Donne illustri/Donne illustri/Tullia d'Aragona

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Tullia d'Aragona

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[p. 150 modifica]TULLIA D’ARAGONA [p. 151 modifica]









CCa Tullia d’Aragona nacque in Roma dal sangue chiarissimo d’Aragona e di quella casa che con lunga prosperità nei secoli antecedenti aveva tenuto il regno di Napoli, perchè fu suo padre Pietro Tagliavia d’Aragona, arcivescovo di Palermo, cardinale di Santa Chiesa, il quale, innamorato di Giulia Ferrarese, donna bellissima, ne ricevè di lei furtivamente questa figliuola. Passò ella i primi anni della gioventù sua fra le delizie e le comodità di una onorata fortuna che l’amorevolezza del padre le aveva lasciata, attendendo agli studii, ne’ quali fece tanto profitto, che, non senza stupore degli uomini dotti, fu sentita in età ancor fanciullesca disputare e scrivere nel latino e nell’italiano [p. 152 modifica] cose degne di ogni maggior letterato; onde, arrivata al fiore dell’età e accompagnando alla sapienza e virtù sua un’esquisita delicatezza di maniere e di costumi, s’acquistò il nome di compitissima sopra ogni altra donna del tempo suo.

Compariva con tanta leggiadria in pubblico e con tanta venustà ed affabilità d’aspetto, che, aggiungendovisi la pompa e l’ornamento degli abiti elegantissimi, pareva non potersi ritrovare cosa nè più pulita, nè più gentile di lei. Toccava gl’istrumenti musicali con dolcezza tale, e maneggiava la voce cantando così soavemente, che i primi professori ne restavano maravigliati. Parlava con grazia ed eleganza rarissima così, che, o scherzando, o trattando davvero, allettava e rapiva, come un’altra Cleopatra, gli animi degli ascoltanti; e non mancavano nel volto suo, sempre vago e giocondo, quelle grazie maggiori che, per lusingargli occhi degli uomini, sogliono essere desiderate. Onde non debbe esser maraviglia s’ella abbia avuto tanta copia di amanti, e particolarmente tra’ poeti, i quali, a guisa di veltri affamati seguitandola, a colpi di sonetti e di canzoni si sforzavano di atterrarla, non senza gusto di lei, che, compiacendosi della sua bellezza e di essere vagheggiata, nutriva con vari artifizi l’affetto de’ suoi divoti, e rendeva molte volte, poetando, co’ favori della poesia, anche in contraccambio degli amori, i complimenti loro. — Si ricordano fra gli amici più stretti di costei i nomi di Giulio Camillo, di Francesco Maria Molza, d’Ippolito de’ Medici, cardinale, di Ercole Bentivoglio, di Lattanzio Benucci, di Benedetto Varchi, di Bernardo Tasso e d’altri molti valorosi poeti; ma più di tutti vissero mortalmente innamorati di lei Muzio e Pietro Manelli, del quale ella cantò in quel sonetto: [p. 153 modifica]

Qual vaga Filomena, che fuggita
È dall’odiata gabbia, ed in superba
Vista sen va tra gli arboscelli e l’erba,
Tornata in libertate e in lieta vita,


Er’io dagli amorosi lacci uscita,
Schernendo ogni martire e pena acerba
Dell’incredibil duol, che in sè riserba,
dual ha per troppo amar l’alma smarrita.


Ben avev’io ritolte, alti, stella fiera!
Dal tempio di Ciprigna le mie spoglie,
E di lor premio me n’andava altera:


Quando a me Amor: Le tue ritrose voglie
Muterò, disse; e femmi prigioniera
Di tua virtù, per rinnovar mie voglie.


Fin qui col solito garbo e con rara dolcezza Alessandro Zilioli. E pare veramente che la Tullia amasse alcuna volta davvero, e anche sentisse timore di non essere corrisposta e gelosa. E ne abbiamo segno nel seguente sonetto ch’ella scrivea al Varchi sotto nome di Damone, essendo egli stato uno dei primi e più felici nelle ora proscritte pastorellerie:


Se ’l Ciel sempre sereno e verdi i prati
Siano al bel greggie tuo, dolce pastore,
Vero d’Arcadia e di Toscana onore,
Più chiaro fra i più chiari e più pregiati;


Se tanto in tuo favor girino i fati,
Che tor mai non ti possa il dato core,
Filli, nè tu a lei tuo santo amore,
Onde ti gridi ogn’uom saggio e beato;

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Dinne, caro Damon, s’alma sì vile
E sì cruda esser può, ch’essendo amata,
Renda, invece d’amor, tormento e morte?


Ch’io tèmo, lassa! se il tuo dotto stile
Non mi leva il dubbiar, d’esser pagata
Di tal mercede, si dura è mia sorte.


Al che il patriarca Benedetto rispose così:


Ninfa, di cui per boschi o fonti o prati
Non vide mai più bella alcun pastore,
O delle Grazie e delle Muse onore,
Più cara sempre a’più cari e pregiati:


Cosi siano a Damon men fieri i fati,
Nè gli renda mai Filli il dato core,
Ed ella arda per lui di saldo amore,
Più ch’altri fosser mai lieti e beati,


Come’ alma esser non può si cruda e vile,
La quale, essendo veramente amata,
Non ami un cor gentil già presso a morte.


Dunque se ha dotto, no, ma a fido stile
Credi, ama e non dubbiar; chè ben pagata
Sarà d’alta mercè tua dolce sorte.


La Tullia non solo cantò, ma filosofò dei soavi affetti dell’anima. Il suo dialogo dell'Infinità d’amore è principalmente condotto dal Varchi, ed è bene scritto; ma con tutte le sottigliezze della filosofia di quell’età, seccanti delle raffinatezze delle Corti d’Amore. Gli altri interlocutori sono [p. 155 modifica] la Tullia e il Benucci. Ella raccoglie avidamente tutte le lodi di che le eran larghi gli ingegni amorosi, e le mette in bocca francamente al Varchi e al Benucci. Questo dialogo fu ristampato in Milano da Carlo Teoli nel 1864.

Scrisse poi un poema in trentasei canti, il Guerino o il Meschino, del quale dicon bene gli storici letterari, ma che noi lasceremo dormire in pace con le ossa della Tullia.

Spese ella le sue ultime lusinghe col duca Cosimo, che chiamava il Numa toscano, esaltando la felicità de’ suoi popoli. Il fatto è che la Leonora Toledo, la duchessa, la protesse ne’ suoi tardi anni, ed ella pagava in adulazioni la sua riconoscenza.

Non si sa chi fosse il suo marito, del quale parla il Zilioli. Non si sa neppure l’appunto della nascita e della morte. Ella fioriva, nota il Mazzucchelli, nel 1550. Il Zilioli dice che non arrivò all’ultima vecchiezza, siccome Pietro Angelio da Barga, valentissimo astrologo, forse per acquistar seco qualche grazia, le aveva ampiamente promesso.