Ecce Homo/Perchè sono tanto accorto

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Perchè sono tanto accorto

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Friedrich Nietzsche - Ecce Homo (1888)
Traduzione dal tedesco di Aldo Oberdorfer (1922)
Perchè sono tanto accorto
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Perchè sono tanto accorto.


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1.


Perchè so qualche cosa di più degli altri? In generale, perchè sono tanto accorto? Non ho mai riflettuto su problemi che non sono problemi, non mi sono «sprecato.» Per esempio, veri e propri problemi religiosi io non ne conosco. Non mi riesce assolutamente di vedere fino a che punto potrei essere «soggetto a peccare». Così pure mi manca un solido criterio per stabilire che cosa sia un rimorso: per ciò che ne sento dire mi pare che un rimorso non sia nulla di stimabile..... Io non vorrei lasciare a mezzo un’azione, dopo; preferirei di prescindere a dirittura, nel problema del valore, dal cattivo esito e dalle conseguenze. Se una cosa riesce male, troppo facilmente si perde la retta visione di ciò che s’è fatto: un rimorso mi pare qualche cosa di simile ad una «errata visione». Stimare tanto di più, dentro di sè una cosa fallita, appunto perchè fallita: a ciò mi porta piuttosto la mia morale.

«Dio», «immortalità dell’anima», «redenzione», «al di là», son tutti concetti cui non ho mai badato, mai sagrificato il mio tempo, nemmeno da bambino; forse non sono mai stato abbastanza ingenuo per farlo? In me l’ateismo non è nè una conseguenza, nè tanto meno un fatto nuovo: esso esiste in me per istinto. Sono troppo curioso, troppo incredulo, troppo insolente per accontentarmi d’una risposta così grossolana. Dio è una risposta grossolana, [p. 36 modifica]un’indelicatezza contro noi pensatori; anzi, a dirittura, non è altro che un grossolano divieto contro di noi: non dovete pensare!

Tutt’altro interesse ha invece per me il problema da cui dipende «la salute dell’umanità» ben più che da qualunque curiosità teologica: il problema della nutrizione. Praticamente, lo si può formulare così: «come ti devi nutrire tu per arrivare al tuo massimo di forza, di virtù nel significato che dava alla parola il Rinascimento, di virtù libera da morale?» Le mie esperienze in questo campo sono pessime: mi meraviglio di essermi posto così tardi questo problema, di aver fatto così tardi tesoro di queste esperienze. Soltanto l’assoluta bassezza della nostra cultura tedesca — Il suo «idealismo» — mi spiega fino a un certo segno perchè proprio in questa materia ero rimasto indietro a un punto che confinava con la santità. Una «cultura» che insegna da bel principio a perder di vista la realtà per perseguire degli scopi problematici, cosidetti ideali — per esempio quello della «educazione classica»: - come se non fosse fin dal principio un’impresa perduta quella di riunire in uno solo i due concetti «classico» e «tedesco»! Peggio ancora; fa un effetto buffo! S’immagini un po’ un abitante di Lipsia con una «coltura classica»!

In realtà, fino a’ miei anni più maturi ho mangiato sempre soltanto male, parlando dal punto di vista morale «impersonalmente», «disinteressatamente», «altruisticamente», a maggior beneficio dei cuochi e del mio prossimo. Per esempio, io rinnegai in grazia della cucina di Lipsia insieme col mio primo studio su Schopenhauer (1865) anche, e molto seriamente, la mia «volontà di vivere». Guastarsi lo stomaco allo scopo di procurarsi un nutrimento insufficente: mi pareva che la suddetta cucina avesse risolto a meraviglia questo problema. (Si dice che col 1866 si sia cambiata di molto). Ma la cucina tedesca, in generale, quanti peccati non ha sulla coscienza!

La zuppa avanti il pranzo (uso detto «alla tedesca» già in libri da cucina veneziani del secolo XVI); la carne troppo cotta, i legumi [p. 37 modifica]cotti con troppo grasso e troppa farina; i dolci pesanti al punto che potrebbero servire da fermacarte! Se a ciò s’aggiunge il bisogno a dirittura bestiale dei vecchi tedeschi, e non dei vecchi soltanto, di bere dopo i pasti, si capirà anche donde proviene lo spirito tedesco: dai visceri sconvolti..... Lo spirito tedesco è un'indigestione, non arriva mai a fondo di nessuna cosa. Ma anche il regime inglese che confrontato col tedesco e col francese è una specie di «ritorno alla natura», cioè al cannibalismo, ripugna profondamente al mio istinto: mi sembra ch’esso dia allo spirito dei piedi pesanti, piedi da donna inglese..... La miglior cucina è quella del Piemonte.

Le bevande alcooliche mi fanno male; un bicchiere di birra o di vino al giorno mi basta per farmi della vita una «valle di lagrime»; a Monaco, abitano i miei antipodi. Se anche ne ho avuto coscienza un po’ tardi, l’ho provato fin dall’infanzia. Da bimbo, credevo che il bere fosse, come il fumare, prima una vanità di giovanotti, poi una cattiva abitudine. Forse, un po’ di colpa in quest’aspro giudizio, l’ha anche il vino di Naumburg. Per credere che il vino renda lieti, dovrei essere cristiano, cioè credere, ciò che proprio per me è un’assurdità. È strano: mentre piccole dosi di alcool fortemente annacquato mi mettono d’un umore estremamente cattivo, per le dosi forti divento quasi un marinaio. Fin da bambino ci mettevo tutta la mia bravura. Stendere e copiare in una sola nottata una lunga dissertazione latina, scritta con nella penna l’ambizione d’imitare nella stringatezza e nella concisione il mio modello, Sallustio, e versare sul mio latino alquanti grog del più forte calibro, era cosa che — quando frequentavo la venerabile scuola di Pforta — non contrastava punto con la mia fisiologia, nè forse con quella di Sallustio, per quanto contrastasse con la venerabile scuola di Pforta..... Più tardi, verso la metà della vita, diventai sempre più contrario all’uso di bevande «spiritose»: io, antivegetariano per esperienza, proprio come Riccardo Wagner che mi convertì, non saprei raccomandare con sufficiente serietà la completa astinenza da ogni bevanda alcoolica a tutte le nature spirituali. L’acqua [p. 38 modifica]basta..... Preferisco i luoghi dove si ha continuamente occasione di bere ai fonti zampillanti (Nizza, Torino, Sils); un bicchierino mi segue sempre, come un cane. In vino veritas; pare che anche qui io discordi da tutti nella spiegazione del concetto di verità: per me, lo spirito si libra sull’acqua.....

Ancora uno o due cenni sulla mia morale. È più facile digerire un pranzo abbondante che uno troppo piccino. Prima condizione per una buona digestione è che lo stomaco vi agisca nella sua totalità. Bisogna conoscere la grandezza del proprio stomaco. Per la stessa ragione sono da sconsigliarsi quegli interminabili pranzi che io chiamo sagrifizi interrotti: i pranzi a table d’hôte. Non si mangi fra un pasto e l’altro, non si prenda caffè: il caffè annebbia le idee. Il fa bene solo alla mattina; poco, ma forte; fa molto male e può rovinare tutta una giornata s’è solo un tantino più debole. In ciò ognuno ha la sua misura ch’è posta spesso tra i limiti più ristretti e più delicati. In un clima molto eccitante il tè come aperitivo non è consigliabile: bisogna cominciare un’ora avanti, con una buona tazza di cacao, denso e sgrassato. Si sieda il meno possibile: non si presti fede a nessun pensiero che non sia nato all’aria aperta e in un libero moto, in cui anche i muscoli non abbiano avuto una festa. Tutti i pregiudizi provengono dagli intestini. L’ho già detto una volta: lo stare a tavolino è un vero peccato contro lo spirito santo.


2.


Strettamente legato al problema della nutrizione è quello del luogo e del clima. Nessuno è padrone di vivere dove vuole; e per chi ha un grave compito da eseguire la scelta è a dirittura molto limitata. L’influenza del clima sul ricambio materiale — sui suoi rallentamenti e sulle sue accelerazioni — arriva tanto oltre, che un errore nella scelta del luogo e del clima può non solo disinteressare [p. 39 modifica]qualcuno dal suo còmpito, ma anche allontanarmelo del tutto: sì che egli non arrivi a vederlo. Il vigore animale non è mai divenuto in lui tanto grande da raggiungere quella libertà che sale ai più alti gradi dello spirito, in cui uno dice: questo, lo posso io solo... Basta anche la più piccola inerzia degli intestini divenuta poi una brutta abitudine — per fare di un genio qualche cosa di mediocre, di «tedesco»: e basta il solo clima tedesco per sfibrare degli intestini forti e magari tendenti all’eroismo. Il «tempo» del ricambio materiale sta in rapporto diretto con la maggiore o minore mobilità dei piedi dello spirito; lo spirito stesso, in fondo, non è che una forma di questo ricambio. Si pensi un po’ ai luoghi in cui ci furono e ci sono uomini di spirito, dove lo spirito, la raffinatezza, la cattiveria facevano parte della felicità, dove il genio nasceva quasi di necessità: hanno tutti un’aria perfettamente asciutta. Parigi, la Provenza, Firenze, Gerusalemme, Atene, sono nomi che dimostrano pure qualche cosa: dimostrano che il genio dipende dall’aria asciutta, dal cielo sereno, cioè dal rapido ricambio materiale, dalla possibilità di procurarsi continuamente grandi, enormi a dirittura, quantità di forza. Ho presente il caso d’uno spirito notevole e libero, che per sola mancanza di finezza d’istinto nella scelta del clima, divenne ristretto, oscuro, specialista e brontolone. E io stesso sarei potuto diventare tutto ciò se la malattia non mi avesse costretto alla ragione, a riflettere sulla ragione nella realtà. Ora che, per la lunga esperienza, leggo su di me gli effetti dei cambiamenti climatici e meteorologici come li leggerei su di un istrumento molto fine e delicato — sì che già in un breve viaggio, per esempio da Torino a Milano, posso controllare fisiologicamente su me stesso il mutamento di grado dell’umidità dell’aria — ora penso con terrore al fatto impressionante che la mia vita, fino agli ultimi dieci anni, gli anni più pericolosi, s’è svolta sempre soltanto in luoghi poco favorevoli, e per me a dirittura inadatti. Naumburg, Schulpforta, la Turingia in generale, Lipsia, Basilea, Venezia, sono altrettanti luoghi, infausti per la mia fisiologia.

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Se di tutta la mia fanciullezza e della gioventù io non ho neppure un dolce ricordo, sarebbe da sciocco il cercarne qualche ragione d’indole «morale», per esempio l’indiscutibile mancanza di compagnia adatta per me: perchè questa mancanza esiste oggi come è sempre esistita, senza però impedirmi d’essere allegro e forte. No, l’ignoranza in materia di fisiologia, il maledetto «idealismo» è la vera fatalità della mia vita, ciò che v’è in essa di superfluo e di stupido, da cui non è sorto nulla di buono, nulla che valga a ripagarla o a compensarla. Come conseguenze di questo «idealismo» io mi spiego tutti gli errori, tutte le grandi aberrazioni dell’istinto e le «modestie» che mi hanno trascinato lungi dal còmpito prefisso alla mia vita: per esempio, l’esser diventato filologo; o perchè non piuttosto medico, o qualche altra cosa che avrebbe servito ad aprirmi un po’ gli occhi? Durante il mio soggiorno a Basilea tutto il mio regime di vita spirituale, fino alla divisione delle mie giornate, era uno spreco assolutamente insensato di forze eccezionali, senza un acquisto di nuove energie che servissero in qualche modo a rimpiazzare quelle spese, senza la minima cura del consumo e del compenso. Era la mancanza di ogni personalità, di ogni tutela dell’istinto dominatore, era un mettersi alla pari col primo capitato, un «disinteresse» un dimenticare le distanze, qualcosa, in somma, che non mi posso perdonare. Quando fui quasi alla fine, appunto perchè ero quasi alla fine, cominciai a riflettere sulla irragionevolezza fondamentale della mia vita, «l’idealismo». Soltanto la malattia mi ricondusse alla ragione.


3.


Scelta del nutrimento; scelta del clima e del luogo; la terza scelta in cui bisogna guardarsi assolutamente dal commettere errore è quella del genere di riposo adatto. Anche qui, a seconda del grado d’uno spirito sui generis, i confini di ciò che gli è permesso, cioè [p. 41 modifica]di ciò che gli è utile, sono più o meno ristretti. Nel caso mio, qualunque genere di lettura è una ricreazione: è, dunque, una cosa che mi allontana da me stesso, che mi lascia aggirare fra scienze ed anime strane, — qualcosa ch’io non prendo più sul serio. La lettura mi solleva appunto dalla mia serietà. Nelle epoche in cui lavoro molto non si vedono libri intorno a me: mi guarderei bene dal permettere ad alcuno di parlare o di pensare in mia presenza. E leggere, vorrebbe dire proprio questo....

S’è osservato che in quella profonda tensione a cui l’incubazione d’un pensiero condanna lo spirito e, in fondo, tutto l’organismo, il caso o qualunque eccitamento venga dall’esterno agisce troppo violentemente, colpisce troppo profondamente? Bisogna sottrarsi, per quanto è possibile, al caso, agli stimoli che vengono dall’esterno; una specie di auto-muramento è uno dei primi precetti della prudenza istintiva in ogni gravidanza intellettuale. Potrò permettere che un pensiero estraneo scavalchi di nascosto il muro? — E leggere, vorrebbe dire proprio questo....

Alle epoche di lavoro e di produttività seguono quelle di riposo: e allora, avanti voi, libri piacevoli, libri spiritosi, libri evitati! — Saranno libri tedeschi?....

Devo risalire a sei mesi addietro per vedermi con un libro in mano. Che libro era? Uno splendido studio di Victor Brochard: «Les sceptiques grecs», in cui è stato utilizzato anche il mio studio laerziano. Gli scettici! l’unico tipo onorevole fra il popolo dei filosofi dai secondi e fino dai quinti sensi!.... Del resto, ricorro quasi sempre agli stessi libri, pochi, in fondo; quei libri che considero come dimostrati. Leggere molto e cose molto varie non sta forse nella mia natura: una sala di lettura mi rende malato. Non sta neppure nella mia natura amare molto e molte cose. Sono più vicine ai miei istinti diffidenza e ostilità contro i libri nuovi che «tolleranza», «largeur du cœur» e ogni altra forma di «amor del prossimo».

È sempre ad un piccolo numero di vecchi autori francesi ch’io [p. 42 modifica]ritorno: io credo soltanto alla cultura francese, e tutto ciò che si chiama «cultura» in Europa al di fuori di quella mi sembra un equivoco; per non parlare poi della cultura tedesca.... I pochi casi di cultura più elevata che ho incontrato in Germania erano tutti di origine francese; prima di ogni altra la signora Cosima Wagner, di gran lunga la più nobile voce ch’io abbia mai udito in questioni di buon gusto. Se io non leggo, ma amo Pascal, come la più interessante vittima del Cristianesimo, ucciso lentamente, prima nel corpo e poi nell’anima per logica conseguenza di questa mostruosa forma di crudeltà inumana; se ho nello spirito e, chi sa? fors’anche nel corpo qualche cosa della malizia petulante di Montaigne; se il mio gusto d’artista non può difendere senza un intimo sdegno i nomi di Molière, Corneille e Racine contro un genio barbaro come quello di Shakespeare, tutto ciò non esclude che anche i modernissimi autori francesi possano assere per me una compagnia molto divertente. Io non saprei davvero in che secolo della storia si potrebbe pescare in una volta degli psicologi così curiosi e, insieme, così delicati come quelli della Parigi attuale: Paul Bourget, Pierre Loti, Gyp, Meilhac, Anatole France, Jules Lemaître, o, per dirne uno della forte razza, un vero latino cui io sono specialmente affezionato, Guy de Maupassant. Detto fra noi, io preferisco questa generazione a quella dei loro grandi maestri che tutt’insieme sono guastati dalla filosofia tedesca. (Il Taine, per esempio, da Hegel, al quale egli va debitore del non aver capito grandi uomini e grandi tempi). Fin dove arriva, la Germania manda in rovina la cultura. Soltanto la guerra ha «redento» lo spirito in Francia....

Stendhal, uno dei più bei casi della mia vita — perchè tutto ciò che ha avuto importanza per essa, le è stato sempre avvicinato dal caso, mai da una speciale raccomandazione — è assolutamente inestimabile con quel suo preveggente occhio di psicologo, con quel suo modo di cogliere la realtà, che ricorda la vicinanza dell’uomo più reale che ci sia mai stato (ex ungue Napoleonem). E infine, nè questa è la meno importante delle sue qualità, come ateo onesto, [p. 43 modifica]specie molto rara in Francia, e difficilissima a trovarsi — a maggior onore di Prospero Mérimée.... Forse, sono geloso di Stendhal? Mi ha rubato la migliore freddura ateistica, proprio quella che avrei potuto far io: «l’unica scusa di dio è ch’egli non esiste».... E io stesso l’ho detto, non so in quale mio scritto: «Quale è stata finora la massima obbiezione mossa all’esistenza? Dio»....


4.


Il più alto concetto della lirica me l’ha dato Enrico Heine. Cerco inutilmente nei secoli passati una voce altrettanto dolce e appassionata. Egli aveva quella divina cattiveria senza la quale non so immaginarmi la perfezione; poichè io apprezzo il valore degli uomini, delle razze, a seconda del grado in cui possono congiungere l’immagine di dio con quella del satiro. — E come scrive il tedesco! Un giorno si dirà che Heine ed io siamo stati di gran lunga i primi artisti della lingua tedesca, ad una distanza incalcolabile da tutto ciò che hanno fatto di lei dei semplici tedeschi....

Col «Manfredi» di Byron devo avere qualche affinità di sangue: tutti gli abissi della sua anima li ho riscontrati anche nella mia; a tredici anni ero maturo per quest’opera. Io non ho parole, ho solo uno sguardo per coloro che davanti al «Manfredi» hanno il coraggio di pronunciare la parola «Faust». I tedeschi sono incapaci di concepire la grandezza: Schumann informi! Per un’intima rabbia contro questo sassone sdolcinato, ho composto una «Contro-Ouverture» al «Manfredi», di cui Hans von Bülow diceva che non aveva mai visto roba simile scritta su carta da Musica, che quella era una violazione d’Euterpe.

Quando cerco la mia più alta ragione di stima per Shakespeare, trovo sempre soltanto quest’una: ch’egli ha concepito il tipo di Cesare. Cose simili non s’indovinano: lo si è o non lo si è. Il grande poeta attinge solo alla sua realtà, fino al punto ch’egli non può [p. 44 modifica]più sopportare la sua propria opera.... Se mi avviene di gettare uno sguardo sul mio Zarathustra, devo passeggiare poi per una mezz’ora su e giù per la stanza, incapace di dominare un intollerabile impeto di singhiozzi. Io non conosco una lettura più straziante che quella di Shakespeare: quanto deve aver sofferto un uomo per sentire a quel punto il bisogno di fare il buffone! Si capisce Amleto? Non è il dubbio, è la certezza che rende pazzi.... Ma per sentire a quel punto bisogna esser profondi filosofi, avere in sè degli abissi.... Noi tutti temiamo la verità.... E bisogna che lo confessi: io ho la sicurezza istintiva che lord Bacon è il creatore, il primo auto-carnefice di questo inquietante genere di letteratura: che importa a me il chiacchierio compassionevole di questi americani, confusionari e banali? Ma la forza della possente realtà della visione non soltanto è conciliabile con la massima energia all’azione, all’azione mostruosa, al delitto; — a dirittura la premette. Noi non sappiamo abbastanza di lord Bacon, il primo realista nel più ampio senso della parola, per sapere tutto ciò ch’egli ha fatto, ciò che ha voluto, ciò che ha pensato.... E, al diavolo, cari signori critici! S’io avessi battezzato il mio Zarathustra con un altro nome, per esempio con quello di Riccardo Wagner, non sarebbe bastata l’acuta indagine di due millenii per indovinare che l’autore di «Umano, troppo umano» è il visionario del «Zarathustra».


5.


Qui, dove parlo delle ricreazioni della mia vita, devo spendere una parola per esprimere la mia riconoscenza per ciò che m’ha ricreato più intimamente e più dolcemente: quest’è senza dubbio, la mia intima amicizia con Riccardo Wagner. Io tengo ben poco conto di tutti i miei rapporti con gli uomini, ma a nessun prezzo vorrei cancellare dalla mia vita i bei giorni di Tribschen, giorni di confidenza, di letizia, di casi sublimi, — di istanti profondi..... Non [p. 45 modifica]so in che rapporti altri siano stati con Wagner: sul nostro cielo non è mai passata una nuvola.

E con ciò torno ancora una volta in Francia. Io non ho delle buone ragioni contro di essi, ho soltanto una piega sdegnosa delle labbra per i wagneriani et hoc genus omne che credono di onorare Wagner con ciò, che lo trovano simile a sè.... Fatto come sono, per istinto estraneo a tutto ciò ch’è tedesco al punto che basta la vicinanza d’un tedesco per ritardarmi la digestione, il mio primo incontro con Wagner fu il primo momento della mia vita in cui respirai liberamente: io lo sentii, l’onorai come l’Estero, come l’opposto, come una protesta vivente contro tutte le «virtù tedesche».

Noi che, bambini, vivemmo nell’aria viziata degli anni intorno il 1850, siamo necessariamente pessimisti per il concetto di «tedesco», non possiamo essere che rivoluzionari, non ammetteremo mai uno stato di cose in cui abbia il sopravvento il Tartufo. Mi è perfettamente indifferente ch’esso si sia mutato d’abiti, che si vesta di scarlatto o indossi l’uniforme degli Usseri.... Ecco! Wagner era un rivoluzionario; scappava via dai tedeschi.... Come artisti non si ha altra patria in Europa all’infuori di Parigi: la delicatezza di tutti i cinque sensi artistici ch’è richiesta dall’arte di Wagner, l’abilità di cogliere le sfumature, la morbosità psicologica, non s’incontrano che a Parigi. In nessun altro luogo si mette tanta passione in questioni di forma, tanta serietà nella mise en scène; — quest’è la serietà parigina per eccellenza. In Germania non si ha la minima idea dell’enorme ambizione che sta nel cuore d’ogni artista parigino. I tedeschi sono bonarii — Wagner non era punto bonario.

Ma ho già spiegato abbastanza (in «Al di là del bene e del male», pag. 256 e seg.) a che schiera d’artisti appartiene, quali sono i suoi parenti più prossimi: sono i romantici francesi della seconda maniera, quella sublime schiera d’artisti come Delacroix, come Berlioz, con un fondo di malattia, d’incurabilità nel loro essere, veri fanatici dell’espressione. Virtuosi dalla testa ai piedi. E [p. 46 modifica]chi fu il primo intelligente partigiano di Wagner? Carlo Baudelaire, lo stesso che fu il primo a comprendere Delacroix, quella tipica natura di decadente in cui s’è riconosciuta tutta una generazione d’artisti; — forse, fu anche l’ultimo....

Che cosa non potrò mai perdonare a Wagner? Ch’egli condiscese ai tedeschi, che divenne un buon tedesco.... Fin dove arriva, la Germania distrugge la coltura.


6.


Considerato tutto, non avrei potuto sopportare la mia gioventù senza la musica di Wagner, perchè ero condannato «ai tedeschi». Per liberarsi da un incubo insopportabile si ha bisogno dell’haschisch. Ebbene: io, avevo bisogno di Wagner. Wagner è il contravveleno contro tutto ciò ch’è tedesco per eccellenza; è però un veleno, ne convengo.... Dal momento in cui ci fu una riduzione per pianoforte del Tristano — le mie congratulazioni, signor von Bülow — io fui wagneriano. Le precedenti opere di Wagner le vedevo al di sotto di me, ancora troppo volgari, troppo «tedesche».... Ma oggi ancora io cerco un’opera d’un fascino così pericoloso, così infinitamente terribile e dolce come il Tristano; la cerco in tutte le arti, inutilmente. Tutte le stranezze di Leonardo da Vinci perdono il loro fascino al primo accordo del Tristano. Quest’opera è assolutamente il «non plus ultra» di Wagner; si ristorò dalla fatica di averla creata, coi Maestri Cantori e con l’Anello. In una natura come quella di Wagner, guarire vuol dire fare un passo indietro....

Io considero come una gran fortuna di esser vissuto al tempo debito o d’esser vissuto proprio fra tedeschi, sì da esser maturo per quest’opera: a tal punto arriva in me la curiosità dello psicologo. Il mondo è povero per colui che non fu mai abbastanza malato per gustare questa «voluttà infernale»: qui è permesso, è quasi imposto di usare una formola mistica. Io credo di conoscere meglio [p. 47 modifica]di qualunque altro i prodigi di cui Wagner era capace, i cinquanta mondi di strani rapimenti verso cui nessuno, all’infuori di lui, poteva tender l’ala; e tale qual sono, abbastanza forte per volgere a mio vantaggio anche le cose più dubbie e pericolose e diventarne più forte ancora, io dico che Wagner è il grande benefattore della mia vita. E ciò che costituisce la nostra più intima somiglianza — l’aver noi sofferto, anche l’uno per l’altro, più profondamente di quello che possano soffrire uomini di questo secolo — riunirà ancora, eternamente, i nostri nomi; e come è certo che Wagner è incompreso dai tedeschi, è certo che anch’io lo sono e lo sarò sempre. Prima, due secoli di disciplina psicologica e artistica, cari signori tedeschi.... Ma codeste son cose che non si raggiungono.


7.


Ancora una parola, per gli orecchi più educati: quello che, veramente, io pretendo dalla musica. Che sia lieta e profonda come un pomeriggio d’ottobre. Che sia particolare, sfrenata, tenera: una piccola dolce donnina, fatta di umiltà e di grazia. Non ammetterò mai che un tedesco possa sapere che cos’è la musica. Quelli che si chiamano i musicisti tedeschi, e avanti tutti i più grandi, sono stranieri, Slavi, Croati, Italiani, Olandesi o — ebrei; altrimenti, sono tedeschi della forte razza, di quella ch’oggi è spenta, come Enrico Schütz, Bach e Händel. Quanto a me sono ancor sempre abbastanza polacco per dare per Chopin tutto il resto della musica: eccettuati, per tre ragioni, l’Idillio di Siegfried di Wagner e, forse, qualche cosa di Liszt che ha i più nobili «accenti d’orchestra» di tutti i musicisti; e ancora, tutto ciò ch’è stato prodotto al di là delle Alpi; — di qua.... Io non potrei fare a meno di Rossini, e tanto meno del mio Sud nella musica, della musica del mio maestro veneziano Pietro Gasti. E quando dico al di là delle Alpi, dico veramente soltanto Venezia. Se cerco un’altra parola per dire « [p. 48 modifica]musica», trovo sempre soltanto la parola «Venezia», non conosco differenza tra musica e lagrime; conosco la fortuna di non poter pensare al Sud senza un brivido di paura.


Stavo sul ponte
   or ora, nella notte bruna.
   Di lontano, veniva un canto;
   gocce d’oro scorrevano
   via, sulla superficie tremolante:
   gondole, lumi, musica,
   tutto nuotava, come in un sogno, verso il crepuscolo....
L’anima mia, come un’arpa
   tôcca da mani invisibili, cantava a sè stessa,
   nascostamente, una nenia da gondoliere,
   tremando di varia beatitudine.
   — L’ascoltava qualcuno?....


8.


In tutto ciò — nella scelta dei cibi, del luogo, del clima e delle ricreazioni — impera un istinto di conservazione che si manifesta nel modo più esplicito come istinto d’auto-difesa. Non vedere, non udire, non lasciar avvicinare a sè molte cose, è la migliore accortezza, la miglior prova per dimostrare che non si è un caso, ma una necessità. La parola in uso per designare quest’istinto d’auto-difesa, è «buon gusto». Il suo Imperativo comanda non solo di dir «No» quando il «Sì» sarebbe indizio di «disinteressamento», ma anche di dir «No» il meno possibile. Tenersi lontani, separati da tutto ciò che obbligherebbe sempre a rispondere «No». E ciò per la ragione che le spese di difesa, per piccole che sieno, se diventano una regola, un’abitudine, producono un impoverimento straordinario e affatto superfluo. Le nostre spese grandi sono le piccole ripetute troppo spesso. Il respingere, il non lasciar arrivare fino a noi, è una spesa — non ci facciamo illusioni — è una forza sprecata [p. 49 modifica]per scopi negativi. E perdurando la necessità di difenderci possiamo diventare tanto deboli da non poterci più difendere affatto.

Ammettiamo che io, uscendo di casa, trovassi invece della silenziosa e aristocratica Torino, una piccola città tedesca: il mio istinto dovrebbe rinchiudersi in sè per respingere tutto ciò che lo incalzerebbe da quell’ambiente triviale e rammollito. Oppure, troverei la grande città tedesca, questa creazione del vizio, dove nulla cresce spontaneamente, dove ogni cosa, buona e cattiva, è importata a fatica. Non dovrei diventarvi un porcospino? Ma l’avere aculei è uno spreco, è a dirittura un doppio lusso, quando si può benissimo non averne, tenere le mani aperte e tese.....

Un’altra misura di prudenza e d’auto-difesa consiste nel reagire il più raramente possibile e nel sottrarsi a situazioni e a condizioni in cui si sarebbe condannati a sagrificare la propria «libertà», la propria iniziativa e a diventare dei semplici organi reagenti. Prendo come termine di confronto il modo come adoperiamo i libri. Il dotto che, in fondo, non fa altro che rimescolare dei libri — un filologo di mediocri attitudini circa 200 il giorno — finisce col perdere completamente la facoltà di pensare da sè. Se non rimescola libri, non pensa. Quando pensa, egli risponde ad uno stimolo — un pensiero scritto; infine, non fa altro che reagire. Il dotto impiega tutta la sua forza nel dire «sì» o «no», nel criticare ciò ch’è già stato pensato; quanto a lui, però, non pensa più..... L’istinto dell’auto-difesa gli si è indebolito; altrimenti si difenderebbe dai libri. Il dotto è un decadente. L’ho visto coi miei proprii occhi: nature intelligenti, ricche, libere, già a 30 anni rovinate dal gran leggere, ridotte a dei semplici fiammiferi che devono essere sfregati perchè dieno scintille, cioè «idee». La mattina presto, all’alba, nella piena freschezza, nell’aurora delle proprie forze, mettersi a leggere un libro! Per me, questo è un Vizio!

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9.


Qui non si potrà più fare a meno di rispondere alla domanda «come si diventa ciò che si è». E con ciò, tocco del capolavoro nell’arte della conservazione di sè stessi, dell’egoismo..... Poichè, ammesso che il còmpito, la determinazione, il destino del còmpito, sta ben al di sopra d’una media misura, non ci può essere pericolo maggiore che quello di accorgersi di sè stesso e, insieme, di questo còmpito. Il fatto che si diventa ciò che si è premette che non si deve avere la più lontana idea di ciò che si è. Da questo punto di vista anche gli errori della vita hanno il loro significato e il loro valore, e così pure le vie più lunghe e i giri viziosi, gl’indugi, le «modestie», la serietà, sprecate per còmpiti che stanno al di fuori di quel còmpito. In ciò si manifesta una grande saggezza, anzi a dirittura la massima saggezza; se la ricetta sicura per perdersi fosse «nosce te ipsum», dimenticarsi, misconoscersi, impicciolirsi, restringersi, rendersi mediocri diventerebbe la «ragione» stessa. Per dirla con un’espressione tratta dalla morale: l’amore del prossimo, il vivere per gli altri, ecc. ecc., possono essere le misure precauzionali per la conservazione del più assoluto amore di sè stessi. Quest’è il caso eccezionale in cui io, contro le mie regole e i miei convincimenti difendo gl’impulsi «altruistici»: qui essi operano in favore dell’egoismo, dell’educazione di sè stessi. Bisogna tenere tutta la superficie della coscienza — la coscienza è una superficie — sgombra da qualunque grande Imperativo. Bisogna guardarsi anche dalle grandi parole, delle attitudini eroiche! Poichè esiste il pericolo che l’istinto «si comprenda» troppo presto.

Frattanto, nel profondo, l’idea organizzatrice, l’idea destinata a dominare, a poco a poco cresce, comincia ad imporsi, esce [p. 51 modifica]lentamente dalle vie secondarie e dai circoli viziosi, prepara singole qualità e capacità che una volta si dimostreranno indispensabili come mezzi per giungere al tutto, forma le une dopo le altre tutte le facoltà soggette, prima di lasciar trapelare qualche cosa del «còmpito» dominante, della «mèta», dello «scopo», del significato.

Considerata da questo lato, la mia vita è semplicemente meravigliosa. Per compiere una Inversione dei valori occorrevano forse più facoltà di quante furono mai finora in un individuo solo; sopratutto occorrevano delle contraddizioni fra queste facoltà senza che per ciò esse si disturbassero o si distruggessero l’una l’altra. Ordine gerarchico delle facoltà, senso delle distanze, arte di separare senza inimicare; non mescolare nulla, non «conciliare» nulla; un’infinita molteplicità che tuttavia è il contrario del caos: questa fu la premessa, il lungo lavoro nascosto, l’operosità artistica del mio istinto. E la sua alta salvaguardia si mostrò forte al punto che in nessun caso io ho neppur dubitato di ciò che si sviluppava in me, che tutte le mie facoltà mi si rivelavano d’un tratto, all’improvviso, nella loro ultima perfezione.

Io non mi ricordo d’essermi mai affaticato; nella mia vita non c’è traccia di lotta: sono il contrario d’una natura «eroica». «Volere» qualche cosa, «aspirare» a qualche cosa, avere uno «scopo» o un «desiderio», tutte cose che io non conosco per pratica. Anche in questo momento io guardo al mio avvenire — un lontano avvenire! — come ad un mare tranquillo: nessun desiderio ne increspa la superficie. Io non voglio affatto che qualche cosa diventi diversa da quella che è: io stesso non voglio diventare diverso..... Ma son vissuto sempre così. Non ho avuto nessun desiderio. Uno che a quarantaquattr’anni suonati può dire di non essersi mai dato da fare per onori, donne, danaro! Non che mi sieno mancati... Così, per esempio, un bel giorno io fui professore d’università, e non ci avevo pensato neppur lontanamente perchè avevo solo ventiquattr’anni. Così, due anni avanti, un bel giorno ero diventato [p. 52 modifica]filologo: nel senso che il mio primo lavoro di filologia, il mio principio in ogni senso, mi fu richiesto dal mio maestro Ritschl per il suo «Rheinisches Museum» (Ritschl — lo dico con venerazione — è l’unico dotto geniale ch’io abbia conosciuto fino ad oggi. Egli aveva quella piacevole depravazione che distingue noi, della Turingia, e che rende simpatico persino un tedesco: — per giungere alla verità noi preferiamo anche le vie meno rette. Con queste parole non intendo affatto di deprezzare il mio conterraneo, il prudente Leopoldo von Ranke).


10.


Mi si chiederà perchè, veramente, ho raccontato tutte queste piccole cose, indifferenti secondo il modo di vedere tradizionale. È una cosa che mi danneggia specialmente se sono destinato a riflettere sui più alti problemi. Risposta: queste piccole cose — nutrizione, luogo, clima, svaghi, tutta la casuistica dell’egoismo — sono infinitamente più importanti di tutto ciò che finora è stato considerato come importante. È proprio qui che bisogna cominciare a cambiar metodo. Ciò che finora gli uomini hanno considerato seriamente non sono neppur delle realtà, non sono che immaginazioni, o più esattamente menzogne prodotte da cattivi istinti di nature malate, veramente dannose nel più ampio senso della parola; così, tutti i concetti di «dio», «anima», «virtù», «colpa», «al di là», «verità», «vita eterna»..... Ma in essi s’è cercata la grandezza della natura umana, la sua «divinità»..... Tutti i problemi di politica, di sociologia, di educazione sono profondamente falsati fin dall’origine per il fatto che si presero gli uomini più dannosi per grandi uomini e s’insegnò a disprezzare le «piccole cose», cioè le cose fondamentali della vita.....

Ora, s’io mi confronto con gli uomini che finora sono stati onorati come «i primi», la differenza che passa tra loro e me è [p. 53 modifica]evidente. Questi pretesi «primi» io a dirittura non li metto fra gli uomini; per me essi sono appena rifiuti dell’umanità, prodotti di malattie e d’istinti di vendetta; sono dei mostri, sventuratissimi, profondamente incurabili, che vogliono vendicarsi della vita, lo voglio essere il contrario di costoro: il mio privilegio è quello di poter cogliere con grandissima finezza tutti i segni della sanità degli istinti.

Io non ho nessun tratto morboso; nemmeno durante le malattie gravi sono diventato morboso. In me si cercherebbe inutilmente la minima traccia di fanatismo. In nessun momento della mia vita mi si potrà dire che io abbia tenuto un contegno arrogante o enfatico. Il «pathos» dell’atteggiamento non fa parte della grandezza; in generale, chi ha bisogno di atteggiamenti studiati, è falso.... Guardiamoci dagli uomini scultorii!

La vita m’è diventata facile; facilissima quando m’imponeva le cose più gravi. Chi m’ha visto nei sessanta giorni di questo autunno, in cui senza interruzione ho fatto delle cose proprio di prim’ordine, cose che nessuno potrebbe imitare — o insegnarmi — con una grande responsabilità di fronte a tutti i secoli venturi, non avrà notato in me il minimo segno di tensione di spirito, ma più tosto una grande freschezza e vivacità. Non ho mangiato mai con più gusto, mai ho dormito meglio di allora.

Non conosco miglior mezzo di attendere ai grandi fini, che il giuoco. Codesto è indice di grandezza essenziale. Il minimo sforzo, la faccia scura, una forte contrazione dei muscoli del collo sono tante obbiezioni da sollevarsi contro l’uomo, e tanto più contro la sua opera..... Non si devono aver punto nervi..... Anche soffrire della solitudine è un titolo a sfavore: io ho sofferto sempre solo della «moltitudine»..... Già in un’età assurdamente giovane, a sette anni, sapevo che nessuna parola umana mi avrebbe mai potuto toccare; mi s’è mai visto triste per una parola umana? Ancora oggi io ho la stessa affabilità verso ciascuno, sono pieno di riguardi per i più umili; in tutto ciò non v’è un atomo di superbia, di intimo disprezzo. Chi è disprezzato da me indovina ch’io lo disprezzo; [p. 54 modifica]con la mia sola presenza io metto in tumulto tutto ciò che ha sangue cattivo nelle vene.....

La mia formola per la grandezza dell’uomo è amor fati: che, cioè, non si vuole nulla diverso da quello che è, non nel futuro, non nel passato, non per tutta l’eternità. Non solo «sopportare» ciò ch’è necessario, e tanto meno nasconderlo — tutto l’idealismo è una menzogna di fronte alla necessità — ma amarlo.....