Donne illustri/Donne illustri/Giustina Renier Michiel
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iustina Teresa Maria Renier nacque in Venezia il 15 ottobre dell’anno 1755. Ebbe a padre Andrea Renier di Paolo, a madre Cecilia Manin di Alvise, a padrino Marco Foscarini di Niccolò, figlio il primo del penultimo doge, sorella la seconda del doge ultimo, e doge egli stesso il terzo, e insieme lume chiarissimo delle lettere veneziane. — Di tre anni fu commessa alle cure delle monache cappuccine di Treviso. Ricondotta dopo sei anni in Venezia, fu posta in una casa di educazione che una dama, giunta di Francia, aveva aperta colà, ove non si ammettevano che diciotto fanciulle, e tutte di sangue patrizio. Vi rimase fino a vent’anni, attendendo più agli studi che ai lavori femminili.
Musica, disegno, belle lettere la attrassero fortemente, e vi fece grande profitto. — Uscita di là, sposò Marc’Antonio Michiel, cavaliere ricco e costumatissimo. Andò con lui a Roma, dove il padre sedeva ambasciatore della Repubblica. I Romani la chiamavano la Venerina veneta, tanta era, dice Paolo Zannini, la venustà della vaga personcina, la leggiadria de’ suoi modi, la grazia e la soavità dell’ingegno, vivace a un tempo e gentile. I più segnalati per dignità, lettere e valore d’arte le facevan corteggio, e tra gli altri è da notare Vincenzo Monti; ma non pare che l’ingegno poetico le facesse gran caso; e un giorno disse: «Della poesia mi piace il buono, ma non mi sentii mai voglia d’imitarlo.»
Dopo un anno tornò a Venezia; ed essendo già madre, scrisse un Trattato dell’educazione, rimasto inedito. Intanto il suo avo paterno, Paolo Renier, fu elevato alla dignità di doge, ed ella fece gli onori della casa. Si accorse allora che la conoscenza della lingua inglese le tornerebbe ad uopo; e postasi a studiarla, si avanzò tanto, che potè tradurre le Lezioni di rettorica di Ugo Blair, ma non le stampò per non competere col Soave, il quale già avea dato fuori la sua versione. Si volse allo Shakespeare, e voltò in italiano l’Otello, il Machbet e il Coriolano, e pubblicò queste tragedie con prefazioni e note, le due prime nel 1798; la terza nel 1800; ma si levò poi dal primo concetto di volgarizzare tutto il teatro di lui. Passando alcuni mesi dell’anno a Padova, s’invaghì delle scienze, e scaltritasi con la geometria, entrò poi allo studio dell’ottica, della chimica e della botanica. Intorno al modo di studiare questa scienza dettò un discorso, rimasto inedito; dipinse, incise e descrisse alcuni de’ più bei fiori che le venivano dall’orto di quell’Università, e le sue descrizioni piacevano moltissimo a Melchiorre Cesarotti, che la aveva in singolar stima ed affetto. Se non che gli studi ameni e quieti furono interrotti dal turbine venuto di Francia. La nuova repubblica diè d’urto all’antica e la franse. Nella catastrofe del 12 maggio 1797 la plebe s’avventava al saccheggio, e, ove non fosse stata dispersa, sarebbe passata alle stragi. Ed ella in quel trambusto ben meritò della patria eccitando due giovani patrizi, Tommaso Mocenigo Soranzo e Bernardino Renier, a ripararvi: «Correte, disse loro, correte a salvare la città, poiché non è possibile salvare la Repubblica.» Però, sebbene ne fosse tenera, aveva spogliato i pregiudizi della nascita e dell’educazione, e le nuove idee di eguaglianza la sedussero; onde, anche quando se n’era guarita per le brutte riprove avute dai fratelli di Francia, le rimase il titolo di giacobina. Rinfiammandosi l’affetto per la gloriosa sua patria, si mise allo studio della sua storia; e cominciò nel 1807 con una lettera francese, inserita nel Giornale de’ Letterati di Pisa, a difendere la sua città dalle accuse di Châteaubriand, il quale fra l’altre stranezze diceva, che l’architettura della piazza di San Marco è troppo capricciosa e variata, e l’altra è noiosa, perchè elle est presque toute de Palladio! E in francese scrisse dapprima il suo libro famoso, l'Origine delle feste veneziane, che poi voltò in italiano. Nel 1817 pubblicò il primo volume.
Nel 1823 e 27 uscirono gli altri quattro presso Alvisopoli in Venezia, con la traduzione francese a fronte; e nel 1829 furono ripubblicati in Milano dal Lampato, ma senza il francese e con qualche omissione. Quest’opera è scritta con stile semplice e naturale, e intende a mostrare come le feste veneziane non fossero venute in uso per isvago d’oziosi, ma per ragioni storiche e civili. Aveva anche un altro fine. «L’opera mia, ella dice, è un romanzo storico. Ciò che specialmente mi diverte nel comporla sono le allusioni, perchè mostrando di dire una cosa ne accenno un’altra, e il pubblico m’intende, a quel che mi sembra.»
Non era ancora al fine del suo lavoro, che un accidente di apoplessia le fece temere di averlo a lasciare imperfetto. «Io la vidi, dice lo Zannini, poco dopo il tristo caso, e la trovai nel suo letto circondata da libri e da carte, e tutta occupata nello scrivere. Sgridatala dello affaticarsi intempestivo, mi rispose con la fermezza che era in lei così naturale; «Mio caro, voi conoscete il mal vezzo di questa sorta di malori; udii dire che ritornano dopo ventiquattr’ore; vorrei, prima d’allora, aver compiuta questa Festa.» E prima d’allora il lavoro era al suo fine; e l’ora temuta passò senz’altro.»
Dettò pel Bettoni la Vita di Madama di Sévigné, e descrisse l’isola di San Lazzaro, ora de’ Padri Armeni, per Le isole delle lagune venete, opera che rimase interrotta. La sua descrizione fu poi riprodotta con aggiunte nel libro Siti pittoreschi delle lagune venete (Gondoliero, 1838).
Fra i suoi scritti minori è altresì da notare una lettera del 27 novembre 1802 ad Ugo Foscolo, stampata più tardi, nella quale, parlando di un allagamento, divisa con fina maestria i pregi dell’Ortis. Fu impressa postuma nel 1823 una sua lettera sopra un dipinto di Giovanni Demin, rappresentante la distruzione degli Ezzelini in Alberico da Romano e nella sua famiglia. Rimproverava al pittore l'elezione del subbietto, di orribile ferità, che tanto meglio spiccava nella mirabile evidenza della rappresentazione. Essa non amava quelle pitture, sia di pennello o di penna, che educassero l'animo all’inumanità ed alla ferocia.
La Renier aveva in singolar modo il dono proprio dei Veneziani, lo spirito. Scherzava anche sulle tracce dell’apoplessia e sul suo Museto storto. I suoi scritti, le sue arguzie davano maraviglia e diletto; sebbene la sua conversazione fosse difficile per essere divenuta sorda, era tuttavia ricercatissima. Quando il celebre improvvisatore latino Gagliuffi fu a Venezia, le signore che non intendevano un’acca de’ suoi versi mostravano andarne in visibilio. Ella ne rideva. Ed essendole presentato il poeta, dopo i soliti complimenti, disse all’amico che lo presentava: «Con voi poi, signore, sono in collera per avermi tardato tanto il piacere di conoscere un sì gran valentuomo: avete forse creduto che per intendere ed ammirare ì suoi improvvisi io fossi più sorda delle altre signore?»
La Venerina veneziana aveva gli occhi scintillanti di luce sempre serena; rosee le labbra, abituate nel riso, secondochè lasciò scritto un’altra valente donna, l’Isabella Teotocchi-Albrizzi. Ella vestiva con grande semplicità; nella sua gioventù specialmente, il più di bianco con una ghirlandetta di rose in capo: e quando era costretta a mettersi in gala, appena tornava in libertà: «Corro a smascherarmi,» diceva, e rigodeva nei suoi abiti schietti. Così ella amava la campagna e il consorzio con la natura. «Poveri, voi altri cittadini, ella scrivea, che non vedete la luna tra gli alberi, e le ombre degli alberi al chiaror della luna.» Amava il movimento, e ne lodava gl’Inglesi. «Tra noi una donna, ella notava, quando è seduta non è più possibile muoverla dal suo posto, e ben presto sopraggiunge la noia.» Ma il viaggiare le rincresceva, e come l’Ariosto si dilettava di fare i viaggi con Tolomeo, così ella co’ forestieri che affluivano alla sua conversazione. Era, secondo lei, un viaggiare con poca spesa.
Intanto il suo male lavorava, e complicandosi con una punta di petto, secondo dice il Carrer, la notte del 6 aprile del 1832 ella passò di questa vita.
Il Carrer scrisse un’iscrizione per lei: se si farà un monumento, ed ora l’andazzo dei monumenti è grande, non crediamo che sia da ricorrere ad altro epigrafaio.
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