Geografia (Strabone) - Volume 3/Libro V/Capitolo IX

Da Wikisource.
Capitolo IX

../Capitolo VIII ../../Libro VI IncludiIntestazione 2 gennaio 2019 75% Da definire

Strabone - Geografia - Volume 3 (I secolo)
Traduzione dal greco di Francesco Ambrosoli (1832)
Capitolo IX
Libro V - Capitolo VIII Libro VI

[p. 74 modifica]


CAPO IX


Divisione generale della rimanente Italia.
Descrizione della Campania — Della Sannitica. — Dei Picentini.


Dopo il Lazio, procedendo con ordine, trovasi la Campania che stendesi lungo il mare; e al di sopra di questa è la Sannitica la quale si allarga nel continente fino ai Frentani ed ai Daunii: poi s’incontrano i Daunii stessi, e quelle altre nazioni che abitano fino allo stretto della Sicilia. Primamente dunque si vuol parlare della Campania.

Dopo Sinuessa, tenendo dietro alla restante costa del mare avvi un golfo assai grande fino al Capo Miseno; poi apresi un altro golfo molto maggiore del primo (lo chiaman Cratere) che si addentra fra i due promontoni Miseno e Ateneo1. Ora lungo le spiagge di questi golfi è situata tutta la Campania, paese piano e [p. 75 modifica]felice sopra ogni altro. Le stanno d’intorno fertili colline, e i monti de’ Sanniti e degfi Osci. Antioco dice che quella regione fu abitata dagli Opici; e che questi si chiamarono anche Ausonii: ma par che Polibio sotto questi due nomi intenda due popoli diversi, dicendo che gli Opici e gli Ausonii abitano il paese intorno al Cratere. Altri dicono invece che da principio la Campania fu abitata dagli Opici e dagli Ausonii, i quali poi ne furono discacciati da una nazione di Osci; questi da’ Cumei, e i Cumei da’ Tirreni: perocchè a motivo della sua fertilità quel suolo fu molto combattuto. I Tirreni v’ebbero dodici città, e quella che n’era come capitale denominarono Capua. Ma voltisi poi per troppa abbondanza al vivere mollemente, come prima erano stati espulsi dal paese vicino al Po, così cedettero anche questo ai Sanniti, i quali col tempo ne furono discacciati dai Romani. Della bontà di quel suolo v’ha questo indizio, ch’ivi sa raccoglie il frumento migliore: io dico quel frumento del quale si fa un condro2 migliore di ogni riso, e per dir breve, di qualsivoglia altro cibo composto di grano. Raccontasi che alcuni campi di quella regione sogliono seminarsi ogni anno due volte di spelta3, e una terza volta di panico; e che alcuni producono altresì de’ legumi in una quarta seminagione. Anche il vino migliore sogliono trarlo i Romani dalla Campania, come a dire quel di Salerno, lo Statano e il Caleno, ai quali non cede oggimai il Sorentino, sendosi da poco tempo [p. 76 modifica]falla esperienza che anch’esso può esser lasciato invecchiare. Così pure e la Campania ferace d’olio in tutta quella parte ch’è presso a Venafro e confinante colla pianura4.

Le città sulla marina dopo Sinuessa, sono Vulturno e poi Literno5 dov’è il monumento del primo Scipione soprannomato Africano; perocchè quivi consumò l’ultima parte della sua vita dopo avere lasciati i pubblici affari per l‘inimicizia di alcuni suoi concittadini. Scorre lungo quella città un fiume detto anch’esso Literno. Così anche il Vulturno ha il nome della città che giace sulla sua sponda, e scorre pel territorio di Venafro e pel mezzo della Campania. ‘

Appresso a queste si trova Cuma, antichissima fondazione de’ Calcidesi e de’ Cumei, e la più vecchia di tutte le città della Sicilia e dell’Italia. Coloro che guidavano quella colonia, Ippocle cumeo e Megastene calcidese, avevano pattuito che agli uni appartenesse la colonia, e gli altri le dessero il nome: d’onde poi ora la città nomasi Cuma, ma si suol dire che la fondarono i Calcidesi. Anticamente pertanto quella città fu in buono stato, e così anche tutto il campo detto Flegreo, sul quale si favoleggia che avvenisse quanto raccontasi dei Giganti; nè senza qualche motivo, per quanto pare, ma perchè quel terreno a cagione della sua [p. 77 modifica]fertilità deve aver mossi parecchi a contenderselo. All’ultimo poi i Campani rimasti padroni della città, ne vilipesero gli abitanti in tutte maniere, e si mischiarono colle loro consorti. Nondimeno vi restano ancora molte tracce dell’ellenica civiltà, così nelle sacre come nelle civili istituzioni. Alcuni dicono che quella città fu denominata Cuma dai fiotti6 che rompono alla vicina spiaggia tutta aspra di scogli, e lungo la quale v’ha luoghi di abbondevolissima pescagione. In questo golfo avvi anche una selva tutta d’arbusti, che si stende per uno spazio di molti stadii, senz’acqua e sabbiosa, denominata Selva Gallinaria. Quivi i comandanti delle navi di Sesto Pompeo ragunarono insieme i pirati quand’egli mosse a ribellione la Sicilia.

Vicin di Cuma è il promontorio Miseno, e frammezzo sta il lago Acherusio ch’è un pantanoso diffondimento di mare. A chi abbia oltrepassato il Miseno si presenta subito un porto sotto il promonlorio stesso; dopo del quale la spiaggia si curva e fa un golfo di grande profondità. Quivi si trovano e baje ed acque calde opportune così al diletto come alla cura de’ mali. Alle baje tien dietro il seno Locrino, e più dentro terra l’Aorno7 che fa una penisola di tutto il promontorio finito nel capo Miseno, inoltrandosi dentro terra e [p. 78 modifica]perciò dalla parte di Cuma: perocchè dal fondo dell’Aorno sino a Cuma ed alla spiaggia vicina a quella città rimane soltanto un istmo di pochi stadii attraversato anch’esso da una via sotterranea. I nostri maggiori applicarono all’Aorno ciò che Omero favoleggia nella sua Necya8; e raccontano che quivi si trovasse una volta un oracolo dei morti, al quale venne anche Ulisse. È dunque l’Aorno un seno profondissimo anche rasente la riva, con angusto ingresso, e per estensione e per natura acconcio ad essere un porto; ma non se ne valgon però, giacchè gli sta innanzi il seno Locrino vasto e pieno di bassi fondi. L’Aorno è tutto chiuso in giro da gioghi scoscesi che gli sono imminenti da ogni lato, tranne quel punto pel quale vi s’entra; ed ora sono accuratamente coltivati, ma anticamente erano ombreggiati da un salvatico bosco con grandi alberi e inaccessibile, sicchè rendevano opaco anche il golfo e opportuno alla superstizione. Gli abitanti circonvicini v’aggiungono anche la favola, che se qualche uccello attraversa sorvolando l’Aorno, cade nell’acqua ucciso dai vapori che ne esalano, siccome avviene ne’ luoghi Plutonii9. Ed anche l’Aorno fu considerato come un luogo Plutonio, e si disse che quivi abitarono una [p. 79 modifica]volta i Cimmerii: e chiunque volea navigarvi propiziavasi innanzi tratto i Mani con sagrifizii, secondo il rito prescritto da certi sacerdoti che toglievano come a pigione quel luogo. Avvi colà una sorgente d’acqua dolce snlla riva del mare; ma tutti se ne astenevano, persuasi che fosse acqua dello Stige. Dicesi inoltre che quivi in qualche parte fosse fondato un oracolo, e dalle acque calde che si trovano presso all’Acherusio congetturano ch’ivi fosse il Piriflegetonte. Ed Eforo accomodando la descrizione di questo luogo ai costumi dei Cimmerii, dice che vivevano in sotterranee abitazioni chiamate Argille, comunicando fra loro per mezzo di strade pur sotterranee, e che così ricevevano anche i forestieri che andavano all’oracolo, fabbricato molto sotterra. Vivono poi co’ proventi delle miniere e dell’oracolo, e collo stipendio loro assegnato dal re. Dice inoltre Eforo che di coloro i quali stavano al servizio del tempio, nessuno mai per antico costume vedeva il sole, ma di notte soltanto uscivano delle loro caverne; laonde poi il Poeta disse di loro:

Lo sfavillante d’ór Sole non guarda
Quegl’infelici popoli
10.

In progresso di tempo i Cimmerii furono disfatti da un re a cui non s’era avverata una risposta dell’oracolo; il quale però trasferito in un altro luogo continuò a sussistere. Queste cose dicevano i nostri maggiori. A’ dì nostri poi, avendo Agrippa tagliata la selva che [p. 80 modifica]circondava l’Aorno, empiuti di edifizii que’ luoghi, e rotta la via sotterranea che dall’Aorno conduceva fino a Cuma fu chiarito che tutti codeste cose erano una favola. E Coccejo che fece riattare quella strada, e un’altra ne aperse la quale da Dicearchia11 situata al di là di Baja, conduce a Napoli, seguitò in certo modo l’antica tradizione divolgata rispetto ai Cimmerii, e forse ancora credette che fosse un costume proprio di quel paese l’avere le strade sotterra.

Il golfo Locrino allargasi fino a Baja: e lo divide dal mare esteriore un argine lungo otto stadii e largo per modo che vi può capire una strada da passarvi con carri. Dicono che ve lo alzò Ercole quando condusse via i buoi di Gerione: ma perchè poi nelle tempeste del mare l’onde lo soverchiavano in modo che il camminarvi a piedi era difficile, Agrippa lo fece alzare. Del resto soltanto le barche leggiere possono entrare in quel golfo che non potrebbe mai servire di porto; e in ciò solo è utile, che vi si fa una copiosissima pescagione di ostriche. Alcuni poi dicono che questo golfo Locrino è il lago Acherusio; e Artemidoro lo scambia coll’Aorno. In quanto a Baja ed al capo Miseno dicesi che ricevettero il loro nome da due compagni di Ulisse12.

Seguitano poi le spiagge di Dicearchia ed anche la città stessa, la quale fu anticamente l’arsenale [p. 81 modifica]marittimo de’ Cumei fabbricato sopra un’altura; ma nel tempo della guerra di Annibale i Romani vi collocarono una colonia, e cambiandole il nome la dissero Puteoli, o dai pozzi che vi sono, o secondo altri dalla puzza che mandano le acque in tutto il paese che stendesi fino a Baja ed all’agro Cumano, pieno di solfo, di fuoco e di acque calde. E alcuni tengono che per questo motivo il territorio di Cuma sia stato detto Flegreo; e che questi fuochi e queste acque calde abbiano dato luogo a quello che si racconta dei Giganti colpiti dal fulmine e atterrati in quella regione. Del resto Dicearchia è divenuta un grandissimo emporio, con buone stazioui di navi che furono agevolmente costrutte per la natura della sabbia di que’ dintorni, la quale meschiata con certa misura alla calce si collega e fa presa con quella; sicchè meschiando al cemento quella polvere sabbionosa poterono piantare argini dentro il mare, e dar alle piagge aperte forma di golfi, dove poi si potessero introdurle con sicurezza le più grandi navi da carico. Al di sopra di questa città s’apre il Foro di Vulcano, una pianura tutta circondata da monti ardenti, i quali in più luoghi spirano fiamme quasi da camini, con uno strepito simile al tuono. Ed anche la pianura è piena di cave di solfo.

Dopo Dicearchia vien Napoli che fu prima de’ Cumei: appresso vi si trasferirono anche dei Calcidesi, ed alcuni delle Pitecuse e d’Atene; per che poi la chiamarono Nuova-città13. Quivi si suol mostrare il [p. 82 modifica]monumento di Partenope, una delle Sirene; e secondo un certo oracolo vi si celebra anche un giuoco ginnastico. In progresso di tempo discordando fra loro questi varii abitanti ricevettero nella città alcuni Campani, e furono necessitati di tenersi come familiarissimi i più nemici, poichè s’erano disaffezionati i proprii concittadini. Di ciò sono indizio i nomi dei demarchi14; chè i primi furono ellenici; poi fra gli ellenici se ne frammischiarono alcuni campani. Restati per altro colà moltissime tracce della dominazione ellenica, come a dire ginnasii, collegi di efebi, fratrie 15, e nomi ellenici ancora, sebbene gli abitanti siano al presente romani. Ora poi suol celebiarvisi ogni cinque anni un certame di musica e di ginnastica che dura parecchi giorni, ed è tale da potersi paragonare co1 più famosi dell’Eliade. Avvi anche colà una strada sotterranea e nascosta a traverso a quel monte ch’è posto fra Dicearchia e Napoli, e somigliante a quella che mena, come s! è detto, dal lago Aorno a Cuma: questa strada la quale può capire due carri che vadano in opposta direzione si stende per molti stadii; e la luce v’è introdotta per molte aperture che dalla superficie del monte si addentrano ad una grande profondità16. Anche Napoli ha sorgenti di acque calde, con edifizii di bagni non punto inferiori a quelli di Baja, ma di gran tratto però meno [p. 83 modifica]frequentati17: perocchè quivi (a Baja) si è formata una nuova città non meno grande di Dicearchia, a forza di costruirvi palagi gli uni vicini agli altri. A Napoli poi mantengono viva l’usanza del vivere ellenico coloro che vi si trasferiscono da Roma per riposare; uomini letterati o notabili per altre doti, che l’età o l’inferma salute costringe a desiderar la quiete; oltrechè alcuni Romani ai quali diletta quel colal modo di vivere, vedendo la moltitudine di coloro che quivi ne godono, volentieri vi si trasferiscono e vi fermano la loro stanza.

Vicinissimo a Napoli è il castello Eraclio che ha un promontorio sporgente nel mare, dove il vento di Libia18 soffia mirabilmente, sicchè l’abitarvi è salubre. Questo sito, con Pompeja che viene subito dopo ed è irrigata dal fiume Sarno, furono un tempo possedute dagli Osci, poi da’ Tirreni e da’ Pelasghi, e poi da’ Sanniti, i quali ne furono anch’essi cacciati19. Pompeja è l’arsenale marittimo di Nola, Nuceria ed Acerra (cotesto nome ha anche un luogo vicino a Cremona); ed è bagnata, come già dissi, dal fiume Sarno sul quale si possono portare mercatanzie così a seconda come a ritroso del suo corso.

A tutti codesti luoghi sovrastà il monte Vesuvio, tutto coperto di bei colti fuorchè nella cima. Questa è [p. 84 modifica]piana in gran parte, sterile tutta, e cinericcia a vedersi, con grandi cavità tutte di pietre fuligginose, come se fossero abbrustolite dal fuoco. Potrebbe quindi congetturarsi che quel luogo in antico sia stato ardente ed avesse crateri di fuoco, il quale poi siasi spento mancandogli la materia20. E questa forse è la cagione della fertilità de1 luoghi circostanti; come dicono che nel territorio di Catania la parte che fu coperta dalla cenere piovutavi giù dall’Etna si fece terreno acconcissimo alle viti. E nel vero la polvere che i vulcani gettano fuori ha molto di quel grasso che si trova (sebbene in differente proporzione) nelle glebe abbruciate e nelle terre vegetali: e finchè la parte grassa vi sovrabbonda fa sì che le terre facilmente s’accendano; ma quando poi la pinguedine è consumata, e la gleba estinta è divenuta cenere, sì trova buouissima a fecondatisi i semi21.

Contiguo a Pompeja è Sorento, città de’ Campani, d’onde poi si protende nel mare il promontorio Ateneo che alcuni chiamano delle Sirenuse. Nella sua sommità trovasi un tempio di Minerva fondato da Ulisse. Di quivi all’isola di Caprea è un breve tragitto, e quando abbiasi ollrepassato quel promontorio s’incontrano alcune isolette deserte e pietrose [p. 85 modifica]chiamate Sirenuse. In quella parte del premontorio Ateneo che accenna a Sorento soglion mostrare un tempio, e gli antichi voti che vi dedicarono gli abitanti circonvicini veneratori di quel luogo. E quivi appunto ha fine quel golfo ch’è soprannomato Cratere22, circoscritto da due promontorii (il Miseno e l’Ateneo) che guardano al mezzogiorno. Tutto il golfo è ornato in parte dalle città che abbiam nominate, in parte da case e da piantagioni, le quali succedonsi da vicino fra loro, e rendono sembianza di una sola città.

Dinanzi al Miseno poi sta Procida, un’isola che dir si potrebbe staccata da quella di Pitecusa23. Questa fu popolata dagli Eretriesi e dai Calcidesi i quali, dopo esservi stati in buona fortuna per la fertilità del suolo e per le miniere dell’oro, l’abbandonarono poi a motivo di una sedizione; e in progresso di tempo ne furono anche scacciati da’ tremuoti, e dalle eruzioni di fuoco, di mare e di acque calde. Perciocchè l’isola va soggetta a tali accidenti pe’ quali poi anche coloro che v’erano stati spediti da Ierone tiranno di Siracusa abbandonarono e il forte ch’essi avevan costrutto e l’isola stessa. Vi approdarono quindi i Napoletani e se ne impadronirono. E di qui è nata quella favola la quale dice che sotto quest’isola giace Tifone, e che quando egli si voltola fa sbucar fuori e fiamme ed acqua, e talvolta persino piccole isole con getti di acqua bollente. Ma una cosa più credibile disse Pindaro argomentando dai [p. 86 modifica]fenomeni ch’ivi si veggono. Perocchè siccome tutto il tragitto cominciando da Cuma fino alla Sicilia è pieno di fuoco, e di sotterranei meati, per mezzo de’ quali le isole di quel luogo comunicano fra di loro e col continente (d’onde poi l’Etna è di quella natura che tutti descrivono, e così anche le isole de’ Liparesi, e il territorio circostante a Dicearchia, a Napoli, a Baja ed a Pitecusa), così il poeta considerando tal cosa dice che a tutto quel sito è sottoposto Tifone:

I lidi ove il mar geme
Di Cuma, e tutta insieme
Sicilia, or son penoso
Pondo che a lai l’ispido petto opprime
24.

E Timeo dice che delle Pitecuse gli antichi spacciarono molte cose incredibili; ma che per altro poco prima dell’età sua un colle che sta nel mezzo dell’isola ed ha nome Epomeo, scosso da’ tremuoti gittò fuoco, ed aveva spinto nell’alto il terreno che si trovava fra esso colle ed il mare. La parte del suolo incenerita e lanciata in alto, era poi di nuovo caduta sull’isola a modo di turbine25, sicchè il mare erasi ritirato per lo spazio di circa tre stadii: se non che di lì a poco, essendo venuto a riurtare da capo, aveva inondata e coperta l’isola, e il vulcano erasi estinto. Nel qual tempo (soggiunge) gli abitanti del continente spaventati dal grande frastuono, dalla spiaggia fuggirono addentro nella Campania. — Pare poi che [p. 87 modifica]le acque calde di quell’isola guariscano chi patisce di renella.

Anticamente Caprea26 ebbe due piccole città, ma appresso poi una sola. La possedettero un tempo i Napoletani; ma avendo perduto Pitecusa in guerra, Cesare Augusto la restituì loro per averne Caprea, della quale egli fece un suo privato possedimento, e l’ornò di edificii. Queste pertanto sono le città marittime dei Campani e le isole situate rimpetto a quella regione.

Nella parte mediterranea Capua è la metropoli, e veramente il capo, siccome indica l’etimologia del nome: perocchè le altre paragonate con questa ci direbbero cittadelle, tranne solo Teano Sidiceno, la quale è ragguardevole anch’essa. Capua è situata lungo la Via Appia, e così anche quelle altre che incontransi da Capua a Brentesio27, cioè Callateria, Caudio e Benevento. Verso Roma è fondato Casilino lungo il fiume Vulturno; dove essendo già assediati cinquecento quaranta Prenestini, poterono tanto resistere ad Annibale quando egli era più in fiore, che un topo fu venduto al prezzo di duecento dramme, e chi lo comperò visse, ma il venditore ne morì di fame: e vedendoli Annibale seminar rape presso alle mura, ammirò (com’era ben naturale) il loro grande animo, giacchè speravano di resistere tanto che le rape crescessero a maturanza. E [p. 88 modifica]si dice che tutti poi n’uscirono sani e salvi, fuor pochi consumati dalla fame o dalle battaglie.

Oltre a queste sono della Campania anche le città delle quali feci menzione già prima, Calce28 e Teano Sidiceno, che han per confine due tempj della Fortuna fabbricati dall’una e dall’altra parte della Via Latina poi anche Suessula, Atella, Nola, Nuceria, Acerra, Abella, ed altri luoghi anche minori, alcuni dei quali sono da certi autori ascritti al territorio sannitico. E nel vero i Sanniti facendo anticamente delle scorrerie nel territorio latino fin ne’ dintorni di Ardea, poi corseggiando anche la stessa Campania s’erano acquistata molta possanza; perocchè avendo imparato a lasciarsi governare dispoticamente, ubbidivano con prontezza agli ordini dei loro capi. Ma al presente quel popolo è annichilito, vinto e da altri, ed all’ultimo da Silla che governò da monarca i Romani. Il quale, dopo che in molte battaglie ebbe prostrata la congiura de’ popoli italici ribellati, vedendo che soli quasi i Sanniti persistevano in quella guerra e si tenevano uniti per modo che movevano fin contro Roma, venne con essi alle mani dinanzi alle mura di questa città; e parte ne uccise nella battaglia (avendo ordinato di non perdonare la vita a nessuno), e gli altri che in numera di tre o quattro mila gettarono l’armi, comandò che fossero cacciati nella Villa Pubblica29 di Campo Marzio, dove tre giorni dopo mandò [p. 89 modifica]suoi soldati che li trucidassero tutti quanti. Dopo di che istituì le proscrizioni, nè le intermise prima di avere distrutti tutti coloro che portavano il nome di Sanniti, o di averli almeno sterminati dall’Italia: ed a chi gli rimproverava quella sì grande severità rispondeva, avere dall’esperienza imparato, che nessun Romano potrebbe mai vivere in pace, finchè vi fossero dei Sanniti che potessero cospirare di nuovo. Le città dei Sanniti pertanto sono ora semplici borghi: ed alcune sono anzi rovinate del tutto, come Bojano, Esernia, Panna, Telesia (contigua a Venafro), ed altre consimili, nessuna delle quali merita di essere annoverata fra le città: se non che noi, guardando alla celebrità ed alla potenza dell’Italia, andiamo indicando fin anco i luoghi mediocri. Benevento poi e Venosa sussistono tuttavia in buono stato.

Rispetto ai Sanniti torre anche questa tradizione, che avendo guerra i Sabini già da gran tempo contro gli Umbrii fecero voto (come usarono alcuni Elleni) di consacrare agli Dei tutto quanto nascerebbe appo loro in quell’anno. Riusciti quindi vittoriosi, parte delle produzioni sacrificarono, parte offersero alle divinità; d’onde nacque nel paese una gran carestia. Allora qualcuno disse che bisognava consacrare agli Dei anche i figliuoli: secondo il quale consiglio dedicarono a Marte tutti i fanciulli nati in quell’anno; e quando costoro furono divenuti uomini, li mandarono fuori a fondare una colonia, dando loro un toro per condottiero. Questo animale fermossi a dormire nel territorio degli Opici, i quali vivevano in borgate: e però quegli [p. 90 modifica]stranieri cacciaronli dalle loro sedi, dove si stabilirono essi medesimi, e secondo il responso degli indovini sagrificarono a Marte quel toro che il Dio stesso aveva dato loro per guida. E quindi probabile che per questa cagione gli antichi li chiamassero col nome diminutivo Sabelli30: ma per un’altra cagione poi furono nominali Sanniti, o, come dicono gli Elleni, Sauniti. Alcuni raccontano eziandio che certi Lacuni vennero ad abitare insieme con loro, e che per questo poi i Sanniti furono sempre filelleni, e in parte si dissero anche Pitanati31. Par nondimeno che questa sia un’invenzione de’ Tarantini per lusingare quel popolo confinante con loro e molto potente, e conciliarsi così una nazione che può mandar fuori ottanta mila fanti e ottomila cavalli. È fama che i Sanniti abbiano una bella legge e molto opportuna per muovere alla virtù. Perocchè non possono i padri dare le proprie figliuole in moglie a chi essi vogliono; ma ogni anno eleggonsi dieci fanciulle e dieci giovani, e la migliore al migliore si dà, poi la seconda di pregio al secondo, e così via via: e se mai qualcuno che abbia ricevuto tal premio, mutandosi diviene malvagio, lo dichiarano infame e gli tolgono la moglie che gli fu data.

Appresso vengono gl’Irpini che sono anch’essi Sanniti, ed ebbero il proprio nome dal condottiero della loro colonia; giacchè i Sanniti chiamano Irpo il [p. 91 modifica]lupo32. Costoro sono contigui ai Leucani mediterranei. Ma dei Sanniti ciò basti. A’ Campani poi la fertilità del terreno è stata cagione che le prosperità andassero del pari colle sventare. Perocchè vennero a tanto lusso, che si banchettavan fra loro e davansi lo spettacolo di molte paja di gladiatori, il cui numero veniva determinato dalla dignità dei convitati. E quando Annibale si fu impadronito di Capua che gli si arrese, e vi pose il suo esercito a svernare, lo effeminarono tanto coi loro piaceri, ch’egli ebbe a dire, come il vincitore correva pericolo di soggiacere ai nemici, giacchè i suoi soldati s’erano tramutati d’uomini in donne. Quando poi i Romani ebbero la vittoria, con molti castighi assennarono i Campani, ed all’ultimo ne distribuirono a sorte il territorio. Ed ora sono felici vivendo in concordia coi nuovi coloni33; e custodiscono l’antica dignità, la grandezza e il valore delle loro città.

Dopo la Campania e la Sannitide sino ai Leucani, lungo il mare Tirreno, abita la nazione de’ Picentini, piccola porzione staccata dai Picentini dell’Adriatico, e trasferita dai Romani nel golfo Posidoniate che ora si dice Pestano34. La loro città, l’antica Posidonia che ora chiamasi Pesto, giace nel mezzo del golfo. I Sibariti [p. 92 modifica]n’avevano piantato il muro sulla marina; ma quelli che l’abitarono dopo trasportarono pia in alto. In progresso di tempo i Leucani tolsero quella città ai Sibariti, e i Romani ai Leucani. Finalmente è da notare che Pesto è insalubre a cagione del fiume che quivi presso impaluda.

Fra le Sirenuse35 e Posidonia avvi Marcina fondata da’ Tirreni e abitata dai Sanniti. L’istmo che di quivi conduce a Pompeja ed a Nuceria è di non più che cento venti stadii.

I Picentini si stendono sino al fiume Silari36; che divide dal loro territorio l’antica Campania. Raccontasi questa proprietà dell’acqua di cotal fiume, che una pianta che vi si getti impietrisce, conservando per altro il suo colore e la sua figura. De’ Picentini fu metropoli Picenza: ma ora essi vivono in borgate, cacciati delle loro città dai Romani dacchè parteggiarono per Annibale. Ingiunsero oltre di ciò a quella popolazione che in luogo della milizia facesse gli uffici de’ corrieri e de’ messaggi, ciò che fu pure comandato per le stesse cagioni anche ai Leucani ed ai Brezii. Fortificarono inoltre contro di loro Salerno poco al di sopra del mare.

Dalle Sirenuse al Silari v’ha duecento sessanta stadii.

  1. Cioè fra Punta di Miseno (detta anche Monte Dragone) e la Punta della Campanella.
  2. Il significalo di questa parola χόνδρος non è ben noto.
  3. τῇ ζέᾳ
  4. L’Autore ha già detto che Venafro era situata sopra una collina.
  5. Cosl gli Edit. franc. rettificando il testo che dice: Le città sulla marina dopo Sinuessa sono Literno, ecc.
  6. Nel greco la probabilità di questa etimologia si fonda sulla somiglianza fra Κύμη (la città di Cuma) e κύμα flutto; come chi dicesse in italiano che Cuma deriva da schiuma.
  7. Καὶ ἐντὸς τούτου ὁ Ἄορνος. Potrebbe forse voler dire che il seno Aomo (il Lago d’Averno) è dentro il Locrino; ma l’altra spiegazione pare preferibile.
  8. Necya (νεκυῖα) od Evocazione delle ombre è il titolo che suol darai al lib. xi dell’Odissea dove Ulisse vede ed interroga le ombre dei trapassati.
  9. Luoghi Plutonii (e presso i Latini, Ostia Ditis) chiamavansi certi siti d’aria malsana, quasi che appartenessero a Plutone e fossero porte dell’inferno.
  10. Odiss., lib. xi, v. 15.
  11. Pozzuolo.
  12. Il testo che qui è mutilato riceve un sicuro sussidio dalle parole proprie dell’Autore, vol. i, pag. 55.
  13. Questo appunto significa la parola Νεάπολισ.
  14. Demarchi (da δῆμος e ἀρχή) vale capi, comandanti del popolo.
  15. Fratrie. Specie di confraternite.
  16. Trattasi della Grotta di Posilipo.
  17. Πολὺ δὲ τῷ πλήθει λειπομένους
  18. I1 vento di sud-ovest.
  19. Ciò debb’essere avvenuto quando se ne resero padroni i Romani, verso l’anno 272 prima dell’E. V.
  20. È noto che il Vesuvio cominciò poi a mandar fuoco di nuovo ai tempi di Tito.
  21. Cosi presso a poco gli Edit. franc. spiegano questo passo mollo oscuro uel greco, e sul quale può leggersi il lungo e diligente commento cb’c» 1 hanno scritto.
  22. Ora Golfo di Napoli.
  23. Ischia.
  24. Pind. Pyth. i, v. 32. Traduz. del Mezzanotte.
  25. Letteralmente: a modo di tifone, τυφωνοειδῶς.
  26. L’Isola di Capri.
  27. Brindisi. Callateria poi risponde a Galazzo. Caudio è il famoso luogo delle Forche Caudine. E Benevento conserva tuttora il suo nome.
  28. Calvi; e dovrebbe forse leggersi Καλὴς invece di Κάλκη.
  29. Εἰς τὴν δημοσίαν ἔπαυλιν
  30. Come chi dicesse: Piccoli Sabini.
  31. Cioè originarii da Pitane luogo della Laconia, e forse parte di Lacedemone stessa. (Edit. franc.).
  32. Come ai Sanniti un toro, così agl’Irpini dicevasi che fosse stato condottiero un lupo.
  33. τοῖς ἐποίκοις ὁμονοήσαντες. Il latino traduce colentes concordiam cum vicinis; ma oltre alla naturale significazione della voce ἔποικος, par evidente che qui si tratti dei coloni romani fra’ quali s’era distribuito a sorte il territorio di Capua.
  34. Il Golfo di Salerno.
  35. Il Casaubono tiene per fermo che sotto questo nome l’autore intende qui l’Ateneo, d Promontorio di Minerva.
  36. Il Sele.