Fantasia (Serao)/Parte seconda/I

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Parte seconda Parte seconda - II
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I.


S
otto la pioggia fitta, continua, dal romorìo monotono e melanconico, che il novembre riversa sulla terra, scompariva la campagna ancora verde. Laggiù, Caserta, avvolta nella pioggia come in un velo di nebbia, pareva una grande macchia grigia, cupa sopra un fondo grigio chiaro. Dietro la pioggia erano scomparsi i monti Tifata, che si tingono così intensamente di violetto nei lunghi tramonti autunnali. Il piccolo e aristocratico villaggio di Centurano, fatto tutto di ville signorili, divise da viuzze strette e da siepi fiorite, taceva sotto la pioggia. All’angolo della strada maestra che viene da Caserta, la fontana che Ferdinando di Borbone concesse al suo barbitonsore favorito, Michelangelo Viglia, traboccava

[p. 54 modifica]di acqua piovana. La giornata triste, lunga, acquitrinosa, moriva lentamente in un crepuscolo di pioggia che sembrava già la sera. Nessun rumore. Gli ultimi villeggianti se ne stavano chiusi nelle case, sbadigliando, sonnecchiando, guardando dai vetri i giardini sfoltiti e immollati d’acqua, le rose d’ogni mese pendenti e come scapigliate, i piccoli pantani dove cascava fitta la pioggia, i pergolati di passiflore, qua e là devastati, mostranti il legno nudo, come le ossa di uno scheletro. Dietro una finestra si vedeva la faccia vecchia e scialba, la papalina di velluto rosso del giudice del tribunale di Santamaria, cav. Scardamaglia; dietro un’altra il naso troppo aquilino e le guance lunghe della signora Magalotti, la moglie dell’ingegnere pei lavori del palazzo reale. Sulla loggia coperta della loro villa, i bambini dell’avvocato Farini correvano e strillavano, con le mani bagnate, il nasino bagnato, le calzettine bagnate: sotto l’arco del balcone, Francesca, la balia, faceva la calza, senza sgridarli. Le grondaie mandavano acqua a sgorgo, le catinelle erano piene, i tini per il bucato famigliare traboccavano, le muraglie si macchiavano come di ruggine.

Dietro i cristalli del suo balcone Caterina guardava la fontana, da cui l’acqua riboccante cadeva sulla terra. Cercava di spingere lo sguardo lontano, sulla via di Caserta, ma non le riesciva vedere nulla, per la pioggia. Ritornava a guardare la fontana dell’angolo e a leggere i primi due versi della sciocca iscrizione:

Diemmi dell’acqua Giulia
Un rivoletto il Re.

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Ma la contemplazione la stancava. Ricominciò a cucire. Sedeva nel vano del balcone, avendo dinanzi un tavolino da lavoro, sparsivi sopra i gomitoli, l’agoraio, il cuscinetto degli spilli, le forbici grandi e piccole, le matassine di nastro da orlare; accanto aveva un grande cesto di biancheria nuova, tutta impuntita, da cucire. Ora faceva l’orlo a un tovagliuolo di Fiandra; ne aveva già orlati quattro, che stavano, piegati, sul tavolino. Cuciva piano, senz’affrettarsi troppo, senza curvarsi troppo sul lavoro, con una giustezza armoniosa di movimenti. Quando tagliava il filo con le forbici, si voltava un momento verso la strada, per vedere se alcuno giungesse. Poi riprendeva pazientemente l’orlo, stirandolo con l’unghia rosea per renderlo uguale. Una volta, un rumore nella via la fece scuotere: abbandonò il cucito, stette ad aspettare. Era il carrozzino coperto in cui l’avvocato Farini tornava da Nola, dove era stato per una causa in pretura. L’avvocato, scendendo, le fece una grande scappellata. Lei, malgrado il disinganno, salutò con un bel sorriso e seguì con lo sguardo l’avvocato a cui i bambini tendevano le braccia dai ferri della loggia, strillando.

Di nuovo il profilo corretto si chinò sulla tela fiorata e la mano agile fece correre l’ago. Caterina pareva fatta più grande, sebbene serbasse ancora una certa delicatezza fanciullesca, una minutezza gentile di lineamenti. Lo sguardo degli occhi grigi era più fermo, più diritto; si era assodato il contorno delle guance, era diventato più energico il mento. Sulla fronte un po’ bassa calavano le due falde dei capelli [p. 56 modifica]castani, un po’ ondulati, raccolti sulla nuca in una grossa treccia, sorretta da un pettine a fascia, di tartaruga bionda.

Portava un abito da casa, corto, di casimiro bianco avorio, appannato e morbido: molto serrata la vita, ricordo della civetteria collegiale. Al collo una grande cravatta di merletto quasi gialla, a fiocco ricco, ove il mento si seppelliva, sul quale il viso pigliava una finissima tinta rosea. Del merletto riccio ai polsi. Nessun gioiello. Solo all’anulare della mano diritta una fascetta semplice d’oro. Tutta la persona aveva insieme qualche cosa di semplice e di sereno, di nitidamente tranquillo e allegro.

— Ho da portare i lumi? — domandò Checchina la cameriera, entrando.

— Che ora è?

— Quasi le sei.

— Aspetta ancora un poco.

— E il signore che non viene!

— Verrà.

— Dio sa come sarà bagnato!

— Speriamo di no. È tutto pronto in camera?

— Tutto.

— Va pure.

Checchina uscì. Caterina non ricominciò a cucire: già non ci vedeva più e aveva detto di non portare ancora i lumi, per credere che fosse ancora presto. Ma il lampionario di Centurano, sotto l’ombrello, avvolto nel cappotto d’incerato, andava accendendo i pochi fanali a petrolio del paesello. Caterina si pose [p. 57 modifica]a riordinare la biancheria nella penombra. Checchina, impaziente, entrò con due lumi.

— Dice il cuoco: che cosa deve fare?

— Aspetti.

— Sino a che ora?

— Sino alle sette, come iersera.

— Ma ad un tratto un debole latrato si udì di lontano, in capo alla viottola.

— Questo è Fox — disse tranquillamente Caterina. — Viene il signore.

Subito per la casa fu un grande aprire e chiudere di porte, un andare e venire. Di lì a un poco una voce clamorosa empì il cortile:

— Qua Fox, qua, povera bestia: qua, Diana, che sei bagnata come un pulcino! Caterina, Caterina! Matteo, attento allo schioppo che è pieno d’acqua! Caterina!

— Sono qua — disse lei, chinandosi sulla scala.

Una grossa testa bruna e riccioluta, sotto un cappello verde di feltro alla cacciatora, poi un corpo erculeo, vestito con la giacca di velluto, i calzoni di pelle e gli stivaloni, comparve sui primi scalini. Con grande rumore di speroni e schioccare di frustino, ridendo a gola aperta, bagnato dal capo ai piedi, Andrea acchiappò sua moglie per la vita, la levò come un bambino sul suo largo torace, la baciò furiosamente, rudemente, sugli occhi, sulle labbra, sulla nuca, nel collo.

— O Ninì, o Ninì — diceva lui, tra i baci schioccanti.

— Sei venuto.... sei venuto.... — mormorava lei, tutta ridente, col pettine che le cadeva e certe macchie rosse che le apparivano vive sulla pelle. [p. 58 modifica]

— O Ninì, o Ninì — ripeteva lui, ficcando il grosso naso rincagnato nella mollezza della cravatta.

Poi posò la moglie a terra, respirò violentemente, sbuffò come un mantice, si stirò.

— Come sei bagnato, Andrea!

— Da capo a piedi. Un tempo indiavolato. Ieri una caccia magnifica; ma oggi, perdio, una pioggia birbona. Mi sono immollato sino alle ossa.

Si affacciò alla finestra del cortile e gridò:

— Bada ai cani, Matteo. Strofinali con la paglia calda.

— E tu, Andrea?

— Vado a cambiarmi. Ma, sai, non ho freddo. Ho camminato tanto, che ho caldo. È pronto tutto?

— Tutto pronto.

— E il pranzo? Ho una fame da morire.

— Pronto il pranzo, Andrea.

— Maccheroni, eh?

— Pasticcio di maccheroni.

— Urrà! — urlò lui, squassando in aria il suo cappello. — Sei una Ninì d’oro.

E la riprese in braccio, come un mucchietto di roba.

— Mi bagni tutta — disse lei sottovoce, senza schermirsi.

— Sono una bestia, hai ragione. Il tuo bell’abito bianco! Che malcreato!

E glielo puliva con le mani, delicatamente. Cavò il fazzoletto, s’inginocchiò per asciugarle la gonna; lei diceva no, che non era nulla, che non voleva si affaticasse. [p. 59 modifica]

— Lascia, lascia, che sono una bestia.... sono una bestia — insisteva lui.

Quando ebbe finito, la voltò, la rivoltò, come una bambola.

— Sei asciutta, ora, Ninì. Come odori di buono! L’hai nella cravatta l’odore o nella pelle? Vado a vestirmi. Tu va a vedere che fa il pasticcio di maccheroni.

Ella andò, ma ritornò subito, e stette a origliare presso la porta se egli la chiamasse. Egli, in camera, andava, veniva, sbuffava di soddisfazione, lanciava gli stivaloni fradici contro il muro, scalpitava come un cavallo, canticchiando; cercava la sua roba, dicendo sopra un motivo di canzonetta:

— Dove sono le calze.... le calze.... le calze....eccole. Ma mi manca la cintura, mi manca la cintura.... per reggere.... per reggere.... per reggere i calzoni. La cintura, eccola qua.... Ho io una cravatta?

Poi un silenzio.

— Non la trovi la cravatta, Andrea? Vengo io? — chiese lei timidamente.

— Ah! tu sei là! E la cravatta è qui.... Ho finito. Chiama Checchina che porti via questa roba bagnata, mentre noi pranziamo.

Uscì fuori, tutto rosso in volto per essersi strofinato troppo. Nel vestito di casa pareva più alto, più forte; la testa leonina dalla criniera riccia e fulva, dalla fronte depressa, dagli occhi azzurri, dai baffoni irsuti di un biondo fulvo, era piantata energicamente sopra un collo taurino, grosso, ma bianco. Portava un fazzoletto di seta bianca invece del colletto in cui affogava. Le [p. 60 modifica]spalle larghe facevano scricchiolare la giacca di panno azzurro-cupo: il largo petto faceva gonfiare la tela finissima della camicia. Era una figura poderosa, ma la cura minuziosa della persona si vedeva nel taglio elegante dei capelli, nel lucido delle unghie accurate, in una certa noncuranza signorile che non lo rendeva impacciato nella sua forza.

— Bè, Caterina, si pranza oggi?

— È in tavola.

La sala da pranzo era tutta gaia, pei candelabri accesi, per la tovaglia nitida, per la lucida argenteria. In mezzo vi era un trionfetto di frutta, uva, mele, pere, tutte bionde in quell’autunno crescente. Per le imposte chiuse, solo un piccolo mormorìo di pioggia si udiva. La luce batteva sui due grandi credenzoni di legno di quercia a vetrate, dove si vedevano ordinati i servizi di porcellana e di cristallo: batteva sui quadri di legno scolpito, dove le nature morte, uccelli, pesci, frutta, si ombreggiavano o si rilevavano. Le due poltrone erano una di fronte all’altra. Tutta la sala si riposava in un senso di ordine e di pace. Fumava il pasticcio di maccheroni, dalla crosta di pasta dolce, di color rame. Andrea mangiava forte e silenziosamente: aveva tre volte preso del pasticcio. Caterina, dopo aver mangiato con un bell’appetito di donna giovine e solida, lo guardava a mangiare, sorridendo un poco, col mento in aria.

— Perdio! com’è buono questo pasticcio. Dirai al cuoco, Caterina, che lo rifaccia spesso.

— Glielo scriverò sul libro della spesa. Ne vuoi ancora? [p. 61 modifica]

— No: basta. Chiama, ti prego. Ha piovuto tutta la giornata qui?

— Piove da stanotte.

— Anche a Santamaria. Sai, sono stato ai Mazzoni, in quella nostra tenuta del Torone.

— Hai dormito là questa notte?

— Sì. Un buon letto: lenzuola grosse, ma fresche. Ma ero furioso, ti assicuro, per via del tempo. Prendi dell’arrosto, Ninì. Non ci è più verso di andare a caccia. Chi è venuto qui?

— Il colono, Peppe Guardino, di Nola. Vuole una dilazione.

— Sono tre che gliene accordo. Il colono è ubbriacone e accoltellatore. Paghi.

— Dice che non ha.

— Non ha, non ha — gridò lui con violenza — e io lo scaccio.

Ella guardò fissamente, ma sorridendo. Andrea abbassò la voce.

— Non so perchè mi ci riscaldo — borbottò. — Scusa, sai, Ninì. Mi secca quando ti vengono a infastidire con queste miserie. Cosa gli hai detto?

— Che te ne avrei parlato, che vedremo. Fa’ tu. Dammi del vino. A proposito, Giovanni è venuto; i tre lavelli sono aperti. Il vino, secondo dice lui, promette bene.

— Ci passerò domani. Quando sarà finito questo lungo affare, tra una settimana, partiremo per Napoli. Tu sei impaziente? Perchè non mangi del pollo? Ti assicuro che è ottimo. [p. 62 modifica]

— Di’ la verità, sei tu che ne vuoi ancora?

— Me ne vergogno, ma dico di sì. Dunque tu vuoi andare a Napoli?

— E tu?

— Io anche. Qui niente caccia. Questi vicini sono noiosi. Laggiù ci aspettano. A proposito, chiama Checchina e dille che nella mia giacca da caccia vi è una lettera per te, che ho trovata alla posta di Caserta.

— Chi scrive? — disse lei, trasalendo.

— Quegli che ti manda le lunghe lettere, con un caratterino sottile, sopra la carta velina! quegli che ha per suggello un teschio e il motto Nihil: quegli che profuma così fortemente d’ambra la sua carta, da appestare la mia tasca. Eccoti una pera mondata, Ninì. È il tuo innamorato che ti scrive.

— È Lucia Altimare, nevvero?

— Già — fece lui, distendendosi, con un sospiro di soddisfazione, come chi ha ben mangiato — la signorina Lucia Altimare, creatura magra, vaporosa, pungente ai gomiti, posatrice per eccellenza.

— Andrea!

— Vuoi dire che non è posatrice? Quanto sei indulgente, Ninì! Che è questo sotto la tavola, Ninì? il tuo piede? Spero di non avertelo schiacciato. Ma la tua amica mi è antipatica, per quella sola volta che l’ho vista.

— Me ne dispiace, Andrea. Vorrei che, rivedendola, ti ricredessi.

— Se te ne duole tanto, speriamo che io mi ricreda. [p. 63 modifica]Ma perchè profuma tanto le sue lettere? Ti raccomando questo caffè, Caterina; dev’essere bello.

— Lucia è malaticcia e infelice. Fa compassione. Tu credi che cinque cucchiaini di polvere basteranno?

— Mettine sei. Capisco; se vuoi, avrò compassione. Ma non leggere ancora la sua lettera; è lunghissima, a giudicare dal peso. Fammi prima il caffè. Se no, dico che tu vuoi più bene a Lucia che a me — mormorò Andrea nella tenerezza vaga della digestione.

— La leggerò dopo.

Egli, disteso nella poltroncina, col capo arrovesciato, respirando lentamente e beatamente, con la cravatta allargata intorno al collo, le mani abbandonate sulla tovaglia, la guardava fare il caffè. Ella, tutta arrossita nella attenzione, cogli occhi chinati, col gesto cauto, sorvegliava il bollore, stando a sentire se il fischietto della macchinetta avvisasse del momento della cottura. Era una figura tranquilla e svelta, che non si affaccendava troppo, che non si moveva molto: presa dalla sua occupazione, vi si dedicava tutta quanta.

— È fatto — disse a un certo punto.

— Andiamo a prenderlo nel salotto — disse lui. — In premio ti farò leggere la lettera del mio rivale.

Nel salotto, dove ritornarono, un fuoco gaio di legna era acceso nel caminetto; un seggiolone profondo, di pelle nera, vi era accanto. Andrea vi si distese con un sospiro di sollievo.

— Se non fosse la caccia, ingrasserei troppo — mormorò. — Non rimetterti a cucire, Caterina, siedi qui e discorri meco. Ballavate in collegio? [p. 64 modifica]

— Due volte per settimana veniva il maestro di ballo.

— Ti piaceva il ballo?

— Abbastanza. E a te piace?

— A me moltissimo. Ora, quando andremo a Napoli, nell’inverno, balleremo. Abbiamo già tre inviti.

— Giovanna Casacalenda.... e uno.

— In casa dei miei parenti Valghera.... e due.

— Da Passalancia.... e tre.

— Balleremo, Ninì. Senza il ballo ingrasserei troppo. Mi servirà di esercizio. La tua malinconica e ischeletrita amica balla?

— Lucia?

— Sì.

— Ballava poco. Le piacevano i lancieri, mi ricordo, e la mazurka. Sai, non è molto forte pel waltzer.

— Una donna sempre ammalata, che vi sviene ogni minuto fra le braccia! Che seccatura!

— Oh! Andrea!

— Almeno tu stai sempre bene, Ninì.

— Sempre.

— Tanto meglio. Vieni qui che voglio darti un bacio. È arrivato il Pungolo?

— Eccolo qui.

— Caterina, io mi sprofondo nel giornale. Leggi pure la tua lettera, non voglio tormentarti oltre.

Ma mentre lui si perdeva nelle elucubrazioni politiche sulla situazione, Caterina, malgrado il permesso avuto non lesse ancora. Restò con la lettera tra le mani, guardandola. La fiutò: era carica di un profumo violento e voluttuoso, l’ambra gialla. Poi, di sottecchi, [p. 65 modifica]guardò il marito. Poco a poco egli si addormentava, inclinando la testa sulla spalla. Dopo cinque minuti il giornale gli cadde di mano. Caterina lo raccolse pian piano e lo posò sulla tavola. Abbassò il lume in modo da mettere la stanza in una penombra. Poi ritornò alla sua poltroncina e si chinò a leggere davanti alla fiammata della legna.

Per lungo tempo nella stanza non si udì che il respiro regolare e calmo di Andrea addormentato profondamente e il lievissimo stropiccìo della carta velina di Caterina che voltava il foglio della lettera. Essa la leggeva lentamente e con molta attenzione, quasi misurando le parole. Ogni tanto sul suo viso, illuminato dalla fiamma, passava come un’ombra di pena. Quando ebbe finito di leggere guardò suo marito: dormiva sempre, come un grande fanciullo, bello e buono nella sua forza, nella dolcezza infantile dell’uomo che ama. Posava calmo, sicuro, nella lassezza dei muscoli affaticati, nella pace dell’animo retto. Si curvò di nuovo verso la fiamma e lesse la lettera un’altra volta, da cima a fondo, con la stessa minuta attenzione.

Terminata questa seconda lettura, Caterina fece scivolare la lettera nella saccoccia profonda della sua veste, e rimase con la mano semi-nascosta in tasca, con la testa appoggiata alla spalliera della poltroncina. Passò il tempo: suonarono i quarti e le mezz’ore all’italiana, all’orologio del campanile di Centurano: poco a poco il fuoco si consumò nel caminetto. Andrea si destò di soprassalto.

— Caterina, svegliati. [p. 66 modifica]

— Non dormo, Andrea — disse lei placidamente.

Aveva vegliato, con gli occhi spalancati.

— È tardi, è tardi, Ninì. È ora di far la nanna. E con uno dei suoi scherzi amorosi di colosso, se la prese in collo come una bimba.