Geografia (Strabone) - Volume 3/Libro VI/Capitolo III

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Capitolo III

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Strabone - Geografia - Volume 3 (I secolo)
Traduzione dal greco di Francesco Ambrosoli (1832)
Capitolo III
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CAPO III.


Descrizione della Sicilia. — Sua figura triangolare. — Sue coste. — Della parte interna dell’isola. — Sua fertilità. — Sue particolarità.


È la Sicilia di figura triangolare, d’onde anticamente fu detta Trinacria, e poscia Trinacia con nome di maggiore dolcezza. La sua figura finisce in tre punte: quella di Peloro, che guarda a Ceni ed a Colonna di Reggio, e forma lo Stretto: quella di Pachino che sporge verso levante e, cinta dal mar di Sicilia, guarda verso il Peloponneso e il canale che disgiunge Creta dal Peloponneso medesimo: la terza è quella che sta rimpetto alla Libia, e accenna alla Libia stessa ed al ponente invernale, e dicesi Lilibeo. Di questi lati finienti così in queste tre punte, due s’incurvano [p. 120 modifica]mezzanamente all’indentro; ma il terzo si sporge invece in arco dal Lilibeo al Peloro; e, maggiore degli altri, si stende per mille e settecento stadii, o per mille e settecento venti, come Posidonio asserisce. Degli altri due poi quello che va dal Lilibeo a Pachino è maggiore dell’altro; e così il più piccolo di tutti è quello lungo lo Stretto e l’Italia da Peloro a Pachino: esso è di mille e cento trenta stadii. La periferia, costeggiata per mare, Posidonio la fa di quattromila e quattrocento stadii. Ma nella Corografia le distanze segnate parte a parte ed a miglia riescono ad una somma maggiore. Dal capo Peloro a Mile venticinque miglia; altrettanti da Mile a Tindari; di quivi ad Agatirso trenta; da Agatirso ad Alesa altrettanti, e trenta anche di quivi a Cefaledio: e queste sono piccole città. Da Cefaledio al fiume Imera che scorre pel mezzo della Sicilia diciotto; poi fino a Panormo trentacinque; trentadue da Panormo all’emporio degli Egestesi; e di quivi al Lilibeo trentotto. Superato questo promontorio e andando lungo il fianco contiguo trovasi Eraclea a settantacinque miglia; di quivi all’emporio degli Agrigentini venti, ed altri venti a Camarina; da questa città a Pachino cin quanta. Da questo promontorio sul terzo fianco fino a Siracusa, sono trentasei miglia; a Catana sessanta; poi a Tauromenio trentatrè, e da Tauromenio a Messina trenta. Viaggiando invece per terra da Pachino a Pe loro la Corografia annovera cento sessantotto miglia; e da Messina al Lilibeo lungo la Via Valeria trenta cinque. Alcuni, come Eforo, hanno detto più semplice mente che la periferia è di cinque giorni e cinque notti. [p. 121 modifica]Posidonio volendo determinare i climi1 della Sicilia colloca al settentrione il Peloro, al mezzogiorno il Lilibeo, al levante Pachino. Siccome poi i climi sono compresi in una figura di parallelogramma, ne viene di necessità che i triangoli inscrittivi dentro, e principalmente gli scaleni, e quelli che non hanno alcun lato parallelo ai lati del parallelogramma, non possono servire, a motivo della loro obliquità, a determinare i climi. Nondimeno, rispetto alla Sicilia, potendosi dire che il capo Peloro, situato al mezzogiorno d'Italia, è il punto più settentrionale dell'isola, può argomentarsi eziandio, che tirando una linea da Peloro a Pachino accennerebbe nel tempo stesso al levante ed al settentrione, e formerebbe il fianco lungo lo Stretto. Ma bisogna supporre una piccola svolta verso il levante d'in verno; tale essendo la positura della spiaggia da Catana fin a Pachino. Il tragitto poi da Pachino alla bocca, non possono servire, a motivo della loro obliquità, a determinare i climi. Nondimeno, rispetto alla Sicilia, potendosi dire che il capo Peloro, situato al mezzogiorno d’Italia, è il punto più settentrionale dell’isola, può argomentarsi eziandio, che tirando una linea da Peloro a Pachino accennerebbe nel tempo stesso al levante ed al settentrione, e formerebbe il fianco lungo lo Stretto. Ma bisogna supporre una piccola svolta verso il levante d’inverno; tale essendo la positura della spiaggia da Catana fin a Pachino. Il tragitto poi da Pachino alla bocca dell’Alfeo è di quattro mila stadii: e quando Artemidoro asserisce che da Pachino al capo Tenaro v’hanno quattro mila e seicento stadii, e mille cento sessanta dall’Alfeo a Pamiso, parmi ch’egli non vada d’accordo con sè medesimo, avendo egli già detto che da Pachino all’Alfeo sono quattro mila stadii.

Ma una linea condotta da Pachino al Lilibeo, ch'è più occidentale di Peloro, s'avanzerebbe anch'essa molto obliquamente dal mezzogiorno al ponente, guardando in un medesimo tempo il levante ed il mezzo giorno, in parte bagnata dal mar di Sicilia, in parte [p. 122 modifica]da quello di Libia che da Cartagine si stende alle Sirti. Il tragitto dal Lilibeo alla Libia, più breve di tutti, è di mille e cinquecento stadii. Laonde si dice che un tale d’acutissima vista annunziò dalla sua vedetta ai Cartaginesi assediati in Lilibeo il numero delle barche che uscivano di Cartagine2.

Dal Lilibeo finalmente a Peloro è di necessità che il lato s’incurvi verso levante, e guardi fra il ponente e il settentrione; avendo al settentrione l’Italia, ed al ponente il mar Tirreno e le isole d’Eolo. Lungo il lato che forma lo stretto trovatisi prima Messina, poi Tauromenio e Catana e Siracusa. Quelle di Nasso e Megara ch’erano fra Catana e Siracusa furono rovinate: e stavano in quel sito dove parecchi fiumi discendendo dall’Etna concorrono a metter foce nel mare, e sulle loro bocche fanno comodi porti. Quivi poi era anche il promontorio di Xifonia. Ed Eforo dice queste essere state le prime città elleniche della Sicilia nella decimaquinta3 generazione dopo la guerra di Troia. Prima d’allora gli Elleni temevano tanto i ladronecci dei Tirreni e la crudeltà dei barbari abitanti di quel luogo, che non osavano approdarvi nemmanco per mercanteggiare. All’ultimo poi Teocle ateniese fu portato dai venti alla Sicilia, e conobbe la nullità di quegli uomini e la bontà [p. 123 modifica]del terreno; sirchè, ritornato al a patria e non potendo persuadere ngli Ateniesi di seguirlo, pigliò seco a compagni alcuni Calcidesi dell’Eubea, e Ionii e Dorii, i più dei quali erano Megaresi, e navigò con quelli di nuovo alla Sicilia, dove i Calcidesi fondarono Nasso, e i Dorii Megara detta Ibla da prima. Ora queste città più non sussistono; ma il nome d’Ibla resta tuttavia per la squisitezza del mele ibleo. Fra quelle città poi che si trovano ancora lungo questo lato, Messina giace nel golfo formato dal promontorio Peloro; il quale piegandosi assai verso levante fa quasi un gomito. Essa è distante da Reggio circa sessanta stadii, e molto meno poi da Colonna di Reggio. La popolarono i Messenii del Peloponneso; dai quali le fu cambiato il nome, giacchè prima chiamavasi Zancle dalla sinuosità di que' luogli (perocchè Zanclio significava4 ricurvo); e l'avevano fondata i Nassii vicini di Catana. Sopravvennero poi ad abitarla anche i Mamertini, schiatta di Campani; e i Romani se ne valsero come di una fortezza nella guerra sicula contra i Cartaginesi. Ed ivi pure in tempi posteriori Sesto Pompeo raccolse le sue forze navali guerreggiando contro Cesare Augusto; e di quivi anche prese la fuga allorchè fa costretto di lasciare quell’isola. Dinanzi a quella città un poco addentro nel mare mostrasi Cariddi; profondità immensa dove lo correnti dello Stretto sospingono naturalmente le navi e le inghiottono con grande avvolgimento e strepito d’acque; e quando sono travolte e spezzate ne [p. 124 modifica]cacciano gli avanzi alla spiaggia ili Tauromenio cui chiamano Copria da questa specie d’escremento5. I Manierimi poi prevalsero tanto sopra i Messenii, che la città si trovò in loro potere, ed ora sono chiamati da tutti Mamertini piuttostochè Messenii; ed anche il vino che quella regione produce assai buono, non lo dicono Messenio ma Mamertino, e gareggia coi migliori d’Italia. La città è ben popolata, ma pur meglio Catana siccome quella che ricevette coloni romani: meno poi di tutte due è popolata Tauromenio. Catana fu fondata dai Nassii già detti: Tauromenio da’ Zanclei d’Ibla. Ma Catana perdette i suoi primitivi abitanti, ed altri ve ne furono posti da Jerone tiranno di Siracusa, che la denominò Etna invece di Catana. Però anche Pindaro lo celebra come fondatore di questa città, dicendo: Tu m’intendi che hai il nome a comune colle sacre offerte6, o fondatore di Etna. Ma dopo la morte di Jerone essendo ritornati i Catanesi cacciarono i nuovi abitanti, e atterrarono il sepolcro del tiranno e gli Etnei allora cedendo il luogo andarono ad abitare un sito montuoso che chiamavasi Innesa, e lo denominarono Etna; distante da Catana ottanta stadii, e del quale poi dissero sempre fondatore Jerone. Catana è dominata dall’Etna, e [p. 125 modifica]partecipa di moltissimi di quegl’incomodi che sogliono estere presso ai crateri. Perocchè le lave corrono fin vicinissimo a quella città, e quivi si dice avvenuto il fatto di que’ buoni figliuoli Anfinomo ed Anapia, i quali in uno di questi pericoli salvarono i genitori portandoli via sulle proprie spalle. Dice adunque Posidonio che quando s’accendono i dintorni della montagna7, il territorio di Catana trovasi coperto da alta cenere, la quale in sulle prime riesce molesta, ma poi col tempo è invece assai vantaggiosa, come quella che rende il terreno acconcissimo alle viti e feracissimo d’ogni altra produzione, mentre il restante di quel paese non dà buon vino. E que’ luoghi così coperti di cenere, producono cert’erba la quale si dice che ingrassa tanto le pecore, da scoppiarne: però ogni quaranta o cinquanta giorni sogliono trar loro sangue dalle orecchie, come abbiam detto che suol praticarsi anche in Eritia. La lava che viene radendo s’indura per modo che diffonde sulla superficie del suolo uno strato di pietra assai alto, sicchè poi chi vuol discoprire il suolo di nuovo deve tagliarla come si fa nelle cave di sasso. Perciocchè la pietra liquefatta dentro i crateri, e poscia gettata fuori, si [p. 126 modifica]diffonde sul vertice in una specie di fango nero che si devolve giù per la montagna: quindi piglia consistenza, e si converte in pietra molare conservando lo stesso colore che aveva mentre era liquida ancora. Delle pietre abbruciate Tassi anche cenere come dei legni; ed è verisimile, che siccome la cenere dei legni conferisce alla ruta, così quella dell’Etna abbia qualche affinità colla vite.

La città di Siracusa la fondò Archia da Corinto, d’onde partissi verso quel tempo in cui fondaronsi anche Nasso e Megara. E dicono che Miscello ed Archia giunsero insieme a Delfo per interrogare l’oracolo; e domandati dal Dio se volessero piuttosto ricchezza o sanità, Archia elesse la ricchezza, e Miscello la sanità: ed allora il Dio commise al primo di fondar Siracusa, all’altro Crotone; e nel vero intervenne che i Crotoniati ebbero una città saluberrima come già dissi, e i Siracusani crebbero a tanto di ricchezza, che solevan citarsi in proverbio dicendosi de’ troppo splendidi spenditori: Non potrebbero far tanto nè anche colla decima dei Siracusani8. Mentre poi Archia navigava alla Sicilia lasciò Chersicrate della schiatta degli Eraclidi con una parte de’ suoi ad abitar l’isola che ora è Corcira, e prima si disse Scheria: il quale avendo cacciati via i Liburni ond’era posseduta quell’isola, vi [p. 127 modifica]fermò il suo soggiorno. Archia frattanto, approdato a Zefirio, e trovativi alcuni Dorii colà pervenuti dalla Sicilia dopo essersi disgiunti da que’ loro compagni che fondaron Megara, li prese con sè, e postosi in mare andò a fondar Siracusa con loro. Questa città s’accrebbe poi e per la naturale fertilità del terreno, e per la buona condizione dei porti. I suoi abitanti divennero principali nella Sicilia: sicchè i Siracusani, quantunque soggetti alla signoria dei proprii tiranni, poterono far da padroni sugli altri popoli; e quando ebbero riacquistata la libertà liberaron coloro ch’erano dominati da’ barbari: de’ quali alcuni eran nativi abitatori di quell’isola, altri vi s’erano trasferiti dal continente. Perocchè gli Elleni non lasciavan che alcuno di costoro abitasse la spiaggia marittima, ma non ebbero forza di cacciarli del tutto dalle parti mediterranee; e però vi duravano tuttavia i Siculi, i Sicani, i Morgeti, ed alcuni altri che abitavano l’isola, e fra i quali erano anche gl’Iberi. Questi, al dire di Eforo, si credeva che fossero stati tra i barbari i primi abitatori della Sicilia; ed è probabile che Morganzio fosse fondato dai Morgeli. Fu questa, già tempo, una città, ora non è più. Quando i Cartaginesi approdarono alla Sicilia non si astennero dal maltrattare nè i barbari, nè gli Elleni; ma i Siracusani però tennero loro fronte. I Romani poi e discacciarono i Cartaginesi, e presero d’assedio Siracusa.- Finalmente nella nostra età, avendo Pompeo maltrattata insieme con altre città anche quella di Siracusa, Cesare Augusto vi mandò una colonia, che la restaurò in gran parte. Anticamente essa [p. 128 modifica]comprendeva cinque città9 in un muro di cento ottanta stadii; ma non parve necessario ch’essa occupasse di nuovo tutto quel grande circuito, e però Augusto giudicò opportuno di popolar meglio quella parte eh1 era situata verso l’isola Ortigia, e che di per sè aveva una circonferenza conveniente ad una città.

Ortigia è congiunta col continente da un ponte; ed ha una fontana detta Aretusa, la quale divien subito fiume e si getta nel mare. Ma si favoleggia che questo fiume sia l’Alfeo il quale, cominciando nel Peloponneso, e guidando la sua corrente sotterra a traverso del mare fino al luogo dov’è la fontana Aretusa, quivi sbocchi di nuovo e vada al mare. E ne fan congettura da questo, che una fiala caduta dentro quel fiume in Olimpia fu trovata a Ortigia nell’Aretusa e dall’osservarsi che questa s’intorbida quando in Olimpia si fa il sacrificio de’ buoi. Però Pindaro seguitando questa opinione disse:

Ortigia, o bel riposo
Del sacro Alfeo per l’acque d’Aretusa10.

Ed anche lo storico Timeo concorda in queste cose con Pindaro. E veramente, se prima di giungere al mare l’Alfeo si sprofondasse in qualche baratro potrebbe credersi che di quivi producesse poi il suo corso sotto terra fin nella Sicilia, salvando la sua acqua da ogni meschianza col mare, sicchè si trovasse ancor buona da bere: ma poichè invece l’Alfeo entra [p. 129 modifica]manifestamente nel mare, e nello spazio della sua foce non apparisce al fondo del mare fenditura veruna che inghiotta la corrente del fiume (nel qual caso sebbene non potrebbero l'acque rimanere dolci del tutto, pur conserverebbero una parte della loro dolcezza scorrendo per un canale appartato e sotterraneo); perciò quello che si racconta è onninamente impossibile. E m'è testimonio l'acqua stessa dell'Aretusa, la quale è buona da bere. Il dir poi che la corrente del fiume at traversa il mare, e che per tutto quello spazio non si mischia punto con esso, è cosa del tutto favolosa. Perocchè questo appena crediamo del Rodano, il quale andando a traverso del lago, visibilmente preserva da ogni meschianza con quello la propria corrente: ma quivi il tragitto è breve, e il lago non è tempestoso; mentre per lo contrario dove sono ingenti procelle e sussulti di onde, una tale asserzione non ha sembianza veruna di probabilità. E la fiala che dicesi trasportata dal fiume non fa che render maggiore la menzogna: perocchè un tal va60 non seguiterebbe il corso di nessun fiume, molto meno poi un corso di tal natura e di tanta lunghezza11. Perocchè molti fiumi scorrono sotto terra in varii altri luoghi, ma non già per uno spazio sì lungo. E quando bene questo fosse possibile, impossibili sono per altro le cose predette, e somigliano alla favola che si racconta [p. 130 modifica]dell’Inaco. Perocchè Sofocle dice ch’esso discende dal sommo del Pindo e del Lacmo, e dal paese de’ Perrebii va tra gli Amfilochi e gli Acarnani; si mescola colle acque dell’Acheloo; poscia (soggiunge) attraver sando i flutti va ad Argo ed al Demo detto di Lurcio, Alcuni poi spacciano anche maggiori meraviglie dicendo che l’Inopo viene dal Nilo a Delo. E Zoilo il retore, nell’encomio che scrisse per quei di Tenedo, afferma che l’Alfeo ha di colà il suo principio; e non dimeno accusò Omero come narratore di favole. Ibico poi dice che l’Asopo, fiume della Sicionia, vien dalla Frigia. Ma Ecateo più ragionevolmente di costoro asserisce che quell’Inaco il quale va tra gli Amfilochi e discende dal Lacmo, d’onde viene anche l’Ea, è tutt’altro dall’argolico; che ricevette il suo nome da Amfiloco, da cui anche la città d’Argo fu soprannomata Amfilochia; e soggiunge che va a gettarsi nell’Acheloo, mentre l’Ea per lo contrario scorre ad Apollonia verso occidente. Dall’una parte poi e dall’altra di Orligia trovansi due grandi porti, il maggiore dei quali abbraccia ottanta stadii.

Augusto pertanto ristaurò Siracusa e Catana, e così parimente anche Centoripa, la qual gli giovò mollo nella rovina di Pompeo. Questa città è situala al di sopra di Catana contigua a’ monti Etnei ed al fiume Simolo12, che scorre pel territorio di Catana stessa. Degli altri lati della Sicilia quello che stendesi da Pachino al Lilibeo fu intieramente abbandonato; e solo [p. 131 modifica]conserva alcune tracce delle antiche abitazioni fra le quali fu anche Camarina13 colonia di Siracusa. Ma Acragante14 colonia degli Ionii, col suo arsenale marittimo, e Lilibeo rimangono tuttavia. Del resto per essere la maggior parte di questo lato caduta sotto la signoria di Cartagine, il più delle città fu distrutto dalle guerre grandi e continue che vi s'agitarono.

Il terzo lato e più grande di tutti, sebbene anch'esso non sia popolato gran fatto, ha nondimeno un sufficiente numero di abitatori: perocchè vi sono tuttora le piccole città di Alesa e di Tindari, e l'emporio di quei d'Egesta e Cefaledio15. Panormo contiene anche una colonia romana; e si dice ch'Egesta fosse fondata da coloro i quali in compagnia di Filottete si trasferirono sul territorio Crotoniate, poscia da lui furon mandati nella Sicilia in compagnia del troiano Egesto, come dicemmo nel parlar dell'Italia. Dentro terra poi la città di Enna16, nella quale è il tempio di Cerere, è occupata da pochi abitanti: ed è situata sopra un colle e tutta cinta all'intorno da larghi e piani pendii acconci ad essere coltivati: ma le nocquero grandemente gli schiavi ribellati in compagnia di Euno, che i Romani assediarono colà dentro, e con grave fatica poterono soggiogarli. Alla [p. 132 modifica]stessa sventura soggiacquero quei di Catana, i Tauromeniti, ed altri parecchi.

Abitato altresì è l’Erice17, colle eccelso con un tempio di Venere tenuto in grandissima riverenza, e pieno anticamente di donne che gli abitanti della Sicilia e molti anche stranieri vi consacravano per voto agli ufficii divini. Ora poi così il tempio come il restante dell’abitazione ha penuria d’uomini, e quella gran moltitudine delle donne consacrate è venuta mancando. Un delubro di questa Dea trovasi anche a Roma dinanzi alla porta Collina; lo chiamano il tempio di Venere Ericina, ed ha anche una stazione di navi ed un portico ragguardevole tutto all’intorno.

Il restante de’ luoghi abitati infra terra è quasi tutto occupato da pastori. Perocchè non sappiamo che Imera sia presentemente abitata da cittadini18, nè Gela, nè Callipoli, nè Selinunte, nè Eubea, nè altre parecchie. Di queste città Imera fu fondata da’ Zanclei di Mile, Callipoli dai Nassii, Selinunte dai Megaresi nativi della Sicilia, ed Eubea dai Leontini. Così furono distrutte anche molte fra le città di barbarica origine; come a dire Camico reggia di Cocalo, dove si dice che Minosse fu ucciso a tradimento. Laonde i Romani considerando questa solitudine, poichè si furono impadroniti dei monti e delle pianure per la maggior parte, le consegnarono a persone che vi guidassero armenti di [p. 133 modifica]cavalli e di buoi, ed a pastori, da’ quali poi spesse volte il resto dell’isola fu condotto in grandi pericoli: perchè quei pastori da prima si volsero separatamente al ladroneccio, poscia si unirono insieme e saccheggiarono i luoghi abitati; come avvenne allorchè i compagni d’Euno occuparono Enna. E di recente ai dì nostri fu mandato a Roma un certo Seluro denominato figliuolo dell’Etna, il quale era stato capo di un esercito, e per gran tempo era andato scorrendo intorno a quel monte esercitandovi frequenti ladronecci: e noi medesimi l’abbiamo veduto lacerar dalle fiere nella pubblica piazza dopo un combattimento di gladiatori. L’avevano a tal uopo collocato sopra una specie di alto palco, conce se fosse sull’Etna, il quale poi improvvisamente scompaginandosi e rovinando, lasciò che anch’egli precipitasse in mezzo a certi steccati costrutti al di sotto del palco per modo che le fiere in quelli collocate potessero facilmente uscir fuori e gittarglisi addosso.

Intorno alla fertilità del paese celebrata da tutti e dichiarata non punto inferiore a quella d’Italia, qual bisogno v’ha di parlarne? Potrebbe dirsi perfino che di frumento, di mele, di croco e d’altre cose siffatte vince l’Italia stessa. A questo si aggiunga che la Sicilia per la sua grande vicinanza è quasi una parte dell’Italia; e da essa, non altrimenti che dalle campagne italiche, si trasportano a Roma tutte le cose occorrenti con facilità e senza verun disagio. Quiodi sogliono anche chiamarla granaio di Roma; perciocchè si portan da quella a questa città quasi tutte le produzioui, fuor poche soltanto che si consuman sul luogo. Nè debbonsi [p. 134 modifica]intendere soltanto i fratti del suolo; ma sì anche gli animali, le pelli, le lane ed altre cose consimili. — Posidonio poi dice aver la Sicilia quasi due rocche sul mure, Siracusa ed Erice e che in mezzo ad entrambe Ernia signoreggia sui campi circonvicini.

Anche tutto il paese dei Leontini, discendenti essi pure dai Nassii della Sicilia, fu danneggiato: perocchè ebbero sempre a comune coi Siracusani le sventure, ma la buona fortuna non sempre.

Vicino a Centoripa è la piccola cittadella della Etna menzionata poc’anzi, per la quale passano coloro che vogliono ascendere sul monte di cotal nome, perocchè quivi è il principio dell’erta. Le parti superiori sono ignude e coperte di cenere, e pere di neve nel verno; quelle al di sotto sono coperte di querce e di piante d’ogni maniera. Pare poi che la sommità del monte riceva molte mutazioni secondochè la governa il fuoco, il quale talvolta si concentra in un solo cratere, tal’altra invece si divide in parecchi; ed ora manda fuori rivoli di lava, ora fiamme e fumi, e quando eziandio lancia in alto dei massi ardenti. Ed è di necessità che a tali mutazioni ne rispondano altre anche de’ luoghi sotterra, e che si aprano talvolta parecchie bocche nella superficie all'intorno. Alcuni pertanto che vi sono ascesi di fresco ci raccontarono di avervi trovato uno spazio tutto piano di circa venti stadii di circonferenza, chiuso intorno da un cerchio di cenere che si elevava quanto un picciolo muro cui do va saltare chiunque voleva discendere nella pianura predetta. Dicevano inoltre d’aver veduto nel mezzo un [p. 135 modifica]rialto di color cenerognolo, quale appariva ben anche la superficie del piano; e sopra quel rialto una nube imminente nell’aria a duecento piedi all1 incirca, immobile (perocchè v’era calma) e simile a fumo. Due di costoro furono arditi d’inoltrarsi in quella pianura; ma poichè sentirono di essere sopra un sabbione ardente e profondo, tornarono addietro, senza poter raccontare niente più di quanto avevan veduto coloro che stettero a risguardar da lontano. Dicevano per altro essersi a quella vista persuasi che sono favolose molte popolari dicerie sull’Etna; e quella principalmente di Empedocle, cioè, ch’egli saltò nel cratere e rimase per indizio del fatto uno dei sandali ch’egli portava di rame, il quale poi fu (come dicono) trovalo al di fuori del labbro del cratere, portatovi dalla forza del fuoco. Ma costoro giudicavano che il luogo non potesse appressarsi nè vedersi pure; e congetturavano che non fosse possibile nemmanco gettarvi dentro cosa nessuna per lo spirare dei venti all’insù, e pel calore che deve naturalmente farsi incontro a ehi vi si avvia, prima di accostarsi alla bocca del cratere: e che se pure qualcosa vi fosse gittata dovrebbe rimanervi distrutta, anzichè esserne respinta fuori di nuovo nella sua forma di prima. E ben si può credere che di quando in quaudo la forza dei venti ed il fuoco diminuiscano, venendo meno laggiù la materia; ma non mai a tal segnio però da potervisi un uomo accostare.

Sovrasta poi l’Etna principalmente alla i piaggia dello stretto e di Catania, ma a quella eziandio che va lungo il mar Tirreno accennando alle isole de’ Liparei. Di [p. 136 modifica]notte pertanto appariscono chiari fulgori dal vertice; durante il giorno è coperto di fumo e caligine. Rimpetto poi all’Etna sollevarsi i monti Nebrodi, più bassi a dir vero, ma di molto maggiore estensione. Tutta l’isola è formata d’un terreno vôto, e piena di fiumi e fuoco, somigliando in ciò (come abbiam detto) al fondo del mar Tirreno sino a Cumea. Quindi ha in più luoghi sorgenti di acque calde; fra le quali quelle di Selinunte appo Imera cono salate, e quelle d’Egesta sono buone da bere. Presso Acragante19 trovansi laghi, le cui acqu3 al gusto somigliano quella del mare, ma biella loro natura poi ne son differenti; perocchè non vi rimangon sommersi nemmanco gl’inesperti del nuoto, ma vi galleggiano a modo di legni. Nel luogo de’ Palici20 v’hanno crateri che gettano acqua la quale nell’alto si curva a foggia di volta, e cade di nuovo dentro la loro apertura. Nello speco vicino al Metauro v’ha un canale di molta ampiezza e dentrovi un fiume che occultamente discorre per uno spazio assai grande, poi shocca fuori alla superficie; siccome nella Siria l’Oronte, ch’entrato prima in un baratro fra Apamea ed Antiochia (e dicesi Cariddi) ne riesce di nuovo alla distanza di quaranta stadii: e il simile avviene al Tigri nella Mesopotamia ed al Nilo nella Libia poco discosto dalle sue sorgenti. Anche l’acqua vicina a Stimfalo va per lo spazio di circa duecento stadii [p. 137 modifica]terra fino al territorio d’Argo, poi esce fuori formando il fiume Erasino: e quella che presso Abia d’Arcadia s’affonda, più tardi mette fuori l’Eurota e l’Alfeo; donde potè poi trovar fede la favola, che gettando nrl tomunr alveo- corone destinate a ciascuno di querti fiumi, si veggono riapparire in quello a cui ciascuna di esse corone fu consacrata. A tutto questo si aggiunga anche quello che abbiamo già detto del Timavo21.

  1. Cioè i paralleli sotto i quali la Sicilia si trova.
  2. Questo fatto dee riferirsi all’anno 250 prima dell’E. V.; e quel tale di cui l’Autore non dice il nome si chiamava Strabone anch’egli. Cosi afferma Varone presso Plinio, Hist. Nat., lib. vii, § 21. (Edit. franc.).
  3. Leggo col Coray πεντεκααιδεκάτη,
  4. Nella lingua dei Siculi. (Edit. frane.)
  5. Seneca scriveva a Lucilio di sapergli dire: an verum sit quidquid illo freti turbine abreptum est per multa milia trahi conditum, et circa Tauromitanum litus emergere. — La voce greca κοπρίας si traduce poi stercus, sterquilinium.
  6. Ἱερὸν (Jerone) dicevasi la vittima sacra agli Dei.
  7. ῎Οταν οὖν, φησὶ Ποσειδώνιος, φλέγηται τὰ περὶ τὸ ὄρος. Così legge il Coray. Secondo l’ordinaria lezione (ὅταν τῷ Ποσειδώνι φαίνηται) alcuni traducono: Quando piace a Nettuno d’incendiare, ecc.; altri: Quando nel dicembre s’accendono, ecc. Ma sebbene la voce Ποσειδώνι significhi tanto a Nettuno come nel dicembre, quest’ultima interpretazione però sembra meno probabile.
  8. Le parole del testo: Ὡς οὐκ ἂν ἐκγένοιτο αὐτοῖς ἡ Συρακοσίων δεκάτη: furono variamente tradotte. — Raccontasi che in un tempo di prosperità i Siracusani ordinarono una decima per fabbricar templi, ed altri edificii. (Edit. franc.)
  9. Letteralmente: Era una pentapoli; Πεντάπολις γὰρ ἦν.
  10. Nem. i, v. i, trad. del Mezzanotte.
  11. Il testo ordinario è qui interrotto da lacune. Il pensiero dell’Autore e può dirsi nondimeno evidente; e gli Edit. franc. provano assai bene la ragionevolezza di questa interpretazione.
  12. La Giaretta.
  13. La, fondarono circa 600 anni prima dell’E. V., ed ora dicesi Canmarona.
  14. Girgenti.
  15. A questi luoghi corrispondono ora i Bagni; S. Maria di Tindaro; Castel a Mare; Cefalù.
  16. Castro-Janni.
  17. Monte S. Giuliano.
  18. I Cartaginesi rovinarono questa città circa 409 anni prima dell’E. V.
  19. Girgenti.
  20. Il Silandro corresse così la voce del testo Italici (Ἰταλικοὶ). – Erano i Palici divinità vendicatrici dello spergiuro.
  21. V. pag. 17 di questo volume.