Filocolo/Libro quinto/36

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Libro quinto - Capitolo 36

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Mentre così sopra la chiara onda si ragionava, quella, tutta commossa, del mezzo di sé mandò fuori una pietosa voce, e disse: - O tu, il quale da debita pietà de’ miei danni se’ mosso a sì bene per me parlare, e cui alla voce riconoscere mi pare, se lungo dolore, o voce a quella ch’io credo simile, non m’inganna, gl’iddii mettano il tuo piacere avanti, e te guardino da simile caso, acciò che mai non pruovi quello di che se’ con ragione pietoso. Io ti priego per quella pietà che di me nel tuo petto dimora che, s’io mai ti fui caro, che quello che poco inanzi dicevi metti avanti, acciò ch’io così ti possa vedere come io t’odo parlare, e adempiasi quello che la speranza mi promette -. Menedon e gli altri a questa voce tutti attoniti diventarono, ancora che altra volta l’avessero udita parlare, e tacquero alquanto; poi Menedon rincominciò: - Niuna ammirazione ho se la mia voce conosci, però che sì com’io credo, le avversità non danno a chi le riceve dell’amico oblianza; ma dimmi, se non t’è grave, qual via sia a’ tuoi beni più utile, acciò che io per quella correndo ti riduca nel pristino stato -. A cui Fileno: - Oimè, quanto lontano a quella ti sento! Una sola cosa mi manca, la quale avendo viverei contento, e quella è la grazia del signor mio Florio, figliuolo dell’alto re Felice, a cui già ti conobbi compagno: gl’iddii me ne sieno testimonii che fedelmente l’amai e amo! E’ non è lungo tempo passato che i miei dolori multiplicarono, sentendo io da un giovine, di Marmorina vicino, che quinci passò, com’egli avea la sua bella Biancifiore perduta, e pellegrinando con dolore la ricercava: e se quella riavessi, certo io conosco gl’iddii sì misericordiosi, ch’essi mi renderieno la perduta forma. Dunque, sola quella mi procaccia con valevoli prieghi, quella mi racquista se me vuoi trarre d’affanno. E se tu, o giovane, disideri forse di sapere perché io la perdessi, io tel dirò. Certo io non sacrilegio, non tradimento, non omicidio, non ribellione commisi, perché giustamente movessi il mio signore ad ira, ma come giovane amai: e cui? Non sua nimica, ma quella giovane che lui sopra tutte le cose del mondo amava: io dico di Biancifiore, la cui bellezza quanti la vedeano tanti ne innamorava. E certo io ignorava che egli lei amasse, ché se saputo l’avessi, ben che il cuore dell’amore di lei portassi feruto, con forza mi sarei infinto di non amarla. E ben che io pur molto l’amassi, guastava però il mio amore la sua fermezza, la quale si dice che mai per alcuno accidente non mutò cuore? Certo no! E se io il bel velo ebbi, il quale col mio non tacere mi fu di tanto male, quant’io sento e ho poi sentito, cagione, ella, invita, comandandogliele la reina, mel concedette: dunque per amore puoi vedere ch’io mi dolgo. Oimè, che se l’ira d’uno potesse trarre amore del cuore ad un altro, io direi che licito gli fosse stato l’adirarsi; ma quella in me misero il multiplicò, né l’ha però mancato il lungo essilio. Or quali cose sono con maggiore appetito disiderate che quelle che sono molto vietate? Veramente ti giuro che mai il mio pensiero non si distese tanto avanti ch’io sconcia cosa di Biancifiore disiassi, né disidererei già mai, sentendo com’io sento che ella sia da lui sopra tutte le cose amata. Né mi pare ingiusta cosa a dire ch’egli più si debba contentare che io la ami che se io la odiassi. E se quello c’ho detto non si concede, e dicasi pure ch’io gravemente abbia fallito, consentasi, e sia a chi si pente largito perdono. Giove perdona e ciascuno altro iddio a’ suoi offenditori, quando, riconosciuto il fallo, pentendosi domandano perdono. Veramente mi saria grazia, s’io fallii, che ’l mio signore mi perdoni, ché s’io non fallii, avendomi in ira, mancherebbe di suo dovere. Tanto è la grazia grande quanto il perdono. Niuna ragione vuole che grado si senta del non ricevuto servigio. Se io fossi in Marmorina e servissilo e avessi la sua grazia intera, di ciò al mio servigio sentirei dovere rendere grazie. Oimè, che a’ signori dovria essere spesso caro il fallire de’ suggetti per poter perdonare, acciò che perdonando la loro grande benivolenza mostrassero. Sanno però gl’iddii, conoscitori degli occulti cuori, che io tal guiderdone del mio amore non meritai, ma forse altro peccato a sì fatta pena, sotto questo titolo d’avere Biancifiore amata, non sanza ragione, m’ha menato. Bella vittoria e grande è il perdonare. Dunque per onore del mio signore e per lo mio utile priega: e se tanto di me ti cale, non ti paia l’affanno, che non fia piccolo, malagevole, acciò che me possa rendere lieto a’ miseri parenti, ignoranti de’ miei angosciosi fati. Per merito del quale bene, se ’l farai, spero che lungamente gl’iddii ti serveranno lieto a’ tuoi, se gli hai -.