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Della tirannide (Alfieri, 1927)/Libro primo/Capitolo V

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Capitolo V

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Capitolo Quinto

Dell’ambizione.

Quel possente stimolo, per cui tutti gli uomini, qual piú qual meno, ricercando vanno di farsi maggiori degli altri e di sé; quella bollente passione, che produce del pari e le piú gloriose e le piú abbominevoli imprese, l’ambizione in somma, nella tirannide non perde punto della sua attivitá, come tante altre nobili passioni dell’uomo, che in un tal governo intorpidite rimangono e nulle. Ma l’ambizione nella tirannide, trovandosi intercette tutte le vie e tutti i fini virtuosi e sublimi, quanto ella è maggiore, altrettanto piú vile riesce e viziosa.

Il piú alto scopo dell’ambizione, in chi è nato non libero si è di ottenere una qualunque parte della sovrana autoritá; ma in ciò quasi del tutto si assomigliano e le tirannidi e le piú libere e virtuose repubbliche. Tuttavia, quanto diversa sia quell’autoritá parimente desiata, quanto diversi i mezzi per ottenerla, quanto diversi i fini allor quando ottenuta siasi, ciascuno per se stesso lo vede. Si perviene ad un’assoluta autoritá nella tirannide, piacendo, secondando e assomigliandosi al tiranno; un popolo libero non concede la limitata e passeggera autoritá, se non se a una certa virtú, ai servigi importanti resi alla patria, all’amore del ben pubblico in somma, attestato coi fatti. Né i tutti possono volere altro utile mai che quello dei tutti; né altri premiare se non quelli che arrecano loro quest’utile. È vero nondimeno che possono i tutti alle volte ingannarsi, ma per breve tempo; e l’ammenda del loro errore sta in essi pur sempre. Ma il tiranno, che è uno solo ed un contra tutti, ha sempre un’interesse non solamente diverso, ma per lo piú direttamente opposto a quello di tutti: egli dée dunque rimunerare chi è utile a lui; e quindi, non che premiare, perseguitare e punire debb’egli chiunque veramente tentasse di farsi utile a tutti. [p. 26 modifica]

Ma, se il caso pure volesse che il bene di quell’uno fosse ad un tempo in qualche parte il bene di tutti, il tiranno, nel rimunerarne l’autore, pretesterebbe forse il ben pubblico; ma, in essenza, egli ricompenserebbe il servigio prestato al suo privato interesse. E cosí colui che avrá per caso servito lo stato (se pure una tirannide può dirsi mai stato, e se giovar si può ai servi, non liberandoli prima d’ogni cosa dalla lor servitú) colui pur sempre dirá ch’egli ha servito il tiranno, svelando con queste parole o il vile suo animo o il suo cieco intelletto. Ed il tiranno stesso, ove la paura sua e la dissimulazione che n’è figlia, non gli vadano rammentando che si dée pur nominare, almeno per la forma, lo stato, il tiranno anch’egli dirá, per inavvertenza, di aver premiato i servigi prestati a lui stesso.

Cosí Giulio Cesare scrittore, parlando di Giulio Cesare capitano e futuro tiranno, si lasciava fuggir dalla penna le seguenti parole: «Scutoque ad eum (ad Cæsarem) relato Scœvæ centurionis, inventa sunt in eo foramina ccxxx: quem Cæsar, ut erat de se meritus et de republica, donatum millibus ducentis, etc.»1. Si vede questo passo dalle parole, de se meritus, quanto il buon Cesare, essendosi pure prefisso nei suoi Commentarii di non parlar di se stesso se non alla terza persona, ne parlasse qui inavvertentemente alla prima; e talmente alla prima che la parola de republica non veniva che dopo la parola de se, quasi per formoletta di correzione. In tal modo scriveva e pensava il piú magnanimo di tutti i tiranni, allorquando non si era ancor fatto tale; quando egli stava ancora in dubbio se potrebbe riuscir nella impresa; ed era costui nato e vissuto cittadino fino a ben oltre gli anni quaranta. Ora, che penserá e dirá egli su tal punto un volgare tiranno? colui che nato, educato tale, certo di morire sul trono, se ne vive fino alla sazietá nauseato di non trovar mai ostacoli a qualunque sua voglia? [p. 27 modifica]

Risulta, mi pare, da quanto ho detto fin qui che l’ottenere il favore di un solo attesta pur sempre piú vizi che virtú in colui che l’ottiene, ancorché quel solo che lo accorda, potesse esser virtuoso; poiché, per piacere a quel solo, bisogna pur essere o mostrarsi utile a lui, mentre la virtú vuole che l’uomo pubblico evidentemente sia utile al pubblico. E parimente risulta dal fin qui detto che l’ottenere il favore di un popolo libero, ancorché corrotto sia egli, attesta nondimeno necessariamente in chi l’ottiene, alcuna capacitá e virtú; poiché, per piacere a molti ed ai piú, bisogna manifestamente essere, o farsi credere, utile a tutti; cosa che, o da vera o da finta intenzione ella nasca, sempre a ogni modo richiede una tal quale capacitá e virtú. In vece che il mostrarsi piacevole ed utile a un solo potente col fine di usurparsi una parte della di lui potenza, richiede sempre e viltá di mezzi e picciolezza di animo e raggiri e doppiezze e iniquitá moltissime, per competere e soverchiare i tanti altri concorrenti per lo stesso mezzo ad una cosa stessa.

E quanto asserisco mi sará facile il provar con esempi. Erano giá molto corrotti i romani, e giá giá vacillava la lor libertá, allorché Mario, guadagnati a sé i suffragi del popolo, si facea console a dispetto di Silla e dei nobili. Ma si consideri bene quale si fosse codesto Mario; quali e quante virtú egli avesse giá manifestate e nel fòro e nel campo; e tosto si vedrá che il popolo giustamente lo favoriva, poiché (secondo le circostanze ed i tempi) le virtú sue soverchiavano di molto i suoi vizi. Erano i francesi, non liberi (che stati fino ai dí nostri non lo sono pur mai), ma in una crise favorevole a far nascere libertá ed a fissare per sempre i giusti limiti di un ragionevole principato, allorché saliva sul trono Arrigo quarto, quell’idolo dei francesi un secolo dopo morte. Sully, integerrimo ministro di quell’ottimo principe, ne godeva in quel tempo, e ne meritava, il favore. Ma se si vuole per l’appunto appurare qual fosse la politica virtú di codesti due uomini, ella si giudichi da quello che fecero. Sully ebbe egli mai la virtú e l’ardire di prevalersi di un tal favore e di sforzare con evidenza di ragioni [p. 28 modifica] inespugnabili quell’ottimo re a innalzare per sempre le stabili e libere leggi sopra di sé e dei suoi successori? e se egli ne avesse avuto l’ardire, si può egli presumere che avrebbe conservato il favore di Arrigo? Dunque codesto favore di un tiranno, anche ottimo, non si può assolutamente acquistar dal suo suddito per via di vera politica virtú; né si può (molto meno) per via di vera politica virtú conservare.

Esaminiamo ora da prima i fonti dell’autoritá. I mezzi per ottenerla nelle repubbliche sono il difenderle e l’illustrarle, lo accrescerne l’impero e la gloria, rassicurarne la libertá, ove sane elle siano; il remediare agli abusi, o tentarlo, se corrotte elle sono; e in fine, il dimostrar loro sempre la veritá, per quanto spiacevole e oltraggiosa ella paia.

I mezzi per ottenere autoritá dal tiranno sono il difenderlo, ma piú ancora dai sudditi che non dai nemici, il laudarlo, il colorirne i difetti, lo accrescerne l’impero e la forza, l’assicurarne l’illimitato potere apertamente, s’egli è un tiranno volgare; lo assicurarglielo sotto apparenza di ben pubblico, s’egli è un accorto tiranno; e a ogni modo, il tacere a lui sempre, e sovra tutte le altre, questa importantissima veritá: «Che sotto l’assoluto governo di un solo, ogni cosa debb’essere indispensabilmente sconvolta e viziosa». Ed una tal veritá è impossibile a dirsi da chi vuol mantenersi il favor del tiranno; ed è forse impossibile a pensarsi e sentirsi da chi lo abbia ricercato mai, e ottenuto. Ma questa manifesta e divina veritá riesce non meno impossibile a tacersi da chi vuol veramente il bene di tutti; e impossibile finalmente riesce a soffrirsi dal tiranno, che vuole, e dée volere, prima d’ogni altra cosa, il privato utile di se stesso.

Le corti tutte son dunque per necessitá ripienissime di pessima gente; e, se pur il caso vi ha intruso alcun buono, e che tale mantenervisi ardisca e mostrarsi, dée tosto o tardi costui cader vittima dei tanti altri rei che lo insidiano, lo temono e lo abborriscono, perché sono vivamente offesi dalla di lui insopportabil virtú. Quindi è che, dove un solo è signore di tutto e di tutti, non può allignare altra compagnia, se non se [p. 29 modifica] scellerata. Di questa veritá tutti i secoli e tutte le tirannidi han fatto e faranno indubitabile fede; e con tutto ciò, in ogni secolo, in ogni tirannide, da tutti i popoli servi ella è stata e sará pochissimo creduta e meno sentita. Il tiranno, ancorché d’indole buona sia egli, rende immediatamente cattivi tutti coloro che a lui si avvicinano; perché la sua sterminata potenza, di cui (benché non ne abusi) mai non si spoglia, vie maggiormente riempie di timore coloro che piú da presso la osservano; dal piú temere nasce il più simulare; e dal simulare e tacere, l’esser pessimo e vile.

Ma dall’ambizione nella tirannide ne ridonda spesso all’ambizioso un potere illimitato non meno che quello del tiranno; e tale che nessuna repubblica mai, a nessuno suo cittadino, né può né vuole compartirne un sí grande. Perciò pare ai molti scusabile colui che, essendo nato in servaggio, ardisce pure proporsi un cosí alto fine di farsi piú grande che lo stesso tiranno, all’ombra della di lui imbecillitá o della di lui noncuranza. Risponda ciascuno a questa obiezione, col domandare a se stesso: — Un’autoritá ingiusta, illimitata, rapita, e precariamente esercitata sotto il nome d’un altro, ottener si può ella giammai, senza inganno? Può ella esercitarsi mai, senza nuocere a molti, e per lo meno ai concorrenti ad essa? Può ella finalmente mai conservarsi, senza frode, crudeltá e prepotenza nessuna? —

Si ambisce dunque l’autoritá nelle repubbliche, perché ella in chi l’acquista fa fede di molte virtú, e perch’ella presta largo campo ad accrescersi quell’individuo la propria gloria coll’util di tutti. Si ambisce nelle tirannidi, perché ella vi somministra i mezzi di soddisfare alle private passioni, di sterminatamente arricchire, di vendicare le ingiurie e di farne, senza timor di vendetta, di beneficare i piú infami servigi e di fare in somma tremare quei tanti che nacquero eguali o superiori a colui che la esercita. Né si può in verun modo dubitare che, nella repubblica e nella tirannide, gli ambiziosi non abbiano questi fra loro diversi disegni. Giá prima di acquistare l’autoritá, il repubblicano benissimo sa che non potrá egli sempre serbarla; che non [p. 30 modifica] potrá abusarne, perché dovrá dar conto di sé rigidissimo ai suoi eguali; e che l’averla acquistata è una prova che egli era migliore, o piú atto da ciò che non i competitori suoi. Cosí, nella tirannide, non ignora lo schiavo che quella autoritá ch’egli ambisce, non avrá nessun limite, ch’ella è perciò odiosissima a tutti, che lo abusarne è necessario per conservarla, che il ricercarla attesta la pessima indole del candidato, che l’ottenerla chiaramente dimostra ch’egli era tra i concorrenti tutti il piú reo. Eppure codesti due ambiziosi, queste cose tutte sapendo giá prima, senza punto arrestarsi, corrono entrambi del pari la intrapresa carriera. Ora, chi potrá pure asserire che l’ambizioso in repubblica non abbia per mèta la gloria piú assai che la potenza? e che l’ambizioso nella tirannide si proponga altra mèta, che la potenza, la ricchezza e la infamia?

Ma non tutte le ambizioni hanno per loro scopo la suprema autoritá. Quindi, nell’uno e nell’altro governo, si trova poi sempre un infinito numero di semi-ambiziosi, a cui bastano i semplici onori senza potenza, ed un numero ancora piú infinito di vili, a cui basta il guadagno senza potenza né onori. E milita anche per costoro, nell’uno e nell’altro governo, la stessa differenza e ragione. Gli onori nelle repubbliche non si rapiscono coll’ingannare un solo, ma si ottengono col giovare o piacere ai piú; ed i piú non vogliono onorare quell’uno, se egli non lo merita affatto; perché, facendolo, disonorano pur troppo se stessi. Gli onori nella tirannide (se onori chiamar pur si possono) vengono distribuiti dall’arbitrio d’un solo; si accordano alla nobiltá del sangue per lo piú, alla fida e total servitú degli avi, alla perfetta e cieca obbedienza, cioè all’intera ignoranza di se stesso, al raggiro, al favore; e, alcune volte, al valore contro gli esterni nemici.

Ma gli onori tutti (qualunque siano), sempre per loro natura diversi in codesti diversi governi, sono puranche, come ognun vede, per un diverso fine ricercati. Nella tirannide, ciascuno vuol rappresentare al popolo una anche menoma parte del tiranno. Quindi un titolo, un nastro o altra simile inezia, appagano spesso l’ambizioncella d’uno schiavicello; perché questi onorucci fan [p. 31 modifica] prova, non giá ch’egli sia veramente stimabile, ma che il tiranno lo stima; e perché egli spera non giá che il popolo l’onori, ma che lo rispetti e lo tema. Nella repubblica, manifesta e non dubbia cosa è per qual ragione gli onori si cerchino: perché veramente onorano chi li riceve.

L’ambizione d’arricchire, chiamata più propriamente, «cupidigia», non può aver luogo nelle repubbliche, fin ch’elle corrotte non sono: e quando anche il siano, i mezzi per arrichirvi essendo principalmente la guerra, il commercio, e non mai la depredazione impunita del pubblico erario, ancorché il guadagno sia uno scopo per se stesso vilissimo, nondimeno per questi due mezzi egli viene ad essere la ricompensa di due sublimi virtú: il coraggio e la fede. L’ambizione d’arricchire è la piú universale nelle tirannidi; e quanto elle sono piú ricche ed estese, tanto piú facile a soddisfarsi, per vie non leggittime, da chiunque vi maneggia danaro del pubblico. Oltre questo, molti altri mezzi se ne trovano; e altrettanti esser sogliono quanto sono i vizi del tiranno e di chi lo governa.

Lo scopo che si propongono gli uomini nello straricchire è vizioso nell’uno e nell’altro governo; e piú ancora nelle repubbliche che nelle tirannidi; perché in quelle si cercano le ricchezze eccessive, o per corrompere i cittadini, o per soverchiar l’uguaglianza; in queste, per godersele nei vizi e nel lusso. Con tutto ciò, mi pare pur sempre assai piú escusabile l’aviditá di acquistare, in quei governi dove i mezzi ne son men vili, dove l’acquistato è sicuro e dove in somma lo scopo (ancorché piú reo) può essere almeno piú grande. In vece che nei governi assoluti, quelle ricchezze che sono il frutto di mille brighe, di mille iniquitá e viltá e dell’assoluto capriccio di un solo, possono essere in un momento ritolte da altre simile brighe, iniquitá e viltá, o dal capriccio stesso che giá le dava o che rapire lasciavale.

Parmi d’aver parlato di ogni sorta d’ambizione che allignare possa nella tirannide. Conchiudo che questa stessa passione, che è stata e può essere la vita dei liberi stati, la piú esecrabil peste si fa dei non liberi.


Note

  1. Essendogli (a Cesare) portato lo scudo del centurione Sceva da dugento trenta saette traforato, Cesare lo regalò di dugentomila, ecc., come benemerito di Cesare, e della repubblica. Cesare, Della guerra civile, lib. III.