Don Zeno: Il sovversivo di Dio/II

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La sfida in caserma: la Chiesa, i potenti, la giustizia

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La sfida in caserma: la Chiesa, i potenti, la giustizia
Don Zeno: Il sovversivo di Dio


Sulla corriera diretta a San Giacomo don Zeno è salito rispondendo ad un invito che gli è stato rivolto dal vecchio parroco, e l’invito di don Gaddi è nato da un’angoscia antica. Sono passati trentasei anni dal giorno in cui gli è stata affidata la cura dell’anima degli abitanti delle case disseminate nella campagna attorno alla chiesa sulla statale, quella chiesa che, appena arrivato, vedeva riempirsi, la domenica, a tutte le messe, dove gli abitanti della campagna vicina venivano a ricevere i sacramenti, confessarsi e comunicarsi una volta l’anno, a sposarsi e a battezzare i figli, dove per consuetudine inviolabile volevano essere condotti per l’ultima benedizione, prima di riposare, accanto ai loro vecchi, nella fossa scavata nella terra generosa della Bassa.

Negli anni dell'università Zeno Saltini svolge un'opera appassionata nelle organizzazioni cattoliche. Virtuoso del piano e della motocicletta, un pellegrinaggio all'istituto veronese di don Calabria può costituire l'occasione, per i partecipanti, di un avvincente raid Carpi-Verona


Negli stessi anni del suo primo ministero avevano cominciato a percorrere quella campagna gli apostoli di un altro credo, che predicavano l’eguaglianza e la fraternità secondo una legge che non era quella di Cristo, proclamando che in duemila anni la Chiesa si era sempre schierata con i ricchi legittimandone le prevaricazioni, e comandando ai poveri la rassegnazione allo sfruttamento e alla miseria. Per cancellare dalla terra lo sfruttamento e l’ingiustizia era necessario, argomentavano, che anche la Chiesa fosse sradicata dal cuore della società: solo dissolvendone le maglie sarebbe mancato ai padroni il baluardo che essa assicurava loro elevandone la rapacità al rango di diritto. Predicata con passione, la loro dottrina era stata accolta dai contadini e dai braccianti della Bassa come il nuovo Vangelo, e poco a poco, a San Giacomo, come nei borghi vicini, la folla che la domenica gremiva la chiesa si era assottigliata. Non frequentando più la chiesa la gente aveva perduto, lentamente, la dimestichezza con i sacramenti: il costume inviolabile di sposarsi in chiesa, di battezzare i figli, di farsi seppellire con la benedizione del prete aveva conosciuto le prime eccezioni, poi le eccezioni erano diventate tanto frequenti da erodere il valore di regola dell’uso antico. Trasformata in eccezione, la regola antica era divenuta il retaggio di pochi, per distinguere i quali nel parlare popolare si era radicata una parola nuova, che li definiva i “bigotti”.

Don Archimede Gaddi sapeva, e ripeteva a se stesso, che l’abbandono della chiesa che si era verificato a San Giacomo non era che la manifestazione di un fenomeno che dilagava, incontenibile, in tutta la Bassa, che stava investendo come un’onda di piena l’Italia intera: la spiegazione, che pure la sua ragione accettava, non confortava il suo cuore, che nella chiesa vuota percepiva quasi il fallimento di una vita, la prova impietosa della sterilità della vocazione che l’aveva portato all’altare.

Così quando Zeno Saltini, che per anni è stato l’animatore, fervido e turbolento, dell’Azione cattolica della diocesi, si è fatto prete, e ha ricevuto dal vescovo, monsignor Giovanni Pranzini, l’incarico di tenere missioni, nei modi che voglia sperimentare, nelle parrocchie che lo richiedano, il vecchio prevosto ha preso ad insistere, ogni volta si rechi in curia, di mandare don Zeno da lui. Conclusa la prima delle sue missioni, che ha tenuto a Rovereto sulla Secchia, a don Zeno il vescovo ha chiesto, così, di andare a San Giacomo.

Seppure non conosca i sentimenti che hanno dettato l’invito, è stato per sentimenti corrispondenti che Zeno Saltini ha deciso, a ventinove anni, di farsi prete, ed è stato per dare risposta agli interrogativi che angustiano don Gaddi che ha intrapreso, il giorno successivo alla prima messa, le proprie missioni di burattinaio predicatore, quelle missioni cui lo hanno preparato, su un itinerario di singolare linearità, le circostanze dell’infanzia, le occasioni e le scelte della giovinezza.

E’ nato a Fossoli, pochi chilometri da Carpi, in una famiglia di agricoltori abbienti, una famiglia ampia, solida e felice: in una lunga vita di lavoro diretto da sagacia e accortezza il nonno, Giuseppe, ha costruito un patrimonio di 600 biolche di buona terra, suddivisa in quattro complessi aziendali, di ciascuno dei quali ha affidato la conduzione a uno dei figli. A sorreggerlo nell’impresa è stata la moglie, Filomena, che aborrendo l’idea dei figli impiegati come agenti di campagna, ha voluto che ciascuno potesse disporre della terra per essere coltivatore indipendente. Del grande complesso fondiario, i cui segmenti sono dislocati, per sicurezza contro la grandine, in località diverse, fino a tre anni dalla morte il vecchio patriarca ha riservato a sé il comando. La sua volontà, ed il suo portafoglio, sovrastano quelli dei figli, le cui famiglie non sono, così, che le parti di un’unica famiglia, nella quale tutti lavorano per l’interesse comune, e possono contare sulla solidarietà collettiva: come dice un’espressione dialettale eloquente “tót un pan un vein”, un solo pane, un solo vino.

Ai vantaggi della solidità della famiglia e della solidarietà tra i suoi membri nella cornice patriarcale non manca di associarsi qualche svantaggio: le rivalità tra i fratelli, le gelosie tra le nuore, di cui Zeno non ha mai avvertito, tuttavia, il peso. Felice, come ricorderà narrando la propria infanzia, della pluralità dei legami della grande famiglia, ha potuto godere, raccontano i fratelli, della predilezione del nonno, incantato dall’estro del più irrefrenabile dei ventidue nipoti, al quale ha sempre concesso quello che nessun altro avrebbe osato chiedergli: fino al pianoforte e alla motocicletta.

La vita nella grande famiglia era tanto felice che anche la scuola è parsa a Zeno fonte di tedio insopportabile, così che, iniziata, dopo la quinta, la prima “tecnica”, l’ha abbandonata dopo meno di una settimana, deciso a restare a casa per lavorare tra gli zii ed i loro salariati, a passare le domeniche, con i coetanei, in parrocchia dalla mattina alla sera, a vivere la vita del borgo, le sue feste, ascoltare le discussioni che si accendono, appassionate, nei caffè o nella bottega del ciabattino. Vivendo quella vita è stato un ragazzino felice, poi un giovane contento, amico di tutti, in grado di disporre, tra le cose semplici che potesse desiderare, di tutto ciò che curiosità e fantasia gli suggerissero. Costituisce costante obbligata, nella vita dei protagonisti della storia delle religioni, l’evento traumatico che interrompe un’esistenza trascorsa, dalla prima infanzia alla giovinezza, nella più lieta serenità, improvvisamente incrinata dalla percezione del dolore. A infrangere la felicità di uno spirito di superiore sensibilità non è necessario, peraltro, l’urto diretto della sofferenza, è sufficiente la conoscenza della sua esistenza: sapere che esistono uomini sofferenti, sapere, quindi, che la natura dell’uomo è soggetta al dolore, basta a dissolvere la gioia dell’anima dotata di autentica nobiltà, facendole apparire fatua ed inutile ogni fonte di contentezza di cui possa fruire. È stato in adempimento dell’antica legge che l’orizzonte sereno di Zeno, ragazzo felice in un ambiente di cui amava gli affetti, il colore e le contraddizioni, si è oscurato repentinamente. Non è stato, tuttavia, il dolore, ma l’odio che divide gli uomini e che ne causa il dolore, a infrangere il suo sogno. L’occasione è stata il tumulto di passioni suscitate dalla Grande Guerra.

Richiamato a diciotto anni, non conosce la carneficina delle trincee, è assegnato al Genio telegrafisti e inviato in un campo di addestramento sui colli gardesani: la guerra finisce prima che l’addestramento si compia e sia mandato al fronte. Lo scontro che sconvolgerà le sue sicurezze antiche si svolge nella caserma del Genio di Firenze, alla quale, terminate le ostilità, è stato assegnato per compiere il periodo di leva, e dove la sua giovialità l’ha posto al centro di cento amicizie, degli scherzi e dei canti accompagnati dal mandolino, quasi un prolungamento della vita felice di un ragazzo di campagna estroso e gioviale.

La cordialità festosa si infrange, una sera, quando, trasformando in diverbio una conversazione tra amici, un commilitone di fede anarchica investe con violenza le sue certezze di giovane cattolico ricco di sentimenti ma privo di istruzione. Proclama che la Chiesa ha sempre frapposto la sua forza di persuasione all’emancipazione e al progresso dei popoli, alleata dei ricchi e dei potenti, impegnata a predicare la rassegnazione e l’acquiescenza: solo dopo il suo annientamento l’umanità potrà incamminarsi sulla strada della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia. Zeno prova a controbattere gli argomenti dell’altro, e il diverbio si trasforma in duello morale e ideale, che attira l’attenzione dell’intera camerata. Cessa ogni altro conversare, canto, scherzo: sui due contendenti si incentra un’attenzione che, al procedere del confronto, trascolora in passione collettiva, e siccome gli argomenti con cui Zeno Saltini controbatte quelli dell’avversario appaiono sempre più incerti, e le ragioni del commilitone più inconfutabili, il duello si conclude in un’esplosione collettiva di rabbia anticlericale, le ultime resistenze di Zeno travolte dai fischi e dalle contumelie.

Qualunque altro ragazzo di campagna, offeso nei sentimenti più profondi da un avversario più colto, avrebbe gettato l’evento alle proprie spalle, per dimenticarlo più presto che avesse potuto, avrebbe ristabilito le amicizie di camerata preoccupandosi di non esporsi più, in futuro, su un terreno che ha constatato tanto pericoloso. Ma Zeno non è soltanto un ragazzo semplice di campagna: cosa sia veramente non sa ancora, ma la sconfitta subita nel vociare della camerata è per lui causa di tanto sconvolgimento che la stessa sera giura a se stesso che studierà quanto sarà necessario per dare risposta a tutti gli argomenti cui non ha saputo ribattere, e di darla in modo tanto inequivocabile che il suo avversario e quanti hanno assentito ai sui sofismi saranno costretti, in una replica ideale del duello, a riconoscere l’evidenza delle sue ragioni. L’umiliazione ha fatto emergere, per reazione, in quel soldato diciannovenne, uno dei caratteri salienti di una personalità che saprà imporre la propria parola a qualunque folla, senza temere obiezioni e repliche, per trasmettere alla folla la fede che, coerentemente all’impegno di quella sera, sarà la fede nel potere del Vangelo di trasformare le leggi della convivenza umana.

Congedato a vent’anni, all’attuazione del proposito assunto nella caserma fiorentina Zeno dedicherà gli undici anni successivi della sua vita, segnati da scelte che non saranno, sottolineerà, ricordandole cento volte, che i corollari della decisione assunta dopo la grande sconfitta. Compie, con prodigiosa celerità, gli studi medi, ma è impaziente, possiede una straordinaria capacità di apprendere e trova buoni maestri, dei quali asseconda l’ufficio la benevolenza prescritta dal Ministero della cultura verso i giovani che hanno difeso in armi i confini della patria. Affronta, quindi, all’Università Cattolica, il corso di laurea in giurisprudenza, che conclude in modo altrettanto folgorante. Ha scelto la legge, racconterà, immaginandosi patrono dei piccoli delinquenti costretti al crimine dal bisogno: il convincimento, maturato nel corso dell’università, che la difesa giudiziaria più efficace non elide le cause della delinquenza, radicate nell’ingiustizia sociale, la matrice di ogni trauma civile, lo sospinge, dopo la laurea, sulla strada del sacerdozio, l’unica, ritiene, per misurarsi con la ragione vera di ogni male sociale, del male medesimo.

Oltre agli studi, quelli medi, l’università, il seminario, gli anni tra il duello fiorentino e la prima messa sono densi di incontri, di esperienze e cimenti che don Zeno ricorderà sempre con passione commossa. Li rievocherà, con minuzia di dettagli, nel suo primo libro, che scriverà nel 1940, e nella lunga narrazione della sua vita che svolgerà, nel 1964, per un regista impegnato a ricavarne un film. Si getta, con l’irruenza e il potere di attrazione che possiede, nei movimenti cattolici della diocesi di Carpi, nel cui alveo promuove, insieme a don Armando Benatti, luminoso maestro di carità, un centro educativo che si infrange, peraltro, tra le mani dei due creatori, conosce religiosi autorevoli, vive, a lungo, a fianco del fondatore di un istituto assistenziale destinato alla gloria degli altari, don Giovanni Calabria.

In perpetuo movimento, sulla possente motocicletta, tra Carpi, Milano e Verona, il cuore del mondo resta, per lui, Fossoli, che, dopo la guerra è divenuto epicentro della contesa tra socialisti e fascisti: le squadre nere invadono il piccolo borgo, feriscono, distruggono, la resistenza rossa uccide due volte, a Fossoli, uno degli aggressori. Nella retorica miliziana la frazione sui bordi delle paludi assurge a spalto nemico da distruggere, a simbolo del sacrificio di due eroi da vendicare.

Da ogni incontro, da ogni amicizia cerca di ricavare un indizio, un segno che possa indirizzare il suo cammino verso la meta che persegue con determinazione caparbia: confutare gli argomenti con i quali il commilitone della caserma fiorentina lo ha costretto a ricomporre l’intero edificio dei suoi convincimenti, dare risposta agli interrogativi cui nel confronto non ha saputo replicare.

Dilatando gli orizzonti delle proprie conoscenze verifica, insieme, che i problemi che gli ha proposto l’avversario sono i problemi che tormentano l’intera umanità, divisa, nel primo scorcio del secolo, da ideologie che contrappongono i popoli e le classi sociali proponendo, ciascuna, fondamenta diverse alla convivenza, tali, per le antitesi che le dividono, da non poter guidare gli uomini sulla strada della pace e della giustizia, quella strada che, seppure ne ignori ancora il tracciato, è certo debba ricercarsi nel Vangelo.