Elettra (Sofocle)/Parodo

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Parodo

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Sofocle - Elettra (V secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1926)
Parodo
Prologo Primo episodio
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LAMENTAZIONE

E CANTO D’INGRESSO DEL CORO



Appena sono usciti i giovani e l’aio,
entra sulla scena Elettra.


elettra
Sistema
O fulgida luce,
o ètra che cingi la terra,
100deh, quanti miei carmi di doglia
udiste, e sul seno sanguineo
le fitte percosse, nell’ora
che il buio notturno si sperde!
E il letto odïoso del tristo
105palagio sa ben le mie veglie:
ch’io, misera, piango mio padre,
a cui non fu ospite Marte
cruento, su estranea terra:
a lui la mia madre, il suo drudo
110Egisto, la testa fenderono
con la scure sanguinea, come
boscaioli una quercia; e nessuno,

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tranne me, tal cordoglio sostenne
di te, padre, ucciso con tanta
115vergogna, con tanta pietà.

Antisistema
Ma io non desisto
dai pianti, dagli ululi lunghi,
sin ch’io le ardentissime rote
degli astri, ed il giorno contempli.
120Come orbo dei figli usignuolo,
farò su le soglie paterne
suonar dei miei gemiti l’eco.
O d’Ade magion, di Persèfone,
o Dire terribili, o Ermète
125sotterraneo, o figlie dei Numi
Erinni, che sopra gli uccisi
per frode, vegliate, e sui talami
usurpati, movete al soccorso,
vendicate la strage del padre,
130e a me rimandate il fratello,
ché io, di tristezza la mora
da sola più regger non posso.

Durante queste parole d’Elettra entra nell’orchestra il Coro, di quindici giovinette di Micene.
coro
Strofe I
Elettra, Elettra, figlia
di sciagurata madre, e perché struggerti
135in questo eterno insazïato gemito
per tuo padre Agamennone,
che per l’inganno della madre subdola

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tua, preso fu, trafitto
con la malvagia mano? Oh, se m’è lecito
dirlo, muoia chi fu reo del delitto.
elettra
Per consolarmi dei miei dolori
veniste, o figlie d’eroi magnanimi,
lo so, lo intendo, non son dimentica.
Ma non per questo posso desistere
che l’infelice padre io non plori.
O voi che d’ogni grazia remunerate l’amicizia mia,
vi supplico, lasciatemi
a questa mia follia.
coro

Antistrofe I
Della palude Stigia
che tutti accoglie, con le preci e i gemiti
il padre tuo far non potrai risorgere.
Ma tu varchi ogni limite,
tu trascorri ad un mal che non ha farmaco,
e nei lai ti consumi.
Né modo v’ha che del tuo mal ti liberi,
quando tu l’impossibile presumi.
elettra
Stolto è quel figlio che il suo parente
miseramente morto dimentica.
Ma col mio cuore l’augello è cònsono
di Giove araldo1, trepido, flebile,
ch’Iti, Iti geme perennemente.

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Niobe, infelicissima io te reputo Dea: ché nel recesso
delle rupi funereo
piangere è a te concesso.
coro
Strofe II
Non te sola fra gli uomini,
figlia, il dolor colpia,
ch’or te preme su tutti i consanguinei.
Ché non Ifigenia, non Crisotèmide
soffrono le tue pene,
né quei che gli anni giovani
vive in segreto cruccio2,
e pur beato: poi che, quando a queste
plaghe il Cronide lo addurrà, Micene
accoglierà, com’egli giunga, Oreste.
elettra
Senza figli né sposo attendo, o misera,
e l’attendere tregua non ha mai:
soffro, molle di lagrime,
il mio destino d’infiniti guai:
ei quanto sa, quanto soffri, dimentica.
Qual novella di lui non fu bugiarda?
Ché sempre desiderio
ha di tornare in patria, e sempre tarda.
coro
Antistrofe II
Fa’ cuor, fa’ cuore, o figlia!
D’Olimpo ancora ha il regno

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Giove che tutto vede e tutto domina.
Lascia l’aspro tuo sdegno, e per chi abòmini
troppo odio non aver, né troppo oblio.
Ché tutto il tempo agevola;
né il figlio d’Agamènnone,
ch’or vive in Crisa di giovenchi altera,
scorda il di del ritorno, e non il Dio
che d’Acheronte presso il fiume impera.
elettra
Ma senza speme il piú già del mio vivere
passò; né forza v’è che piú mi regga.
Senza figli mi macero,
senza sposo che m’ami e mi protegga.
E quasi indegna qui vivo ed estranea,
nella casa del padre; ed una stola
cingo alle membra sordida;
e seggo a mensa abbandonata e sola.
coro
Strofe III
Sorse, al ritorno, un ululo
pi’etoso dal talamo del re,
allor che della bronzea
mascella il colpo su lui s’abbatté.
Diede Frode il consiglio. Amor percosse:
con orrendo connubio, a luce il germine
diedero entrambi d’una orrenda immagine,
sia che di Nume o d’uom l’opera fosse.

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elettra
Oh, fra tutti esecrabile
giunse per me quel dí.
Oh notte, o immane cruccio
di nefandi banchetti! Ivi d’orribile
morte il padre perí:
ché due mani e due mani i colpi infersero,
quelle ond’io fui tradita,
distrutta ebbi la vita.
Il sommo Nume olimpico
faccia piombar su lor le ultrici pene:
mai chi compié lo scempio
non goda ora di bene.
coro
Antistrofe III
D’oltre parlare guàrdati.
Coscïenza non hai, da che cagioni
a che gravi pericoli
miseramente la tua vita esponi?
Tu già mali attirasti oltre misura
sopra te stessa: ognor contese genera
l’irrequïeto animo tuo: combattere,
affrontare i potenti, è cosa dura.
elettra
Lo strazio, ahimè, lo strazio
mi sforza. Io sí, deliro,
lo intendo; e il mio delirio
non cesserà sinché duri lo spasimo,

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sin ch’io tragga il respiro.
Chi sarà che, scorgendo ov’è giustizia,
compagne mie, mi dica
una parola amica?
Lasciatemi, lasciatemi
senza conforto: fine mai non avrà lo schianto:
bagnerà sempre il ciglio
l’inestinguibil pianto.
coro
Epodo
Come una madre, per cura
benigna ti parlo: ché tu
non aggiunga sventura a sventura.
elettra
Dimmi, ebbe limite mai la mia doglia?
Dimmi, dei morti non darsi pensiero
sarebbe virtú?
Presso che genti tal fede germoglia?
Fra quelle riscuotere onore
io non vorrei, né, se bene
posseggo, godermelo in pace,
se l’ali agli acuti lamenti
troncare dovessi, frodarne
l’onore ai parenti.
Ché, se il defunto, null’altro
che polvere, giace,
e i rei non conoscon le pene
del loro assassinio, pudore o pietà
fra gli uomini piú non sarà.

Note

  1. [p. 248 modifica]L’augello araldo di Giove è l’usignolo, in cui fu trasformata Procne, che piange continuamente il figlio Iti ucciso.
  2. [p. 248 modifica]Quei che gli anni giovani ecc. è Oreste, ricordato al v. 174.