Don Chisciotte della Mancia Vol. 2/Capitolo XLIX

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Capitolo XLIX

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CAPITOLO XLIX.


Narrasi ciò che avvenne a Sancio Panza visitando la sua isola.



NN
oi abbiamo lasciato il gran governatore molto irritato e malcontento per causa del contadino impostore e imbroglione, il quale era indettato dal maggiordomo e questi dal duca per darsi buon tempo alle spalle di Sancio. Egli però non lasciavasi vincere da alcuno tuttochè rozzo, zotico e grossolano; e così disse a quelli ch’erano seco e al dottore Pietro Rezio, il quale (com’ebbe fine il segreto della lettera del duca) era tornato in sala. — Ora sì che sono veramente in istato di poter concludere che i giudici e i governatori sono, o debbono essere di bronzo per non sentire le importunità dei negozianti, che ad ogni ora ed in ogni tempo, pensando solo al proprio vantaggio, vogliono esser uditi e sbrigati, nasca quello che sa nascere: chè se il povero giudice non li ascolta e disbriga, o perchè non può o perchè non è opportuno il tempo di dar loro udienza, tosto lo maledicono, mormorano, gli tagliano i panni addosso e vanno dissotterrando e scardassando le sue genealogie. O negoziante sciocco, negoziante scimunito, non ti affrettare tanto, attendi che il tempo e le circostanze ti offrano comodità di fare i negozii; non presentarti all’ora del pranzo nè a quelle del dormire, chè i giudici sono di carne e di ossa, e debbono anch’essi conceder alla natura quello che essa esige. Ben è vero che io non do alla mia il suo bisogno per cagione del signor dottore Pietro Rezio Tiratinfuora che mi sta [p. 439 modifica]dinanzi, il quale vorrebbe farmi morir di fame ostinandosi a dire che questa morte è vita; e così sia per lui e per tutti quelli della sua razza: e ripeto che intendo dei cattivi medici, chè quanto ai buoni si può riserbar loro una palma„.

Restavano ammirati tutti quelli che conoscevano Sancio Panza udendolo sì spiritosamente parlare, nè sapevano altro pensare, se non che gli uffizii e le cariche di somma importanza raddrizzano o storpiano l’umano intendimento. Finalmente il dottore Pietro Rezio Agurio di Tiratinfuora promise di apprestargli per quella sera la cena, quantunque con ciò trasgredisse le regole ed precetti degli aforismi tutti d’Ippocrate. Questa promessa soddisfece il governatore, che molto ansioso attendeva la sera e l’ora del refiziarsi: e tuttochè a parer suo il tempo se ne stesse immobile senza scorrere pur di un minuto, contuttociò arrivò finalmente il punto tanto da lui bramato nel quale gli apparecchiarono un piccatiglio o carne battuta di vacca con cipolla e con un paio di zampe di vitella attempata. Egli vi si buttò addosso con maggior gusto che se gli avessero dato francolini di Milano, fagiani di Roma, vitelle di Sorrento, pernici di Morone o paperi di Lavascios. Mentre stava cenando, voltatosi al dottore, gli disse: — Avvertite, signor dottore, di non lasciarvi d’ora innanzi cadere in mente di somministrarmi nè vivande delicate nè squisiti manicaretti; perchè sarebbe uno stravolgere il mio stomaco accostumato a nutrirsi di capra, di bue, di [p. 440 modifica]prosciutto, di carne salata, di rape e di cipolle. Il volermi costringere a cibi e vivande signorili, egli è rendermi schizzinoso e produrmi anche la nausea. Tutto ciò che può fare lo scalco si è di presentarmi di quelle che si chiamano olle podride, che quanto più sono podride tanto meglio per me; ed in esse può frammischiare tutto ciò che vuole, purchè sia cosa da mangiare, che io gliene avrò obbligo, e potrà essere che un dì o l’altro io lo ricompensi. E nessuno burli con me perchè o siamo o non siamo governatori: viviamo pure tutti e mangiamo in santa pace e in ottima compagnia, chè quando Iddio manda il sole lo manda per ognuno. Io governo quest’isola senza perdere quel diritto che mi si compete e senza pigliare più di quello che mi si appartiene: ora ognuno stiasi in cervello, e abbia occhi in testa, perchè io gli fo sapere che il diavolo è sottile, e che se sarò provocato farò vedere cose di stupore; chè non si ha a fare il mele perchè venga mangiato dalle mosche. — Per certo, signor governatore, disse lo scalco, vossignoria ha tutta la ragione in ciò che dice; ed io guarentisco in nome di tutti gli abitatori di quest’isola che obbediranno a vossignoria con ogni puntualità e amore e benevolenza, perchè il soave modo di governare che la signoria vostra ha mostrato in questi primordii, non dà luogo di fare o pensare cosa che ridondi in di lei mal servigio. — Lo credo bene, rispose Sancio: e sarebbero una mano d’ignoranti se pensassero od operassero diversamente: ripeto che abbiasi cura del mio sostentamento e di quello del mio leardo, ch’è ciò che più m’importa e fa più al caso mio; e se adesso è l’ora a proposito andiamo a rondare; giacchè è mia intenzione di tener monda quest’isola da ogni genere di sozzure e di gente vagabonda, scioperata ed oziosa. Voglio che sappiate, amici miei, che la gente raminga o infingarda è nelle repubbliche come le cattive api negli alveari, che mangiano il mele lavorato dalle pecchie industriose. Io poi nel mio governo voglio aiutare i contadini, mantener intatti ai cittadini i loro privilegi, premiare i virtuosi, rispettare la religione, onorare i suoi ministri. Che vi pare, o amici, di questi miei proponimenti? Se sono buoni, credete voi che gitterò la liscia e il sapone? — Vossignoria parla con tanto criterio, disse il maggiordomo, che pare impossibile che da un uomo che non sa leggere nè scrivere possano scappar fuori sentenze e avvertimenti sì diversi da ciò che si aspettavano quelli che ci hanno mandato qua, e noi altri che ci siamo venuti. Ogni dì si vedono cose nuove nel mondo; le burle si convertono in verità, e gl’ingannatori si trovano ingannati„.

Giunse la notte, ed il governatore cenò con licenza del signor [p. 441 modifica]dottore Rezio. Allestita poi ogni cosa per la visita dell’isola, uscì egli accompagnato dal maggiordomo, dal segretario, dallo scaleo e dall’istorico che aveva la cura di registrare tutte le sue geste. Lo seguitarono pure gli sgherri, e notai in tanto numero che potea formarsene uno squadrone. Camminava Sancio nel mezzo colla bacchetta del comando in mano, ch’era un contento il vederlo; e scorse ch’ebbero poche strade della Terra, udirono un fracasso di gente che quistionava. Volarono subito a quel luogo, e trovarono due uomini a duello, i quali vedendosi sorpresi dalla giustizia non si mossero, ma uno di loro si fece a dire: — Ognuno stia quieto: come si ha a tollerare che in questo paese i ladri rubino di bel mezzogiorno, ed escano ad assassinare in mezzo alla pubblica strada? — Fermatevi, galantuomo, disse Sancio, e raccontatemi il motivo di questa contesa, chè io sono governatore„. L’uno dei due disse: — Signor governatore, gliela conterò io e alle brevi: saprà vossignoria che costui ha vinto poco fa, nella casa di bisca che sta qui dirimpetto, più di mille reali, e Dio sa in che maniera; e trovandomi io presente ho giudicato più di un punto dubbioso in suo favore contro a tutto quello che mi dettava la coscienza. Vedendo egli di aver fatto un buon guadagno si alzò per andarsene quando io mi aspettava qualche premio dovuto alle persone autorevoli come sono io, e che stanno al bene e al male per aiutare i torti ed evitare le liti; ma egli intascò i suoi denari e uscì di casa. Io gli tenni dietro subito, e con buone e cortesi parole gli chiesi che mi desse almeno otto reali, sapendo che io sono persona onorata, e che non ho arte nè parte; perchè i miei non me l’hanno insegnate; ma il birbante, che non è manco ladro di Caco nè manco mariuolo di Andadiglia, non volea darmi più di quattro reali; sicchè noti, signor governatore, che razza di coscienza ha costui: ma giuro a Dio che se non arrivava qua vossignoria io gli avrei fatto vomitare il guadagno, e gli avrei insegnato il modo di procedere coi miei pari. — E voi che ne dite?„ dimandò Sancio all’altro. E questi rispose ch’era vero quanto il suo avversario diceva, ma che non gli avea offerto se non quattro reali, perchè spesso gliene dava altrettanti, e quelli che stanno sulle vincite, debbono essere facili e corrivi, e pigliare con viso allegro quanto viene loro dato, senza mettersi in lizza con coloro che giuocano, quando non sappiano con certezza che sono barattieri, e che il guadagno è mal acquistato. A prova poi ch’egli era onest’uomo, e non ladro, come diceva colui, gli pareva di non dovergli dar nulla; chè sempre i mariuoli sono tributarii degli speculatori di questa razza.

— E la cosa è per appunto cosi, disse il maggiordomo, [p. 442 modifica]sicchè la signoria vostra, signor governatore, decida ciò che si dee fare di questi uomini. — Ecco quello che si deve fare, disse Sancio: voi che avete vinto, siate pure di buona o di cattiva fede, o indifferente, pagate subito a questo vostro avversario cento reali, e di più vi condanno a sborsarne trenta a vantaggio dei poveri che stanno in carcere; e voi che non avete arte nè parte, e andate a zonzo per quest’isola, siate bandito e per tutto dimani fate di andarne fuori senza potere più tornare per dieci anni, sotto pena che se rompete il confine abbiate da finirla all’altra vita; perchè io vi farò mettere alla berlina, e poi vi consegnerò al boia io medesimo: e nessuno zittisca, altramente saprò punirlo col rigore delle leggi.

L’uno contò il danaro, l’altro lo ricevette; parti questi dell’isola, tornossi quello a casa sua, e il governatore restò quivi dicendo: — O io non ho facoltà, o se la ho, voglio distrutte queste case di giuoco, le quali, per quanto vado conoscendo, sono assai pregiudicevoli. — Quella però in cui furono questi galantuomini, disse allora un notaio, non potrà farla dimettere, mentre n’è proprietario un gran signore, ed è senza paragone molto più quello ch’egli perde in capo all’anno che quello ch’egli guadagna. Vossignoria potrà mostrare la sua autorità contro i perdigiorno di vile razza plebea, ch’è quella che fa maggior danno ed è più scostumata, ma non contro le persone di grado distinto fra cui i famosi mariuoli non osano di mettere in campo le loro trame. E poichè il [p. 443 modifica]giuoco si è convertito in un esercizio comune, è meglio che segua nelle case ragguardevoli piuttostochè in quelle di qualche artigiano dove acchiappano l’incauto da mezzanotte in giù, e lo scorticano vivo. — Notaio mio, disse Sancio, molto ci sarebbe da dire su questo proposito„. Arrivò intanto uno sgherro che conduceva legato un giovane, e disse: — Signor governatore, costui se n’andava per la strada medesima da noi battuta; ma non iscorse appena la giustizia che voltò le spalle, e si diede a fuggir come un daino: segno ch’è qualche delinquente. Io l’ho inseguito, e se non fosse ch’egli inciampò e cadde, non l’avrei raggiunto mai più. — E perchè fuggivi tu, galantuomo? dimandò Sancio. — Per sottrarmi, questi rispose, alle perquisizioni che sogliono essere fatte dalla giustizia. — Quale è la tua professione? — Il tessitore. — E che vai tessendo? — Ferri da lancia, con buona licenza di vossignoria. — Oh sei grazioso! e’ ti piace di fare il buffone: va bene: e dove andavi tu adesso? — A pigliare un po’ di aria fresca, o signore. — E dove si piglia in quest’isola? — Dove soffia. — Bravo, mio giovinotto: tu rispondi molto a proposito, e si vede che sei giudizioso: fa dunque conto adesso che io sia l’aria che ti soffia in poppa, e però t’incammino e mando alla prigione. Pigliatelo olà, e menatelo via, poichè intendo che in questa notte dorma in luogo che non abbia aria fresca. — Oh corpo di.... tanto potrà vossignoria farmi dormire in prigione come farmi re. — E perchè non ti potrò io far dormire in prigione? non è forse in arbitrio mio il prenderti e liberarti come e quando mi piace? — Per quanto si estenda il suo potere ella non sarà mai da tanto da farmi dormire in prigione. — E come no? menatevelo subito, disse Sancio agli sgherri; e vedremo se io dica da vero o no: e se mai il bargello volesse con costui usare di qualche liberalità per suo interesse, e lo lasciasse fare un passo solo fuori della carcere, pagherà duemila ducati di multa. — Tutto questo è da ridere, disse il giovinotto: il fatto sta che non mi faranno dormire in prigione quanti uomini oggidì vivono al mondo. — Dimmi, demonio, disse Sancio, hai tu forse qualche angelo che te ne cavi e che possa toglierti quelle catene che fo conto di metterti ai piedi? — Signor governatore, rispose subito il giovane con molto buon garbo, mi ascolti, e venghiamo al punto: concediamo che la signoria vostra mi faccia condurre in prigione, e che quivi m’incatenino dalla testa ai piedi, e che mi mettano in un carcere sotterraneo, e che sia minacciato il bargello dei più severi gastighi se mi lascia escire fuora, e ch’egli serva fedelmente al comando; ma, domando io, se non ho volontà di dormire, e se mi piace di stare svegliato tutta la notte senza [p. 444 modifica]mai chiudere occhio, potrà vossignoria con tutto il suo gran potere farmi dormire? — No, certamente, disse il segretario, e quest’uomo ha conseguito il fine che si è proposto. — Di maniera che, disse Sancio, tu non lascerai di dormire per altro che per tua volontà e non per contravvenire alla mia? — Signor no, disse il giovane, neppure per sogno. — Vattene dunque con Dio, disse Sancio, va a dormire a casa tua, e Dio ti dia buon sonno chè io non voglio frastornarlo; ma ti consiglio di non ischerzare altra volta colla giustizia perchè potrai correre rischio che la giustizia ti dia per burla nella testa„.

Partì il giovane, ed il governatore proseguì la sua ronda, ed indi a poco si videro due servi di sgherri che si facevano seguitare da un uomo legato. Costoro dissero così: — Signor governatore, quello che vedete qua, che pare uomo, non lo è già, ma sì bene femmina e non brutta, travestita in abito virile„. Le accostarono al viso due o tre lanterne, al chiarore delle quali scoprirono una feccia di donna che sembrava contare sedici anni o poco più; avea i capelli raccolti in bella rete d’oro e di seta verde, ed era leggiadra come un sole. La squadrarono dall’alto al basso, e videro che portava un paio di calzette di taffettà bianco, e frangia ricamata di perle minute; i calzoncini erano verdi di tela d’oro, ed aveva ricca e sciolta casacca, sotto alla quale portava il giubbone di finissima tela d’oro e d’argento. Le scarpe erano bianche e da uomo; non avea cinta spada, ma daga e pugnale bellissimi, e nelle dita molle e nobilissime anella. La giovane piaceva a tutti, ma non era riconosciuta da niuno fra quanti le posero gli occhi addosso, e i naturali del paese dichiararono di non saper immaginare chi fosse. Coloro stessi ch’erano a parte delle burle che dovevansi fare a Sancio, si maravigliarono più degli altri: perchè questa nuova apparizione non era stata da essi predisposta, e perciò se ne stavano dubbiosi aspettando di veder che cosa fosse per accadere. Sancio restò mezzo fuori di sè per la beltà della giovine, e le chiese chi fosse, dove volesse andare, e quale motivo l’avesse indotta a mentire quegli abiti. Ella fissando gli occhi in terra con onestissimo rossore, rispose: — Non posso, o signore, far palese pubblicamente ciò ch’esige il più geloso segreto, e voglio soltanto che si tenga per fermo che io non sono un ladro, nè persona facinorosa, ma sventurata donzella a cui un eccesso di gelosia fece obbliare il decoro dovuto all’onestà„. Ciò udendo il maggiordomo, disse a Sancio: — Faccia signor governatore, che si apparti la gente, affinchè questa signora possa parlare senza arrossire, e liberamente„. Così comandò il governatore, e tutti si ritirarono, eccettuati il maggiordomo, lo scalco e il [p. 445 modifica]segretario. Ora vedendosi soli, la donzella seguitò dicendo: — Io, o signore, sono figlia di Pietro Perez Mazorca, affittatore delle lane di questo paese, il quale suole molte volte recarsi in casa del padre mio. — Ciò non ha apparenza di verità, disse il maggiordomo, giacchè io pienamente conosco Pietro Perez, e so ch’egli non ha figliuolo alcuno nè maschio nè femmina: e tanto più che voi dite ch’è vostro padre, e poi aggiungete che suole molte volte recarsi [p. 446 modifica]in casa di vostro padre. — Io già, l’avevo notato fra me, disse Sancio. — Signore, io in questo punto, rispose la donzella, sono turbata a segno che non so quello che mi dica, ma verità è che sono figlia di Diego della Gliana che dee essere noto a quelli che mi ascoltano. — Questo poi è verisimile, soggiunse il maggiordomo, perchè so che ha un figlio e una figlia; e dopo che il padre rimase vedovo, non fu in questo paese chi potesse dire di aver veduta in viso la figliuola, tenendola egli custodita sì rigorosamente, che nè meno il sole la scorge mai; ma ad onta di ciò è fama che sia bella all’estremo. — Quanto voi dite è vero, rispose la donzella, e questa figlia sono io; se menzognera o no sia la fama intorno alla mia bellezza, vi sarete accorti, o signori, avendomi ora veduta;„ ed in questo cominciò a piangere dirottamente. Il segretario alquanto commosso, si fece all’orecchio dello scalco, e sotto voce gli disse: — Debb’essere infallantemente accaduta a questa povera giovane qualche gran disgrazia, poich’essa è uscita di casa sua, e sta, contro il decoro della sua nascita, travestita in quel modo, e di quest’ora. — Certamente, rispose lo scalco; e tanto più che questo sospetto è avvalorato dalle sue lagrime„. La consolò Sancio colle migliori parole ch’ei seppe, e la eccitò che senza verun timore rendesse noto quanto erale avvenuto, assicurandola che procurerebbero tutti di rimediarvi colla miglior volontà e con tutti mezzi possibili. — Il caso è questo, o signori, rispos’ella: mio padre mi tenne rinchiusa per dieci anni continui, chè tanti ne corsero da che mancò di vita la mia genitrice. Sì celebra la messa in un bell’oratorio di casa mia dove io intervengo, nè altro veggo che il cielo risplendente nel giorno, e asperso di stelle nelle tenebre della notte: non conosco nè strade, nè piazze, nè templi, nè anco uomini, eccettuati mio padre e mio fratello e Pietro Perez l’affittatore, chè per vederlo frequentemente in mia casa, mi venne in capriccio di dire ch’era mio padre, e così non ho dichiarato il vero. Quel tenermi rinchiusa e negarmi di escire di casa sino per andare alla chiesa, corrono molti mesi e giorni che mi fa vivere in somma afflizione. Avrei voluto veder il mondo, od il paese almeno dove sono nata; parendomi che questa innocente mia voglia non offendesse il buon decoro con cui le donzelle nobili debbono guardare sè stesse. Sappiate che quando si facevano cacce di tori, e che s’innalzavano steccati per rappresentar commedie, io dimandavo al mio fratello (minore a me nella età di un anno solo), che mi desse conto e di questi e di altri divertimenti a me sconosciuti, ed egli me li dipingeva alla meglio, e tutto serviva ad accendere in me il desiderio di poterne godere. Per abbreviarvi la storia della mia rovina, vi dirò [p. 447 modifica]che ho pregato e scongiurato mio fratello (così piacesse a Dio che non lo avessi mai nè pregato nè scongiurato)...„ e qui si rinnovò il pianto. Il maggiordomo le disse: — Continuate pure, o signora, e finite di dirci quanto vi accadde, chè noi siamo nella impazienza che inspirano i vostri detti e le vostre lagrime. — Poco mi resterà a dire, rispose la donzella, ma molte lagrime mi resteranno a versare; chè i desiderii mal collocati altra mercede che questa non possono attendersi„. Erasi già insinuata nell’animo dello scalco l’avvenenza della donzella, il quale tornò ad avvicinarle la lanterna per nuovamente mirarla; e ciò facendo si accorse che non già lagrime le uscivano dagli occhi, ma perle o rugiada di prato, e ingrandivasi la fantasia immaginando che fossero perle orientali, sicchè stava ad attendere con ansietà che il caso di questa giovane tale non fosse quale volevano far supporre i suoi sospiri e i suoi pianti. Disperavasi il governatore del tanto ritardo che faceva la donzella a narrare compitamente la storia sua, e le insinuò che finisse di tenerli più oltre sospesi, giacchè l’ora era tarda e molto restava da visitare nel paese. Ella fra interrotti singhiozzi e malformati sospiri disse: — Termina la mia disgrazia e il mio infortunio colla preghiera che ho fatto a mio fratello che mi vestisse da uomo mediante uno dei suoi abiti, e che seco mi conducesse una notte a vedere tutto il paese quando nostro padre dormisse; ed importunato dalle mie istanze condiscese al mio desiderio. Mettendomi indosso quest’abito e vestendosi egli con uno dei miei, che gli sta come dipinto, perchè non ha tuttavia pelo di barba, e tiene le sembianze tutte di bellissima donzella, questa notte (sarà adesso un’ora poco più poco meno) siamo esciti di casa; e guidati dal nostro inesperto e inconsiderato raziocinio ci siamo aggirati per tutto intorno il paese. Quando volevamo tornarcene a casa vedemmo avvicinarsi un branco di gente, ed il fratello mi disse: — Sorella, questa debb’essere la ronda, allunga il passo e metti le ale ai piedi e vienmi dietro correndo affinchè non siamo scoperti, chè ne avremmo assai biasimo. Detto questo, voltò le spalle, e cominciò non dico a correre ma a volare. Per la paura non aveva io fatto sei passi che caddi, e in quel punto mi raggiunse il bargello che mi ha condotto al cospetto delle signorie vostre, dove, come giovane cattiva e capricciosa, adesso mi trovo con mia estrema vergogna. — In somma, disse Sancio, non vi è accaduto, o signora, altra disgrazia che questa, nè altra gelosia vi ha cacciata di casa, come pareva dal principio del vostro discorso? — Niente altro, ella rispose; non la gelosia ma la voglia di vedere il mondo; ed anche questa era confinata a vedere le strade di questo paese„. La verità [p. 448 modifica]di quanto aveva esposto si raffermò al sopraggiugnere del suo fratello, colto egli pure dagli sgherri quando era fuggito dalla sorella. Non altro aveva indosso fuorchè un gamurrino grazioso ed un guarnello di damasco turchino con passamani d’oro, nè in capo teneva alcun velo, nè lo adornavano altro che i suoi capelli che parevano anella di oro: tanto erano biondi e ricciuti. Il governatore, il maggiordomo e lo scalco lo condussero in luogo appartato, e senzachè sua sorella potesse udire gli chiesero perchè vestisse a quel modo. Egli con non minore vergogna e imbarazzo ripetè il racconto già fatto da sua sorella; il che diede non poco piacere all’invaghitosi scalco: ma il governatore allora disse: — Non è da negarsi, o signori, che non sia stata questa la più solenne ragazzata, e per far sapere questa scioccheria non occorreva tirar tanto in lungo il discorso, nè spargere tante lagrime, nè mandare tanti sospiri, ma bastava dire: noi siamo il tale e la tale esciti a passeggiare fuori della casa patema così travestiti per pura curiosità e senza alcun fine cattivo; nè affibbiarvi tanti piagnistei e spasimi, e non finirla mai più. — Così è, disse la vergognosa donzella, ma sappiano le signorie loro che tanto grande fu il mio turbamento, che non mi lasciò conoscere il modo con cui dovessi condurmi. — Non è nato alcun male, rispose Sancio, ma andiancene; lasceremo vossignoria in casa di suo padre, il quale forse non si sarà accorto: ma da ora innanzi non vogliate l’una e l’altro mostrarvi sì fanciulli e vogliosi di vedere il mondo: l’onesta donzella e la gamba rotta stanno in casa; e la donna e la gallina per andare attorno si perdono in una mattina; e quella che è desiderosa di vedere, desidera anche di essere veduta; e non vado avanti„. Il giovine ringraziò il governatore per la gentilezza che dimostrava di ricondurli a casa, e così si avviarono verso quella, che non era molto lontana. Vi giunsero, e il fratello tirando una pietruzza all’inferriata, subito scese la serva che li stava attendendo, ed aprì loro la porta. Entrarono eglino lasciando maravigliato ognuno sì della loro gentilezza e venustà come della brama che spiegarono di veder il mondo di notte e senza escire del paese; ma ogni cosa attribuirono alla loro età troppo ancora giovanile. Restò per altro lo scalco ferito nel cuore, e propose fra sè di chiedere in altro giorno la ragazza in isposa a suo padre, tenendo per certo che negata non gliel’avrebbe per essere egli dipendente dal duca. Entrò nel tempo stesso nella fantasia di Sancio di fare sposo il giovane a Sancetta sua figliuola, e stabilì di pensarvi a tempo e a luogo; dandosi a credere che niun marito negare si potesse alla figliuola di un governatore. Terminò a questo modo la ronda di [p. 449 modifica]quella notte, ed il governo non durò che altri due giorni, con che furono tronchi e ridotti a nulla tutti i disegni da Sancio concepiti come vedrassi più avanti.