoli o regnicoli, e
lor donne, e lor servi, ed i servi de’ loro servi? Quale sopratutto
(se agli effetti umani si miri solamente) tra la stessa immoralitá,
libera almeno, della corte piemontese, e quelle infami parole, «vendan
le mogli e le figliuole»? No, no, non son sogni poetici o filosofici,
sono realitá della natura umana (non cosí corrotta, grazie al cielo,
come la dicono troppo sovente quello ed altri storici piangitori),
sono realitá le consolazioni della nazionalitá, dell’unione, del
sacrifizio, dell’amor reciproco di principi e popoli, concordemente
soffrenti o trionfanti. — Piú grave ancora parmi l’error teorico o
politico del dividere l’Italia del Seicento troppo innaturalmente:
Savoia indipendente e province spagnuole da un lato, e tutti gli altri
Stati piú o meno dipendenti dall’altro lato. Qui è tutto perduto
di vista quel sentimento d’indipendenza, che è giá altrove troppo
sovente negletto da quello ed altri scrittori di nostre storie; e
che, ripetiamolo, è quello pure che ispira e guida senza eccezione
tutte le storie dell’altre nazioni antiche e moderne. Quando cosí
veramente, come non furono, fossero stati del paro infelici Piemonte
indipendente e province spagnuole, quando del paro piú felici gli altri
Stati italiani, la divisione non dovrebbe farsi a questa norma della
felicitá, ma a quella sempre, a quella sola della indipendenza. O siamo
italiani, o non siamo. Ma se, come certo il voleva ed era Botta, noi
siamo; non sono i gradi di felicitá, ma quelli della nazionalitá, a
cui dovremmo badare per istabilir le differenze, le divisioni degli
Stati italiani. Dal dí, che, sceso Carlo VIII, incominciarono ad essere
in Italia Stati stranieri e Stati nazionali, questa differenza fu, è,
e sará sempre la essenziale da osservare; quella, rimpetto a cui non
sarebbe da badare a felicitá, se non che appunto la felicitá materiale
per lo piú (si ritenga a mente il miliardo), e sempre poi la [p. 76modifica]morale
(si ritenga il consiglio di vender moglie e figliuole), furono, sono
e saranno dalla parte della nazionalitá o indipendenza. — Finalmente,
error morale o filosofico mi par che sia il dire cosí assolutamente
causa d’infelicitá la guerra, causa di felicitá la pace. Noi viviamo
in tempi di pace, e, dirollo francamente contro a molti di qua e di
lá, virtuosa perché operosa pace, in generale. Ma se, ma quando o dove
la pace nostra non fosse operosa, quando e dove somigliasse a quella
oziosissima in che marciva tanta parte d’Italia nel Seicento, io
m’affido che nessuno un po’ altamente senziente direbbe piú siffatta
pace felice. Certo cbe le vite degli uomini sono un gran che; certo
che lo spegner vite in pace a vendetta, a profitto privato od anche
pubblico, senza missione, od anche con missione, ma senza necessitá,
è un gran delitto; e ciò fu mostrato, ciò svolto mirabilmente da un
altro illustre scrittor nostro, il Gioberti, nelle piú belle pagine di
lui. Ma in guerra, ma lá dove il sacrifizio delle vite è volontario,
legittimo, bello e santo, egli è pure talor felice a chi il fa, e
sempre alla patria per cui si fa; ed è, perdonamelo tu, o figliuol mio,
meno crudele agli stessi sopravviventi. Senza sacrifizio della vita
non si fa nulla di grande, nulla anzi di normale in questo mondo. Il
mondo va innanzi a forza di vite sacrificate. Una vita divina ed umana
sacrificata è il piú gran fatto della storia umana. Una intiera metá
del genere umano, quella che chiamiamo la debol metá, fa il sacrifizio
della vita continuamente per noi. Senza un sacrifizio uguale, senza
il compenso della guerra principalmente, la viril metá rimarrebbe
inferiore a quella chiamata debole; non compenserebbe sacrifici con
sacrifici, non darebbe vita per vita a quelle dolci creature che gliela
offrono ogni dí. E in Italia, dove pur troppo colla scemata operositá
sono scemate le occasioni de’ pericoli virili, non è opportuno, né
virtuoso, scemar con parole la dignitá della guerra; dico, della
legittima guerra in difesa o ricuperazione de’ diritti della patria o
della cristianitá. — E mi si perdoni essermi fermato a segnalar siffatti
errori. Gli errori de’ grandi sono i soli che ne vaglian la pena; e chi
ciò fa, fa atto di rispetto a lor grandezza.