Delle antiche Relazioni fra Venezia e Ravenna/Capitolo V
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Capitolo V.
Crociata contro Ezzelino da Romano. I Veneziani contrastano ai Ravennati il possesso delle ripe del Po.
Guerra contro Ezzelino da Romano impresa dai Veneziani e condotta da Filippo Fontana arcivescovo ravennate. — Dell’indole dell’arcivescovo Filippo, de’suoi costumi e di alcuni strani casi della sua vita. — Difende contro ai Veneziani le sue ragioni sulle ripe del Po. — Di un antico patto (inedito) pel quale dovea esser libera la navigazione del Po (1177). — De’ cinque maliziosi accorgimenti che secondo il Salimbene ebbero i Veneziani in un trattato coi Ghibellini di Ravenna per edificare un castello sul Po. — Parole del Podestà di Ravenna su questo negozio. — Come a suo avviso i Ravennati vivessero nell’abbondanza. — Guerra coi Veneziani e disfatta dei Ravennati. Questo fatto è taciuto dagli storici. — Trattato III fra Ravenna e Venezia nel 1251 (inedito). Dichiarazione dei capitoli. — Si determina la quantità delle merci e delle derrate necessarie al contado ed alla città di Ravenna che rinuncia a’ suoi commerci in favore dei Veneziani. — Il castello di Marcamò. — Il Vicedomino veneziano in Ravenna. — Deposizioni di due testimoni interrogati in Chioggia quarantasei anni dopo sulla edificazione del castello e sulla guardia che già faceva ab antico una galera veneziana presso S. Alberto, acciò non passassero merci contro ai bandi del doge di Venezia (inedito). — Le angherie dei Veneziani divengono incomportabili. — Nella carestia del 1268 Venezia non trova in Italia chi l’ajuti. — Si vendica impacciando i commerci degli altri Italiani. — I Bolognesi murano un castello sul Po. — Assaliti dai Veneziani, menomati dalle febbri e dal disagio degli insetti, si obbligano ad atterrare il castello ed a rispettare il Vicedomino ed il vessillo dei Veneziani in Ravenna. — Giudizio del Salimbene sopra i Veneti suoi contemporanei e di quanta rovina fossero le violenze de’ loro mercanti. — Pasio della Noce è chiamato in Ravenna a stabilirvi uno Studio di leggi.
I Veneziani e l’arcivescovo di Ravenna contro Ezzelino.
I. Non avea l’Italia capitano più esperto, principe più accorto, animo più indomabile di Ezzelino da Romano nella metà del secolo terzo decimo; ma perchè nello incrudelire
superò per modo tutti gli altri tiranni che anche a quei tempi parve incomportabile mostro, il papa bandiva una crociata, ed a chi prendeva l’armi contro a lui accordava quelle indulgenze medesime che erano riserbate ai liberatori del sepolcro di Cristo. Venezia emula della potenza di Ezzelino e commossa dalla vista de’ miseri Padovani rifuggiti nelle sue lagune con le membra ne’ tormenti arse e troncate, forniva le armi e le affidava a Filippo Fontana arcivescovo di Ravenna e legato papale che invitò il popolo adunato nella piazza di San Marco a venire armato al castello delle Bebbe. Predicò ancora in Ferrara gridando dal limitare della chiesa di San Giorgio ai Ferraresi ed ai Padovani ivi rifuggiti «che ormai era ora di finire le parole e di incominciare a fare ciò che fino allora si era promesso: che nessuno gli dicesse essere impossibile di combattere contro un uomo aiutato dal demonio, che anzi egli se altri non avesse che le vedove e gli orfani afflitti da Ezzelino, pure lo avrebbe assalito; che le sue iniquità erano giunte fino al Cielo e Iddio avrebbe contro a lui combattuto»1. Oltre ai Veneziani, secondo la cronaca del Carrari, cinquecento fanti ferraresi seguirono il legato; ebbe ancora tutti i fuorusciti di Padova, di Verona e di Vicenza, e da Bologna molta cavalleria.
Lieti e speranzosi partironsi i novelli crociati e con essi grande quantità di preti e di monaci, fra i quali uno fu per nome Claretto, che incontrato un contadino con tre cavalle, per forza gliene tolse una, e balzatovi sopra, agitando una pertica a modo di lancia, incominciò a correre in giro gridando: Animo soldati di Cristo, animo guerrieri di San Pietro, di S. Antonio! Alle pazze grida di costui novello ed inaspettato ardore si risvegliò ne’ soldati, ed il 18 di giugno il Legato alla testa del suo esercito ed attorniato da gran numero di preti cantando l’inno
Vexilla Regis prodeunt, |
ripetuto a gran voce da’suoi crociati, mosse da Pieve di Sacco verso Padova. La quale, cinta di triplice giro di mura e di buone fosse, era stata affidata da Ezzelino a mille e cinquecento difensori, mentre egli era andato in altro luogo temendo di perderla quanto Iddio teme di cadere dal cielo, che ben sapeva quanto disordinata ed imbelle era l’oste del Legato. Ma, partito il tiranno, il presidio era rimasto pavido ed incerto, e fortuna volle che fra i crociati si trovasse un santo frate che al secolo era stato ingegnere di macchine guerresche e come tale molto avea lavorato per Ezzelino preparando gli arieti, gatti e simili ingegni per prendere città e castella. Il Legato se lo fa venire dinanzi e per santa obbedienza gli comanda che, deposto il mansueto abito del beato Francesco, si vestisse di bianco e subito fabbricasse un gatto tale che per esso Padova potesse esser presa.
Il frate chinò umilmente il capo, e postosi all’opera, preparò una macchina che dinanzi ardeva ed appiccava il fuoco, e di dietro come il cavallo di Troja celava uomini armati. - Narrano tutte le istorie come la città fosse presa e come i crociati contaminassero il bel nome di liberatori; ma il Salimbene contemporaneo scrive che coloro che fecero tanto guasto non furono i soldati de parte Ecclesiae, cioè quelli del Legato, ma qui recesserunt de Padua. Allude alle sevizie del presidio di Ezzelino prima di lasciare la città o alle private vendette dei fuorusciti rientrati? Una lacuna lascia incerto il senso di questo passo. Istituiva poscia il Legato una festa annuale in onore di S. Antonio che a suo credere avea profetato tutti i dolori che i Padovani avevano sofferti da Ezzelino e miracolosamente avea cooperato alla liberazione dell’affitta città.
E mentre aperte le prigioni di Padova, uscivano a torme le misere vittime del tiranno, mutilate dal ferro e dal fuoco e semivive per la fame ed il difetto d’aria, nello affliggere altre migliaja di creature, Ezzelino trovava conforto alla nemica fortuna, che solo quando per fame e per tormenti furono morti tutti i Padovani che lo aveano seguito, diceva di sentirsi alquanto consolato dell’avere perduta la terra loro.
Ma prendere Padova e mantenerla fu più facile per Filippo che il serbare l’ordine e la disciplina fra’ suoi: chè mentre apparecchiavasi ad assalire Vicenza, tutta la cavalleria a poco a poco si sbandò, e abbandonatolo se ne tornò a Bologna2 lasciando in mal punto il belligero prelato.
La guerra più volte interrotta fu poi nuovamente ripresa in luoghi diversi e con ajuti mutati. Così Filippo avea fanti da Brescia e cavalli da Mantova quando Ezzelino mosse notte tempo da Peschiera, e passato l’Oglio si unì all’oste dei Cremonesi. Il Legato non voleva combattere, ma chiudersi nel castello di Gambara aspettando ajuti: i Bresciani noi soffersero, e bramosi di venire alle mani si schierarono in ordine di battaglia, ne si mossero per vedere tosto comparire fra le tenebre grande moltitudine di nemici. Ma come gli antichi Greci
Ut videre virum fulgentiaque arma per umbras
Pars ingens trepidare metu, pars tollere vocem
Exiguam, inceptus clamor frustratur hiantes.
Chè appena scorsero Ezzelino medesimo, impauriti fuggirono d’ogni parte, e Filippo insieme al vescovo di Verona ed al podestà di Mantova rimase prigione. Non è poi certo come ne scampasse, leggendosi in alcune scritturo che si riscattò con una grande quantità di danaro fatto venire da Ravenna, ed in altre che Oberto Pallavicino divenuto signore di Padova dopo la morte di Ezzelino lo ritrovò tuttavia in catene, e che non valendo neppure le lettere del papa a farlo liberare, egli ajutato dai suoi fedeli riuscisse a fuggire notte tempo a Mantova.
Il Salimbene dice che Ezzelino usò ogni maggiore cortesia a Filippo, e che questi col soccorso di certo Gerardo da Reggio, che poscia fu fatto cardinale cioè canonico di Ravenna, calato dal carcere con una fune, uscì di mano al tiranno.
Ad ogni modo l’impresa ebbe fine con la rotta di Ezzelino presso il ponte di Cassano. Portato a Soncino, prigione e ferito, in mezzo agli attoniti sguardi delle genti accorse a vedere in ceppi l’uomo tanto aborrito e temuto, gli venne per modo in fastidio la vita che affrettò la morte strappandosi le bende o la cercò più pazientemente lasciandosi venir meno dalla fame.
E come Attila è rimasto l’archetipo di que’ rapaci condottieri dei barbari che discesero a guastare le terre d’Italia, così nella memoria di Ezzelino abbiamo la più viva immagine dei tiranni della età di mezzo, il simbolo della ferocia.
Che d’Attila dirò? che dell’iniquo
Ezzelin da Roman?
Ezzelino immanissimo tiranno
Ohe ha creduto tìglio del dimonio
Farà troncando i sudditi tal danno
Che pietosi appo lui stati saranno
Mario, Silla, Neron Cajo ed Antonio;
dice l’Ariosto. E fu già chi ne’ tormenti co’ quali Dante affligge i dannati trovò qualche reminiscenza di quelli che erano stati i patiti dagli uomini dei suoi tempi o dai loro padri: anche le paurose immagini dell’inferno egli trasse al dire d’alcuno dalla memoria ancora vivissima delle carceri di Ezzelino. Delle quali qui non farò cenno, nò descriverò le famose torri Zilie dove i vivi erano stipati insieme ai moribondi ed ai morti, e che, come il toro di Falaride, risuonarono la prima volta delle disperate strida dal loro artefice.
Per questo forse Dante pone Ezzelino insieme a quel
Dionisio fero
Che fè Cicilia aver dolorosi anni.
Ma di Ezzelino appena fa cenno: un centauro gli mostra gente tuffata nel sangue bollente sino alle ciglia, e dice:
Ei son tiranni
Che dier nel sangue e nell’aver di piglio.
E quella fronte ch’ha il pel così nero
È Azzolino.
Dell’indole e di alcuni casi dell’arcivescovo Filippo.
II. Che se Ezzelino ha il primato fra i tiranni, l’arcivescovo Filippo mandato ad atterrarne l’orgoglio, è il più cospicuo fra que’ cherici della età di mezzo, che destri ed astuti s’intromettevano nelle faccende politiche, facevansi guerrieri quando era d’uopo, e dimentichi delle cose ecclesiastiche miravano di continuo a levare se ed i suoi in altezza di stato. Molti particolari sopra di lui si ritrovano nella cronaca di frate Salimbene suo familiare, il quale lo dipinge come uomo di umor vario e capriccioso, ora melanconico, ora iracondo e così affamato dell’oro che non era cosa che da lui non si potesse ottener per danaro. - Ne a dire questo egli sembra mosso da odio, confessando invece che Filippo era sempre stato cortese e liberale seco e che aveva in grande amore lutto l’ordine dei francescani. E narra come incominciasse a prediligere questi frati quando udita la morte del Langravio, mentre egli era Legato in Germania, grande spavento gli prese di cader nelle mani di Corrado figlio dell’imperadore Federigo. Comandò che per più giorni la sua stanza non fosse aperta o corse ad un convento di francescani: palesatosi al’guardiano, gl’ingiunse di non parlare ad alcuno se non in sua presenza e non mai in tedesco ma sempre in latino. E preso l’abito di francescano ed aggiuntisi tre frati per compagni, cercava come uscire dalla città, ma trovando chiuse le porte rimaneva incerto di quel che dovesse fare, quando vide un grosso cane che strisciandosi per terra passò di sotto la porta: volle allora tentare il simigliante ma per la grossezza del ventre non poteva uscire, se non che il guardiano tanto durò a spingerlo innanzi a pedate che alla perfine passò. E capitato insieme ai tre frati ad una città vicina, andò al convento de’ francescani: il guardiano dimandò chi si fossero e d’onde venissero. Allora uno de’ compagni che solo sapeva il segreto, rispose: questi sono grandi lombardi, usate loro cortesia che tanto è più pregievole quanto è usata a sconosciuti. – E sedendo lietamente a mensa nella foresteria insieme al guardiano ed a dieci frati del luogo, parve al Legato di essere oramai al sicuro e fe’ cenno al compagno che prima avea parlato, che lo palesasse.
E quegli: sapete voi, disse, chi sia costui? Egli è il Legato del Papa; questo infino ad ora ignorano i miei compagni medesimi, e ve l’ho condotto perchè il Langravio è morto e qui non è a temere di Corrado. Allora tutti i frati incominciarono a tremare «siccome un giunco scosso nell’acqua» ma il Legato «non temete, disse, poiché foste cortesi meco. Sempre ho amato l’ordine del beato Francesco e sempre lo amerò maggiormente.» E si pensava di favorirlo quando, come sperava, fosse un giorno salito al pontificato.
Come anelasse al pontificato E questo suo ambizioso pensiero dette molto palesemente a conoscere in occasione della morte di Urbano IV.
Narra il Salimbene che essendo egli venuto per nave da Ravenna ad Argenta dove Filippo stava rinchiuso nella sua villa per cagione delle discordie che aveva col marchese d’Este e col Pallavicino, disse a certo Peregrino da Pisa suo familiare che volentieri avrebbe veduto l’arcivescovo per contargli certe novelle. - Ma udì che se ne stava sempre solo senza voler vedere alcun forestiere e che tutto il giorno passeggiava in su ed in giù per il palazzo cantando antifone alla Vergine e fermandosi ogni tanto a bere, che in ogni angolo delle sale avea un’anfora di vino sceltissimo che conservato in acqua freschissima a lui gran bevitore nella state era delizioso ristoro. Narrate a me le novelle, disse il Peregrino al Salimbene, ed io le riferirò, chè l’arcivescovo non ammette alcuno al suo cospetto. - Ebbene, disse il frate, è morto papa Urbano IV.
Corre il Peregrino a Filippo, e questi, udita la cosa, se ne rallegra assaissimo sperando di giungere finalmente al papato e per la fama e per le imprese sue, e principalmente per la predizione fattagli un dì a Tolentino da un negromante, che in sua gioventù Filippo molto avea studiata simile arte ed anche nella guerra contro Ezzelino avea condotto come astrologo un Everardo de’ frati predicatori.
E subito manda al Salimbene un piatto di pesci di mare ed una mezza torta. Un giovine paggio va al frate e gli dice: Ecco quanto il mio signore v’invia dal suo pranzo e vi chiede se davvero credete che il papa sia morto. - E il Salimbene risponde: Digli ch’io so per certo che il papa è morto e che il papato è vacante.
E Filippo invia un secondo e poscia un terzo piatto al Salimbene sempre ripetendo la dimanda se il papa era proprio morto, se egli ne era proprio sicuro. E quegli stanco del rispondere: Volete, disse, che in poche parole ve ne assicuri? In quella nave che e nel Po, c’è un frate minore ammalato, che fu presente alla sepoltura del papa e vi potrà dire quanto volete. - E i messi dell’arcivescovo tosto corsero a lui e lasciarono che il Salimbene mangiasse in pace. - Continuando poi il suo viaggio sino a Ferrara, il Salimbene trovò che in questa città tutti parlavano della morte del papa, che Filippo annunziando per primo la inaspettata novella ai Ferraresi sperava di farseli amici.
Ma al pontificato non pervenne mai, e più che nella storia ecclesiastica rimase famoso nella civile. - Nondimeno seppe egregiamente difendere le ragioni ed i dominj della chiesa ravennate specialmente contro i Veneziani. Introdusse in Ravenna l’ordine dei frati predicatori, ed ai francescani concedette la chiesa di San Pietro maggiore, ora detta di San Francesco, istituì la processione dell’arca dei santi che solennemente era portata nella chiesa di San Teodoro a Vultu, detta ora dello Spirito Santo, perchè più volte vi si era visibilmente a tutti mostrato nello eleggere i Ravennati arcivescovi. La si faceva il primo mercoledì dopo Pentecoste e i cittadini vi erano invitati dai pubblici banditori. Alla messa cantata dell’arcivescovo interveniva tutto il clero ed il potestà coi suoi famigli: in antico vi lasciava due ceri per la illuminazione del tempio, poscia durando il governo veneto ne lasciava quattro di quattro libbre ciascuno3.
Sevizie dell'arcivescovo Filippo Ma pure fatta anche ragione de’ tempi e della salvatichezza degli uomini coi quali ebbe a trattare, sembra che Filippo avesse un animo oltre ogni dire basso e crudele. - Co’ suoi famigli fu spietato a segno di farne legare uno alla nave e così rimorchiarlo da Ravenna ad Argenta, solo perchè nello apparecchiare le provvigioni avea dimenticato il sale, di maravigliarsi delle lacrime degli astanti mentre un infelice era per suo ordine legato ad ima pertica ed arrostito vivo; di lasciar perire in orrida prigione per inedia e por i morsi dei topi un suo castaldo toscano.
Se non ohe quando adirato volea dar l’ordine di condurrò un infelice ai tormenti o alla morie, v’era un mezzo por distoglierlo dal crudele proposito dicendogli: Veniamo ad altro, parliamo del futuro pontefice: la speranza, la smodata ambizione prevaleva allora al furore.
Aveva una famiglia terribile e feroce, scrive il Sa1imbene, vale a dire che egli era sempre attorniato da scellerati, i quali però aveano in grande venerazione i frati minori, sapendoli tanto accetti al loro fiero signore. Girava sempre con quaranta uomini bene armati a difesa di sua persona e le genti lo temevano come il diavolo, chè poco più era temuto Ezzelino da Romano: timebant eum sicut diabolum, nam Icilinus de Romano parum plus timebatur4.
E così se nel principio è cagione di meraviglia il vedere che i Veneziani per combattere Ezzelino affidarono le loro armi all’arcivescovo ravennate, la cosa apparisce più chiara udita l’indole di questo prelato: il papa ed i Veneziani l’ebbero scelto, memori forse del proverbio: «Che un diavolo caccia l’altro».
Di mala morte, come io diss:, morì Ezzelino: Filippo, secondo il Salimbene, sentendosi in fine della vita volle rivedere la sua città natia, e steso sovra un gran letto di legno, accompagnato da venti uomini che dieci per volta lo portavano sulle spalle, da Ravenna andò pian piano a Pistoia dove morì nel 1274 e fu sepolto nella chiesa de’ suoi prediletti francescani.
L’arcivescovo di Ravenna contrasta ai veneziani il possesso delle ripe del Po. III. I Veneziani aveano avuto l’arcivescovo ravennate per validissimo cooperatore nel loro disegno di abbattere Ezzelino e di condurre in rovina tutta la fazione dei ghibellini; ma nell’altro di signoreggiare da soli sulle ripe del Po dove grandissime erano le possessioni della chiesa di Ravenna, Filippo li contrastò a tutto potere. E così si ritrova che nell’anno 1259 Bono arcidiacono e vicario di Filippo stando in una certa torre dei Veneziani sul Po presso a Capo d’Orzo, a’ 13 di maggio in nome del suo arcivescovo protestava contro alle pretese della repubblica, ed intimava a Tomaso Morosini ed a Giovanni Tiepolo capitani delle galere di Venezia a non edificare altrimenti quel castello che la Signoria avea loro imposto di erigere, perchè questo sarebbe tornato a danno della chiesa di Ravenna che avea il dominio dell’isola da essi scelta a questo fine5.
Ma la chiesa ravennate contrastava invano il passo ai Veneziani, i quali impazienti di signoreggiare sul Po sembra che erigessero il castello malgrado le proteste dell’arcidiacono, trovandosi come due anni dopo (1261) l’arcivescovo Filippo mandò suoi procuratori a Venezia per ottenere risarcimento dei danni arrecatigli dai Veneziani nel territorio d’Argenta con la edificazione di un castello pel quale (come per le galere armate che erano nel Po) era impacciata la navigazione, impedito il commercio, cessato ogni provento del pedaggio6. Non ci rimane memoria della risposta dei Veneziani.
Antico trattato per la libera navigazione del Po. IV. Ma prima di seguitare a dire del modo che tennero i Veneziani per insignorirsi delle ripe de Po, è da ricordare come sino dal tempo in cui duravano i negoziati ed incerta ancora era la pace fra Federigo Barbarossa e la lega lombarda, fosse stata pattuita in Ferrara per opera di sei città italiane e specialmente di Ravenna e di Venezia, la libera navigazione di quel gran fiume. Questo patto, violato presto e dimenticato, rimase sconosciuto agli storici, ed io lo ritrovo in un documento inedito di cui mi è grato arricchire questo lavoro, e risale all’8 giugno 1177, ed è intitolato Patto di Ferrara: del tenere aperte a tutti le acque del Po7.
In esso sono nominati soltanto i messi di quelle città alle quali importava maggiormente il negozio o che in esso ebbero maggior parte. E queste furono Milano, Bologna, Modena, Mantova e più di tutte, innanzi a tutte Venezia e Ravenna. La prima avea mandato a Ferrara un Giovanni Veniero ed un Giacomo Casoli come nunzi del doge, più un Giovanni Micheli; la seconda due nunzij ed i suoi consoli in persona che furono un Vitale Pietro di Foscardo ed un Pietro da Santa Giustina.
Ed al cospetto, di questi e degli inviati delle altre città i Consoli di Ferrara giurarono nel generale Consiglio del Comune di aprire e mantenere per "sempre liberamente aperte a tutti le acque del Po, le quali non avrebbero potuto mai essere chiuse per nessuna ragione.
E di questo atto non rimane che la copia che settantasette anni dopo, cioè nel 1254, ne fece fare il doge Ranieri Zeno.
Ritornando ora alle contese che furono, tra Ravennati e Veneziani circa la metà del secolo XIII, ricorderò come finalmente uno speciale trattato fosse stato conchiuso fra questi ultimi e i ghibellini signori di Ravenna circa la edificazione di un castello sul Po ed è utile vedere come i contemporanei ne giudicassero.
Quanto grandi al dire dei contemporanei fossero le angherie dei Venaziani «Una volta (dice il Salimbene) tenendo la Signoria di Ravenna il Conte Ruggero di Bagnacavallo, vennero i Veneziani ed edificarono un castello nel territorio di Ravenna all’uscita delle valli sulla ripa del Po presso al canale che da Ravenna conduce a quello per le parti di S. Alberto, e, promisero ai Ravennati che essi avrebbero tenuto quel castello solo per ciuquant’anni e che per questa concessione avrebbero loro pagato cinquecenio lire di Ravenna; e per quanto ho veduto coi miei occhi (conchiude il frate) le pagavano davvero. Ma i Veneziani, (continua) in questo negozio ebbero cinque accorgimenti ovvero malizie.
«La prima fu che dovendo questa concessione durare il tempo predetto e non di più, ora invece si accingono i Veneziani a farla perpetua, tanto è vero che non solo lo dicono ma ancora lo mostrano coi fatti avendo rifatto di muro il castello che prima era di legno.
«La seconda è che per tal modo chiudono la via del navigare ai lombardi, perchè non possano più aver nulla nè dalla Romagna nè dalla Marca d’Ancona di dove potrebbero ricevere frumento, vino, olio, pesci, carne, sale, fichi, uova, formaggio ed ogni bene che gli uomini si possono procurare, se i Veneziani non lo impedissero.
«La terza è che in questo modo, i Veneziani percorrono queste due provincie di Romagna e di Marca raccogliendo tutte le predette derrate e prevenendo i Bolognesi nel comprare, i quali a cagione dello Studio (cioè della loro università) e per la moltitudine de’ cittadini e di stranieri, hanno urgente necessità d’avere copia di tutte queste cose. Nessuno meravigli adunque se i Bolognesi si sono levati ed hanno edificato un castello contro i Veneziani, che incontro a loro dovrebbero adirarsi ed insorgere i lombardi tutti ed assalirli con poderoso esercito poichè da essi provengono tutti questi mali.
«La quarta è che tengono sempre una nave armata nel porto di Santa Maria8 perchè nessuno vi passi con viveri chiudendo così ogni via ai Ravennati, ai Bolognesi ed a tutti i lombardi, lo che non era per niente nei patti.
«E la quinta è che tengono sempre in Ravenna a loro spese un magistrato che chiamano Vicedomino il quale ha per uficio di vigilare attentamente che i Ravennati non facciano alcuna macchinazione contro ai Veneziani lo clic non fu giammai nei patti».
È chiaro che il Salimbene alludeva ad un patto anteriore a quello del 1251 dove nel capitolo XXIV fu sancito quest’ultimo diritto della Republica. Ora io credo che del vicedomino non fosse avvenuto diversamente che del castello. I Veneziani prima lo edificarono e poi vollero riconosciuta la facoltà di lasciarlo per cinquantanni, e così inviarono forse il vicedomino a Ravenna, e dopo qualche tempo pattuirono il diritto di mantenervelo.
Parole del Podestà di Ravenna che a suo credere viveva nell’abbondanza. «Ho chiesto poi (dice il Salimbene) al Conte Ruggero di Bagnacavallo se egli avea fatto fare quel castello. E mi rispose: o frate, certamente io non lo ho fatto altrimenti che permettendo che si facesse, perchè quando fu edificato io avevo tanto d’autorità in Ravenna da impedire che fosse fatto. Ma l’ho permesso per tre ragioni: la prima perchè mia moglie era veneziana; la seconda a cagione de’ nemici ch’io avevo fuori di Ravenna, ciò è per resistere ai Guelfi fuorusciti procacciandomi l’amicizia e l’aiuto della Repubblica; la terza perchè io ne avevo un vantaggio dandomi i Veneziani cinquecento lire ravennati all’anno. Ed infine noi non abbiamo alcun danno, poichè tanta è la copia dei viveri in Ravenna che sarebbe pazzo chi ne cercasse di più, che per per un danaro piccolo si ha una gran scodella di sale piena e colma e così per lo stesso prezzo si danno alle taverne di Ravenna dodici uova cotte e monde: quando poi viene la stagione, io posso avere, se voglio, un’anatra selvatica grossissima per 4 danari9».
V. Ma ad ogni modo questa abbondanza non doveva durare lungamente, chè impazienti di dominare da soli sul Po, i Veneziani non mantennero i patti.
Ricominciarono le contese, ed alla perfine si venne alle mani; i Veneziani furono vincitori, e nel 1261 con una novella concordia mutarono in novelli diritti quanto pare già avessero fatto contro ragione.
Concordia del 1261 tra Ravennati e Veneziani. Infatti il 4 marzo 1261 al cospetto del doge Ranieri Zeno si convenne:
Che il Comune di Ravenna avrebbe permesso ai Veneziani di fabbricare un castello nel distretto di Ravenna presso Capo d’Orzo e di tenerlo per cinquant’anni, dopo i quali il castello sarebbe abbattuto, ed il terreno restituito al Comune di Ravenna, a ciò obbligandosi il Comune di Venezia sotto pena di mille marchi d’argento.
Che i custodi mandati dai Veneziani avrebbero avuta facoltà di togliere le merci e di incarcerare chiunque andava e veniva di Ravenna contro il disposto di questa concordia: ma se il contravventore era ravennate, non sarebbe messo in prigione: simile diritto avrebbero i Ravennati; ma se il contravventore era veneziano gli avrebbero prese le merci, ma non l’avrebbero punito col carcere.
Che se un nemico entrando nel territorio di Ravenna per recar danno agli abitanti, fosse passato pei luoghi dove stavano le guardie dei Veneziani, queste avrebbero dovuto difendere i Ravennati a tutto potere, i quali alla loro volta avrebbero contrastato il passo a chiunque avesse voluto andare ad offendere le guardie dei Veneziani o il loro castello.
Che i Veneziani non avrebbero eretto alcun altro castello nel territorio di Ravenna.
Che i Ravennati si sarebbero obbligati a non ricevere ed a vietare il transito alle merci che passassero per il Po, per le valli o per il loro porto senza licenza del doge di Venezia. Che però avrebbero potuto i Ravennati condurre ogni anno per le acque del Po senza alcuna gabella, sessantamila libbre di ferro per mille danari grossi di Ravenna; sessanta balle di fustagno santelarisio di pingnolati (drappo grosso usato dai poveri) ed altri panni per il loro uso.
Che i Ravennati non avrebbero consentito che a’ loro porti si portassero merci dalla Barberia, dalla Siria, dalla Romania, dalle Puglie, dal regno di Sicilia, da Alessandria e dall’altre terre di Egitto, nè d’oltre mare10, che però avrebbero potuto provvedersi in Venezia senza pagar dazio di bambagia, di cera e delle altre merci provenienti d’oltre mare, come facevano gli altri popoli vicini a Venezia.
Che non avrebbero ricevuto sale di Cervia nè per terra ne per acqua, fuori di mille e cinquecento libbre che doveano bastare per i bisogni della città e del territorio. Il rimanente avrebbero potuto portare dovunque fuorchè a Ravenna. Non potendosi trovare a Cervia la suddetta quantità di sale, i Veneziani si obbligano a dirla essi da Chioggia o da altra parte per un prezzo giusto e senza dazio.
Che i Ravennati potrebbero portare nel loro territorio, e non mai altrove, lino e commestibili per loro uso.
Che i Veneziani non avrebbero portato nelle acque e nel territorio di Ravenna merci de’suoi nemici, nè trovandole le avrebbero comperate o fatte comperare senza il suo consenso, purchè essi da qualsiasi parte venissero entrando il porto di Ravenna fossero salvi e sicuri negli averi e nelle persone, e potessero partirsene senza contrasto.
Che il Comune di Venezia si sarebbe obbligato a comprare dai cittadini di Ravenna o da altri mercanti, venticinque migliaia di sale, e più se più l’osse stato parche fosse buono e commerciabile.
Che i Ravennati sarebbero sicuri in Venezia ed in tutte le sue colonie, ed i Veneziani in Ravenna e nel suo territorio.
Che il Comune di Ravenna avrebbe conservato il diritto di esigere l’antico e consueto dazio sopra tutti i commestibili (eccetto il sale) che venivano a Ravenna per via di terra, avvertendosi che questo dazio avrebbe dovuto essere fissato dagli arbitri eletti a giudicare delle rappresaglie.
Che i Veneziani avrebbero potuto comperare mercanzie e vettovaglie in Ravenna, e senza dazio portarle a Venezia. Avrebbero poi potuto esportare grano insino a tanto che lo staio era venduto in Ravenna a dieci soldi; se il prezzo cresceva, il podestà ed il Comune di Ravenna, avrebbero avuto facoltà di far bandire che il grano non si potesse più esportare dalla città e dal territorio.
Che il Comune di Venezia si sarebbe obbligato a pagare ogni anno in Rialto al Comune di Ravenna quattromila e cento lire piccole di Venezia per quanto era contenuto in questi patti e specialmente per risarcimento del danno che il Comune di Ravenna avrebbe risentito per la perdita dei dazi sul sale e sulle altre merci, che per le acque di Ravenna e per il Po andavano in Lombardia. Ogni anno tale somma sarebbe pagata in due rate, a marzo ed a settembre.
Che sarebbero mantenute aperte le palafitte e le steccate fatte dai Veneziani lungo il canale di Capo d’Orzo e nelle altre acque di Ravenna, acciocché i Ravennati e gli altri navigatori potessero venire a Ravenna con le loro navi11.
Che gli abitatori della riva del Po, di Comacchio e del territorio di Ravenna avrebbero potuto andare e venire coi loro arnesi, panni da vestirsi e vettovaglie, ma non portare queste cose altrove nè venderle.
Che le chiese ed i privati cittadini di Ravenna avrebbero potuto far portare a Ravenna tutti i prodotti delle loro possessioni situate nel territorio o fuori, e così farli trasportare per le acque del Po fino al luogo del territorio dove essi abitavano purchè non fossero portati oltre il territorio ne fossero venduti, ma servissero al loro consumo.
Così i cardinali ovvero canonici di Ravenna avrebbero potuto portare in Argenta dieci misure di vino per beverlo, ma non per venderlo.
Che i banditi da Venezia e da Ravenna sarebbero richiamati senza riscatto e tutti i prigionieri di guerra incontamente rilasciati.
Che il doge ed il Comune di Venezia avrebbero posto un Vicedomino in Ravenna che vi avrebbe dimorato di continuo, e che a sua richiesta il podestà ed il Comune di Ravenna avrebbe fatto valere i presenti patti e ne avrebbe punita la violazione.
Che sarebbero nominati due arbitri l’uno dai Veneziani l’altro dai Ravennati per conoscere e giudicare dei danni che si dicevano cagionati da quelli di Ravenna ai Veneziani. E stabilito minutamente il tempo ed il modo del giudizio e del risarcimento delle offese, si dichiara che si allude alle rappresaglie avvenute sino alla guerra a cui il presente trattato dovea por fine.
Che il podestà di Ravenna avrebbe fatto giurare pubblicamente e porre negli statuti questa concordia perchè tutti i futuri podestà nell’assumere l’uficio ne giurassero la osservanza.
Ed ambe le parti si obbligarono a mantenerla fedelmente sotto pena di duemila marchi d’argento12.
Questo trattato fa palese una guerra fra Veneziani e Ravennati VI. Questo trattato ne annunzia ciò che da nessuno storico è riferito, come dal 1251 al 1261 non vi fosse mai ferma pace tra Veneziani e Ravennati, come dopo lunga tenzone venissero al sangue, e come i primi fossero provocatori ed assalitori, leggendosi in uno dei capitoli del trattato esposto disopra: «E queste cose si intendano stabilite sulle rappresaglie e sopra i danni dati dall’una parte e dall’altra dal tempo della concordia fatta fra il Comune di Venezia e messer Ruggero suo fratello, e gli uomini di sua parte che allora tenevano Ravenna sino alla guerra presente incominciata dal Comune di Venezia contro il Comune e gli uomini di Ravenna».
I Ravennati niente altro facevano che difendere i loro antichi diritti; i Veneziani per acquistare maggior dominio sul Po si erano fatti assalitori. E frutto della loro vittoria si fu questo trattato del 1261, pel quale Ravenna dallo fazioni debilitala ed impoverita cedeva tutte le speranze del suo commercio alla prevalente vicina, chiudendo a pro di questa il suo porto alle navi del Levante della Sicilia e dei lidi meridionali d’Italia, facendo il suo territorio inospito ed impervio a’ mercatanti e solo aperto alle merci dei Veneziani. Ed alle cose promesse i Ravennati rimasero fedeli più che non solessero fare i Veneziani, che quando nel 1267 i Bolognesi lamentarono che i loro mercanti pagavano nel territorio ravennate soverchi pedaggi, i Ravennati risposero che avrebbero fatto quanto potevano per favorirli purchè non portassero merci con le navi, poichè volevano mantenere la fede ai patti recentemente stipulati col doge di Venezia, nè potevano cedere un diritto che più non aveano pieno per se medesimi.
I Veneziani fecero ancora il computo della quantità del sale e del ferro, de’ panni necessari ai Ravennati e non permisero che n’avessero in maggior copia; appena lasciarono al podestà il diritto di bandire la esportazione del grano quando era da temere che la città ne rimanesse sprovvista del tutto. Del resto mille e cinquecento libbre di sale, sessantamila libbre di ferro di Lombardia e sessanta balle di fustagno e d’altri panni parve dovessero bastare ogni anno ai bisogni della città e del contado. Ma chi avrebbe imposto a que’ giorni a Venezia ed a Genova la misura delle derrate necessarie a’ loro industri cittadini ognor più numerosi?
Le cittadinesche riotte erano state cagione in Ravenna di rapine di ogni maniera e talmente aveano distratto gli animi dal lavoro, che la città era rimasta povera d’avere e di speranze, nè forse allora fu insano consiglio il vendere ai Veneziani un commercio che i cittadini più non potevano nè sapevano esercitare.
E siccome delle ricchezze avviene talora ciò che si manifesta nella materia, la quale spiega la forza di attrazione tanto più gagliarda quanto maggiore è la sua massa, così vedendo Venezia richiamare a se tutti i traffichi dei porti vicini, sebbene ne incresca il decadimento di Ravenna, non ci rifiatiamo a credere che questa unificazione di forze, tuttochè a que’ tempi apparisse il contrario, alla perfine tornasse utile all’universale delle genti ed accrescesse splendore alla civiltà d’Italia. Quanto poi si trova detto della Lombardia è da intendere ancora di tutta la pianura del Po in generale e come dice Dante da Vercelli fino alla foce del gran fiume dove appunto era stato eretto il castello di Marcabò cagione di tanto contrasto:
Rimembriti di Pier da Medicina
Se mai torni a veder lo dolce piano
Che da Vercelli a Marcabò dichina.
Strana è poi la definizione che il Salimbene dà di questo nome dicendo «i Veneziani lo chiamarono Marcamò ciò è il mare gridò per il rumore che vi fanno le tempeste».
Cresce in Italia l'odio contro ai Veneziani. VII. Ma intanto l’odio contro i Veneziani cresceva in tutta Italia: «i Veneziani uomini avari, cocciuti, superstiziosi, dice il contemporaneo Salimbene, vorrebbero soggiogare tutto il mondo, se potessero, e trattano villanamente i mercanti che vanno a loro. Vendono a gran prezzo in molti luoghi del loro territorio e prendono molti pedaggi alla volta dalle persone medesime.
«E se un mercante porta le sue merci a vendere in Venezia non può riportarle indietro, voglia o non voglia è costretto a venderle colà. Se poi una nave carica non veneziana è costretta a piegare alla loro spiaggia, non la lasciano ripartire se prima non ha quivi venduto le mercanzie, dicendo che la nave è venuta al loro lido per divino volere al quale non si deve contrastare».
E per questo quando nel 1268 Venezia ebbe difetto di vettovaglie e per la nemicizia coi Genovesi e per la crociata di Re Luigi IV non poteva provvederle di fuori.
indarno oblio ricorso alle città italiane che furono ben liete di vedere ridotta a mal punto la rapace e prepotente vicina.
Di ciò accortisi i Veneziani tutto ordinarono a modo di non aver più bisogno di esse, e con l’imperatore Michele Paleologo e col Soldano di Tunisi rinnovarono i loro trattati per modo che ebbero il privilegio di esportare grano dalle loro contrade. E dalla Rarberia e dalla Sicilia e dallo parti meridionali d’Italia e più di tutto dall’Inghilterra veniva grano a Venezia, dai dominj del signore di Ferrara, del patriarca di Aquileia, del conte di Gorizia il grano talora doveva esservi portato anche gratuitamente, sicchè la città che non avea tanto di terra da pittarvi un seme, divenne il granaio di tutta Italia.
E contro a coloro che le aveano negato ogni aiuto, trovò dura vendetta, che essendo signora dell’Adriatico potè impacciare per modo le navigazione di quel mare; che i Siciliani, i Genovesi ed i Pisani ne ebbero gravissimi danni. Ma peggio stavano le città vicine a Venezia, come Treviso, Padova, Ferrara, Bologna, Ravenna, Ancona, che neppure potevano comunicare fra di loro, poichè un grosso tributo era imposto ad ogni nave che solcasse l’Adriatico a settentrione del capo di Ravenna da una parte e del golfo di Fiume dall’altra, e tutti i porti dell’Adriatico, da quello di Venezia in fuori, erano chiusi al sale ed alle altre merci.
Primi se ne lamentano i Bolognesi, e poichè gli oratori loro sono male accolti in Venezia, incominciano a murare un castello a Primaro sul Po e lo compiono malgrado che un naviglio veneto giunto improvvisamente con molti e svariati ingegni di guerra tenti di impedirne la edificazione; si afforzano allora i Veneziani nel loro castello di S. Alberto sull’altra riva del fiume; accorrono i Bolognesi aiutati da alcune città lombarde con quarantamila uomini (tanto era universale l’odio contro i Veziani) e dopo varia fortuna sono vincitori, ma l’anno dipoi sono fieramente travagliati dall’oste di Marco Gradenigo e di Paolo Dandolo.
Stanchi alla perfine di questa guerra lunga ed infruttuosa e perdute alcune centinaia di guerrieri più che per le ferite per la malignità dell’aere e per la moltitudine degli insetti13 e Bolognesi e Veneziani si piegarono ai consigli di papa Gregorio IX, ed il 15 d’agosto 1273 per mezzo di tre frati la pace fu conchiusa e poscia ratificata in Venezia. In questa pace i Veneziani promisero ai Bolognesi che avrebbero lasciato liberamente passare ventimila corbe di frumento ogni anno da Cremona e dalle Romagne, e trenta migliaia di sale da Cervia per l’alimento della loro città, ponendo guardie venete a visitare il carico a Sant’Alberto ed a Primaro, ed i Bolognesi giurarono di disfare il castello e di non impedire gli antichi diritti che la repubblica avea sopra Ravenna, specialmente quello di tenervi un visdomino (che già vi risiedeva) e di far sì che (per quanto stava in essi) le insegne dei Veneziani potessero stare spiegate senza timore di insulti nel porto di Ravenna.
Così i Bolognesi disfecero il castello, e molto legname di esso fu donato ai frati minori di Ravenna. Gran parte della preda ebbero i Ravennati per il possente aiuto prestato ai Bolognesi, ma non senza contrasto: che in sul principio dell’anno 1272 Anselmo da Imola essendo potestà di Bologna dichiarò in consiglio che essi non avevano diritto alcuno nella preda, che invece dovevano restituire quanto di essa vi aveano lasciato sei soldati bolognesi morti di recente in Ravenna per le ferite riportate alla battaglia di Primaro, e che se questa restituzione era negata, bisognava romper guerra ai Ravennati. Ma Luchino Gattalusio che presto gli succedette nella podesteria fece le meraviglie come dopo tanta ma dell’alleanza co’ Ravennati se ne facesse rosi poco conto, corno dopo esserne stati così validamente e senza mercede alcuna aiutati nel cacciare i Veneziani da Primaro, si volesse loro invidiare una parte della preda e propose di lasciargliela tutta dando invece cento lire di Bologna agli eredi dei guerrieri defunti in Ravenna, e mantenere l’alleanza con quel Comune.
Si fonda in Ravenna uno Studio di leggi.
VIII. E circa questo tempo pensandosi a fondare in Ravenna uno Studio di leggi, dopo varie ricerche fu scelto a dottore Pasio della Noce giovine bresciano; e strano è a vedere come questo Studio fosse ordinato. Che Pasio, quasi fosse un capitano di ventura, giurò nel consiglio di venire in Ravenna per San Michele conduccndo e facendo abitare di continuo nella città 30 scolari; nessuno di essi poteva essere romagnuolo o di quelli che fin d’allora studiavano leggi in Ravenna. Doveano venire provveduti del libro che sarebbe stato letto nella scuola; non doveano essere servidori d’alcuno; il giorno di san Luca doveano essere tutti in Ravenna. Se qualcuno di essi avesse voluto denari in prestito dal Comune avrebbe avute lire venti tre se sarà di qua dai monti, trenta se oltramontano ciò è non italiano.
Pasio avrebbe letto il libro fino al suo compimento, ne’ giorni e nelle ore stabilite, avrebbe difeso e procurato l’incremento del suo Studio, non avrebbe dato mai consiglio tacito nè palese contro ad un cittadino ravennate, ed ove occorresse avrebbe gratuitamente difese le ragioni del Comune. Ed accettata la paga di centocinquanta lire ravignane all’anno, Pasio fu ammesso al giuramento, essendo minore di ventitre anni e maggiore di quattordici.
E queste cose ricorda la cronica manoscritta del Carrari14, ma non dice quale età dovessero avere i discepoli di così giovine maestro.
Si trova poi come i Ravennati s’adoperassero a tutto potere per avere un convento di frati domenicani i quali più e più volte pregati vennero finalmente a Ravenna per scegliere un luogo acconcio alla edificazione del convento, e poscia mancando il danaro per comperare e ben disporre l’edificio, si stabilì che a detti frati fossero date mille lire che il Comune di Ravenna in forza dei trattati doveva ancora ricevere dai Veneziani15.
Note
- ↑ Salimbene, Cronica.
- ↑ Leggo nel Carrari: Il Comune di Bologna in detto anno (1256) comprò molti schiavi sul suo contado dando per ciascuno da 14 anni insù lire 10 e da 14 anni in giù lire 8 e i loro padri ebbero i beni di questi schiavi. I, pagina 371. Copia nella Classense di Ravenna.
- ↑ Statuti, Fani, iv cccliii. Statuta Lib. I, Rub. 31.
- ↑ Salimbene, Cronica.
- ↑ Fant. Mon. Rav., T. V, pag. 337; Arch. Arc. Rav.
- ↑ Arch. Arc. Rav., Capsa F., num. 2286.
- ↑ Arch Gen. Venezia Pactum Ferrarie De tenenda aqua Podi omnibus aperta. Doc. III.
- ↑ Forse nel porto di Sancta Maria ad Pharum presso la Rotonda.
- ↑ Pag. 251-254: et aliquando vidi quod si quis vellet deplumare decem anates habebat medietatem.
- ↑ Il documento ha qui una lacuna. Noi trattato del 1323 si ritrovano le stesse parole e si legge dopo: ultra mare, dal che per analogia argomento che si debba leggere anche qui. Qualche volta si trovano designati come ultra mare i porti da Cervia in giù come Rimini ed Ancona.
- ↑ Et salvo quod fenarola debeat stare clausa et .... sicut est amodo.
- ↑ Doc. IV. In calce a questo trattato si trovano due deposizioni di testimoni i quali furono interrogati nel palazzo comunale di Chioggia l’anno 1291 sul tanto contrastato negozio del Castello. Il primo interrogato fu un Pace di Boninsegni da S. Alberto, il quale davanti a Marino Giorgi podestà di Chioggia depose «di avere udito dai suoi padri e visto egli stesso che prima che fosse eretta la fortezza di Marcabò, i Veneziani tenevano presso S. Alberto una galera armata (munita), la quale di li iacea la guardia per tutte quelle valli e bocche (buchas) che stanno fra la fenarolam e San Biagio acciocchè di lì non passassero merci contro il bando del Doge di Venezia, e dice che anche allora si iacea lo stesso a difesa del castello edificato a Marcabo».
Secondo ad essere interrogato lo stesso giorno e dinanzi agli stessi fu un Calbuccio, ravennate stabilito a Chioggia.
Costui depose «che prima della edificazione del castello di Marcabò per più anni vide co’suoi occhi una galera armata tenuta dai Veneziani a S. Alberto, la quale Iacea la guardia da Primaro usque ad caput dorzum et usque fenarolam onde per quelle valli e quelle bocche non transitassero merci contro il bando, guardia che in oggi è fatta dai custodi che abitano nel castello nuovamente edificato». E queste testimonianze furono trascritte dal notajo Giovanni Zito. Non si può rinvenire la causa per cui si volle far constatare che Venezia da tempo antichissimo sorvegliava quei luoghi: forse da queste prove trasse poi argomento il Doge Pietro Gradenico a volere in perpetuo libera la navigazione del Po asserendo che il diritto dei Veneziani esisteva a tanto tempore cujus non est memoria. (Patto 7 gennaio 1299, Pacta IV, eh. 113). Ad ogni modo queste deposizionici fanno conoscere questi particolari che altrimenti sarebbero ignorati. - ↑ Ex intemperie marini aeris et propter multitudinem culicum et pulicum et muscarum et asylorum Salimbene.
- ↑ Pag. 402-401.
- ↑ Fant. Mem. Raven. III, num. 76. - Il Pasolini accenna ad un trattato con Ravenna nel 1265, il Darù nel 1269; ma di questi due trattati non ritrovo altra memoria.
- Testi con annotazioni a lato
- Pagine con link a Wikipedia
- Testi in cui è citato Vincenzo Carrari
- Testi in cui è citato Salimbene de Adam
- Testi in cui è citato Ludovico Ariosto
- Testi in cui è citato Dante Alighieri
- Testi in cui è citato Papa Urbano IV
- Testi in cui è citato Papa Gregorio IX
- Testi in cui è citato Marco Fantuzzi
- Testi SAL 75%
- Testi che usano NMIS