Frammenti di Petronio

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Petronio Arbitro I secolo 1863 Marcello Tommasini Indice:Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu satira letteratura Frammenti di Petronio tradotti da Marcello Tommasini Intestazione 14 marzo 2012 100%


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FRAMMENTI


DI PETRONIO IL SATIRICO



I.


Scintillano i tuoi grandi occhi lucenti
Siccome stelle, e par di rose il collo
Mollemente cosperso: più dell’oro
È fulgida la chioma, e dilicate
5S’infiorano d’un letto le tue gote
Color vermiglio, e il sangue con il latte
Purissimo commisto, il largo petto
A te ricolma. Ogni bellezza, o cara,
Di posseder t’è dato, onde una diva
10T’appalesi in sembiante, e con l’eletto
Etereo magistero di tue forme
Ne fai la bella Venere men bella.
La tua man pare argento, e con le molli
Dita versi lo stame, onde ne traggi
15Seriche fila. Il vago piè non calca
Minuta ghiaia, e scellerata cosa
Saria che t’offendesse aspro terreno
La molle pianta: e se sovresso i gigli
Tu movi il piè, sotto il tuo lieve incarco
20Ei s’incurvano appena. Altre donzelle

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A vezzi ornino il collo ed a monili,
E a gemme il crin; ma tu piacente sei
Senza di lor. Rara è bellezza intera,
Quale è in te: se vederti occhio potesse,
25Non vedria più perfetta altra beltade.
Delle Sirene il canto e di Talìa
Il dilicato plettro ammutolito
Avrieno alla tua voce, onde si parte
Dolcissima parola, e quel possente
30Dardo che le ferite alme innamora.
Anche il mio cor la trafittura sente,
Che da te viene, ed argomento alcuno
Non v'ha che la risani. Oh le tue labbra
Miste alle mie questo crudele affanno
35Mi cessino una volta: a medicina
Di tal valor l’oppressa alma piagata
Vincerà la tua doglia. Oh non precida
Il tuo troppo rigor queste infralite
Fibre, nè sia per te a morirmi io tratto;
40Che se troppa io t’ho chiesto, e una preghiera
Pur non disdegni, almen dopo la morte
Degna il defunto d’un tuo caro amplesso,
E fra le nivee braccia, un’altra volta
Forse il defunto sentirà la vita.


II.


Albuzia.


III.


Donzelle a Menfi nate
Compre alle sagre usate,
3E bruni le sembianze
Garzon sonanti i crotali
Menano Egizie danze.

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IV.


La soprintendente ai bagni.... Roso il pollice fino a rischio di perirne.


V.


A vecchia avvinazzata
Trema la bocca enfiata.


VI.


Risposero le messi al mio sudore.


VII.


Mena con muta triplice
Trivia pel ciel la tua notturna luce,
E Febo rapidissimo conduce
Intorno all’orbe il dì.


VIII.


Di chi ben olezza fuore
Vien da dentro ingrato odore.


IX.


L’alma agli umani infusa
Sta nelle membra chiusa.


X.


Non rode, no, crudo avvoltoio il core,
Come è lepido moto di poeta;
Del core ogni vital fibra segreta
Rodon solo l’invidia ed il dolore.

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XI.


A incentivo di libidine ei beve una porzione di mirra... Mi cacciai in un armadio... Con labbro contorto a derisione.... Quasi tutto il mondo è un mimo in commedia.... Non insisto a contendere, quando in ciò conveniamo, che quasi tutto il mondo la fa da commediante.


XII.


Pietà celeste diva, a gran ventura
Sotto l’ammanto tuo l’uom s’assecura.


XIII.


Ulula orrenda, e infesta
La tigre la foresta.


XIV.


Perocchè me bene acconciato molestavano le zanzare di primavera.... Poi che gli fu recata la vivanda... La preda di tanti re fu ritrovata presso il fuggitivo.... È noto, ch’essi non sogliono travalicare il sotterraneo napolitano, se non curvi della persona... E secondo che porta il petauro or di sopra.... Recaci l’alabastro cosmiano... Sotto i piè... Tullia.


XV.


Ineluttabil Fato.


XVI.


La tremebonda asta sorvola.


XVII.


Nuoce chi affetta impero: e ch’io non mento
Affida il gran Pompeo,
Che non fu dell’intero orbe contento.

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XVIII.


Con pietra estratta da un’aperta cava.


XIX.


Alta piè cinque è la funerea volta,
Che in poca polve ha sì gran salma accolta.


XX.


Di ragni al par tenue lavoro ordimmo.


XXI.


Mistìo di mille saporite biade.


XXII.


Disvien sola beltà: non dee donzella
    A sè piacer come a sè piace il volgo,
    3Se vuol parere esser venusta e bella.

Gli scherzi, i sali, i motti ed il linguaggio
    Pieno di grazia, e il rìso, di natura
    6Sovra l’alme bellezze hanno vantaggio.

    Chè gli ufficj dell’arte alla beltade
    Tolgon piacenza, e se traspare un tratto
    9Brama d’amor, tutta la grazia cade.


XXIII.


Non basta ancora a tue furenti brame,
    Ria gioventù, poi che a noi danno e bando
    Desti a virtù con la tua tresca infame?

Che sprecan la riposta ampia ricchezza
    In licor peregrini entro degli orci
    I vil mancipii usi alla vile ebbrezza?

Gli aver d’un regno occupa il servo abietto,
    E d’un prigion la stanza oggi disgrada
    Di Vesta il tempio ed il Romuleo tetto.

Onde virtù giace sommersa e ascosa
    In mezzo al fango, e ne va a bianche vele
    La nave d’ogn’infamia ebbra e pomposa.


XXIV.


Timor fe’ al mondo i numi, ove dal cielo
Il fulmin ruppe, e alle città le mura
Incese, ed al percorso Ato le vette.
Poi Febo, come l’orbe ebbe raggiato,
Risurto all’oriente, e della luna
Ora lo scemo, or di sua vaga luce
Il novello incremento, e per la volta
Eterea i seminali astri diversi,
E il succeder de’ mesi, onde a vicenda
Si parte l’anno, han quest’enorme vizio
Via via per l’universo orbe diffuso.
Sì vano error fe’ che l’agreste in prima
Porse a Cerere onore, e della messe
Le sacrò la primizia: indi di grappi
Sul palmite materno ondoleggianti
Fe’ serto a Bacco; e de pastori Pale
Gradì le offerte. Onda non dorme in lago,
Nè in mar volvesi flutto, ove Nettuno
Non nuoti immerso: e quel che volge assiduo
Le dotte carte alla notturna face
A Pallade è sommesso. E chi sua speme
Vide adempiuta, e chi per oro e prezzo
L’orbe tradì, vansene folli a gara
Inventandosi il dio che li governa.


XXV.


D’un solo unguento a me non piace il crino
    Sempre impinguar, nè mia ventresca dura
    All’usata bevanda d’un sol vino.

Ire in vallea ch’erbe diverse appresta
    Ama anco il tauro, e a que’ diversi paschi
    Vie più la trucolenta erge sua testa.

Lo stesso dì giocondo a noi ritorna,
    Perchè avvicendan l’ore, e alternamente
    Nel fine annotta e nel principio aggiorna.


XXVI.


È adagio: amar nella tua moglie dei
    Un giusto patrimonio; ma pur sempre
    Amar mio patrimonio io non vorrei.


XXVII.


Di desir l’universo e di vaghezza
    Pari non è: garba il disforme, e spesso
    Altri la rosa, altri la spina apprezza.


XXVIII.


Dacchè in nulla t’abbatti, ove non trovi
    Alcun vantaggio, e negli avversi eventi
    Fia che quanto schernisti, a te poi giovi.

Tal greve l’or, se sia la nave assorta,
    L’affonda più; ma la natante salma
    Da legger remo alla marina è scorta.

Se squilla tromba, alla sua strozza volto

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Vedesi un brando il ricco; ma le pugne
Ride il tapin, che di vil cencio è avvolto.


XXIX.


Lascia il tuo tetto, o giovincello, e cerca
Altre contrade, ove t’attende serie
Maggior di cose, e negli avversi eventi
4Del cor fa rocca. Te l’estremo ormai
Istro conosca, te l’algente Borea,
E i possenti reami di Canopo,
E quanti alluma il sole ove si corca,
8O dove surge; e come ad altro Ulisse
Le terre peregrine a te dian senno.


XXX.


Che più presto comporta uomo le fiamme
Tra le labbra affogar, che la commessa
Fè del segreto: ove un tuo motto sfugga
In fra l’auliche tresche, e’ di sua voce
5Via via diffusa empie cittadi a un tratto,
Empie castella: e chi l’arcano infranse
Male allor si ricerca: di sue larve
Quel nero tradimento si ripara,
E primo autor ne vien notando il grido.
10Tale di porre il vituperio in volgo
Del suo signor, fra timido e bramoso,
Il garrulo valletto ebbe il terreno
Cavato intorno, e la segreta infamia
Del re parlarvi. Le concette voci
15Articolò il terreno, onde i commossi
Calami consci ondoleggiando all’aura
Ripeteano di Mida il disonore.

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XXXI.


Gli occhi ne illudono, e menzognero
    Neglige il senso la ragione,
    3Guida infallibile che scorge al vero.

Torrazzo adergersi quadrato vedi;
    Ma se distanza ti divieta
    6Notarne gli angoli, ritondo il vedi.

Satollo stomaco l’ibleo liquore
    Patir non puote, e della cassia
    9Le nari fuggono lo spesso odore.

Nè esser potrebbero più o men gradite
    Le cose, se incostanti i sensi
    12Non contrastassero fra loro in lite.


XXXII.


L’autunno omai le inaridite fronde
Delle piante scrollava, e le lor ombre
N’avea già rotto, e con men calde briglie
4Volgeva Febo al verno. Di sue chiome
Scemando l’adornezza iva l’ombroso
Platano omai, e sui sermenti brulli
Di lor fronde la vigna annoverava
8Gl'innostrati suoi grappi: e ciò che l’anno
Promesso avea, tutto offeriasi al guardo.


XXXIII.


Così suol l'aria entro le membra addursi
Pe’ suoi spiragli alle più acute fibre.
3Poi come fuor si spinge, il suo meato

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A forza schiude; e non fa sosta prima
Quel, che l’ossa ne astringe e vi serpeggia:
6Gelido orror, che l’allentata cute
A tepente pudore apra l’uscita.


XXXIV.


Così contro il processo, onde ne dona
    Suoi ben natura, annida il corvo in quella
    3Che la bionda il cultor messe accovona.

Così ai parti difformi orsa dar suole
    Forma lambendo, e senza tresche e amori
    6Figliano i pesci numerosa prole.

Così febea testuggin, poi che l’uova
    Sgravidata depose, di sue nari
    9Sol col tepore le fomenta e cova.

Così le pecchie entro le inteste cere
    Fervendo van, senza connubio nate,
    12E il campo adempion di gagliarde schiere.

Non sempre ad una foggia è di natura
    L’immenso magistero; attemperata
    15Con alterne mutanze è la sua cura.


XXXV.


Chi nel mar ruppe e fu condotto a male,
    D’altri non va, con cui plorarne, in traccia,
    3Che di chi incolto è da iattura eguale.

E chi rapir dal turbine la messe
    Vide e l’annata, il suo cordoglio affida
    6Meglio a chi tocche ha le distrette stesse.

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La morte amica i tristi: addolorati
    Mescon lor pianto i padri orbi rimasi,
    9Cui quell’ora funesta ebbe appaiati.

Noi pure al ciel co’ nostri caldi accenti
    Palpiteremo insieme: è di già fama
    12Più le preci congiunte esser possenti.


XXXVI.


Come che orrenda, ogni distretta cessa,
    Sol che si voglia; che il clemente nume
    3In nostra man la medicina ha messa.

L’umile ortaggio e la mora pendente
    Dai ruvidi roveti hanno talvolta
    6Satolla la digiuna epa gemente.

Ben uscito è di senno chi lungh’esso
    Le linfe asseta, o che s’agghiada all’Euro,
    9Mentre accesa catasta arde dappresso.

Veglia rigida legge all’interdetto
    Limitar d’una moglie; ma tal legge
    12Non teme, no, d’una donzella il letto.

Onde se affami, ampia è natura; avrai
    Di che sbramarti; ma se a gloria aspiri,
    15Affami sempre, e non ti sazii mai.


XXXVII.


Il vil Giudeo, ch’empie ecatombe appresta
    Al ciacco, e il cielo a sè propizio invita
    3Coi porti voti all’asinesca testa:

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Se del legal coltello alla ferita
    Il vel sottragge, onde la stirpe umana
    6La viril sua potenza è rivestita;

Svelto da’ suoi, se ne va in terra estrana
    Da lor bandito, ove il digiuno gode
    9Beffeggiar dell’ebraica settimana.

Solo ignobile è il fiacco: si da lode
    E titolo d’ingenua alma gagliarda
    12Solo a quell’un che della mano è prode.






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FRAMMENTI


ATTRIBUITI A PETRONIO.



XXXVIII.


Euscio di T. Petronio Arbitro.


XXXIX.


Entro a breve casuccia, che di tetto
Securo si protegge, io mi dimoro,
Ciondola dai fecondi olmi pregnante
L’uva d’umor: sulle sue rame spessa
5S’impingua la ciriegia, e rubiconde
Mele dà il bosco, ed a’ frequenti ulivi,
Da Pallade diletti, per gran frutto
Si fiaccano le cime. Ove la breve
Di devïate fonti aia s’inaffia,
10Surge il Coricio erbaggio, e la supina
Malva, e il poltro papavero, che largo
Di non torbidi sonni a me poi fia.
Talor con il zimbello io mi diporto
Tesser frode ai pennuti, od i calappj,
15Por trama intorno, ove di petto dia
Fuggevole cerbiatto, o il paventoso

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Pesce inamar, e con la tenne lenza
Trarlo a ripa: ne’ frodi altre che queste
Seppe mai mia villetta. Or ne va pure,
20E di queste fuggenti ore di vita
Menane spreco infra le ricche mense
D’alto signore. Oh se morirmi io deggio,
Qui qui la mia suprema ora mi colga
Quale son visso, e della calma etade
25Che travarcai, qui me ne chiegga usura.


XL.


O piaggia a me più dolce della mia
    Stessa vita! o felice onda che d’ire
    3Hai spesso alla mia villa ampia balìa!

O bellissimi giorni! in que’ beati
    Recessi la rapita alma accendea
    6Il ferver d’Ilio e dei millanta armati.

Qua s’allaga una fonte, alghe ne mette
    Là il maricel: sono devote ai fidi
    9Segreti amor queste dimore elette.

A lungo io vissi e la maligna sorte
    Più rapir le delizie a me non puote,
    12Che da pria le beate ore m’han porte.

Là l’ire con le vaste onde mal fide
    Alterna il ciel: qua da tranquillo rio
    15Bagnata la ospital terra sorride.

Là s’ange il navigante che li feggia
    La nave empia fortuna: il pastorello
    18Qua disseta a tranquilla onda la greggia.

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Là la morte spalanca le sue spesse
    Voragin ghiotte; qua cadersi tronca
    21Sotto il curvo falcione ama le messe.

Là suol sete le fauci in fra cotante
    Acque infiammar, qua lo spergiuro i baci
    24Infiamman sì che ne ritorna amante.

Mareggi ed affatichi onda infinita
    Mendico Ulisse: la sua casta sposa
    27Serene berrà in terra aure di vita.


XLI.


Chi serbarsi ama in parte più matura
    Età, nè i fati astringe anzi al suo tempo
    3A scior gli stami, onde la vita dura,

Non ispii la tremenda ira dell’onde
    Oltre a tal segno: ecco il piè franco in acqua
    6Il flutto che si sdraia sulle sponde.

Ecco tra le verdigne alghe s’appiglia
    Lento il mitillo, e del suo glauco senno
    9Lungi si trae la lubrica conchiglia.

Ecco u’ l’onda mareggia e con sè versa
    La mossa rena, esce sterrata a vista
    12La pietruzza che tinta abbia diversa.

Quei cui tali sostanze ne si dia
    Calcar, fida è la piaggia, si diporti,
    15E giudichi che il mar sol questo sia.


XLII


Forense Cerbero era il causidico.

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XLIII.


Del reo congiungersi la gioia è breve,
Che sazia Venere vien tosto greve.
Oh non agognisi quel reo contento
Con la libidine del cieco armento;
5Che così estinguesi d’amore il foco.
Miglior diletico dia assiduo gioco.
Pasciam, giacendoci, di baci amore,
Che non ci lassano, ne dan rossore.
Tal gioia amabile, che sempre giova
10Non mai s’invetera, e sempre è nova.


XLIV.


Amar l’oggetto, ma dirlo già reo,
Ercole stesso a gran pena il potèo.


XLV.


Celan lo scudo sì che non si veggia.


XLVI.


Sol si chiudea sotto la torva fronte.


XLVII.


Delo già scevra da terre intorno,
Sull’onde lucide natava un giorno,
E all’urto suddita del vento mosso
Scorreva instabile dei flutti il dosso.
5Ma in doppio vincolo il dio la strinse,
E all’alta Giaro lei quinci avvinse,
E quindi a Micono, che immoto sta.

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XLVIII.


Spacci ghiotto le tue malleverie,
Qual lupa che si spaccia in sulle vie.


XLIX.


Mette ogni amor scompiglio entro la mente.


L.


Fine di T. Petronìo Arbitro.


LI.


DECLAMAZIONE DI T. PETRONIO RETORE.


Che cosa è dolo, o giudice? Certo, quando vien fatta alcuna cosa, che offende la legge. Eccovi il dolo; ora intendete che voglia dir malo.


LII.


FRAMMENTO DI PETRONIO GRAMMATICO.


Disse Orazio: Quis te redonavit Quiritem diis patriis? dove il nominativo è hic Quirites.... La voce classica viene da calare che significa chiamare.