Georgiche/Libro terzo

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Libro terzo

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Libro secondo Libro quarto
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LIBRO TERZO.


Te pur, divina Pale, e te d’Anfriso
Memorando Pastor, voi boschi e fonti
Del Licéo canterò. L’altre che dolce
Sarien trastullo a l’ozïose menti,
5Favolose memorie, omai son tutte
Da lungo tempo e divulgate, e conte.
Chi d’Euristéo le insidie, e l’are infami
Di Busiride ignora? o chi la fonte
D’Ila fanciullo, e di Latona in Delo
10La fuga, e il parto non udì? cui noti
Del rinomato Pelope non sono
L’omero eburneo, i vincitor destrieri
E la sposa fatal? Nuovo a me giova
Tentar sentiero, e nuovo carme, ond’altro
15M’erga dal suolo, e per le bocche altrui
Vincitor de l’oblio voli il mio nome.
Primo io, se vita avrò, ne i patrii lidi
Da l’Elicona le pïerie muse

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Condurrò meco, e primo a te di palme,
20Mantova, illustre porterò corona.
E in verde prato mäestoso tempio
Di ricchi marmi inalzerò là, dove
Lento scorrendo e tortuoso veste
D’alga palustre le sue rive il Mincio.
25Al tempio in mezzo il simulacro posto
Sarà d’Augusto, e ad onorarne il nume
Io vincitor di porpora vestito
Cento del fiume a l’affollata riva
Emule al corso agiterò quadriglie;
30E al grido tratta de i festivi giuochi
Verrà, lasciando del Molorco i boschi,
E l’olimpico Alfeo, la Grecia tutta
Al corso, e al cesto ivi a pugnar; ed io
Cinto le tempie di tosato ulivo
35Porgerò i doni a i vincitori Atleti.
E già presenti col pensier figuro,
E veder parmi le solenni pompe
Condotte al tempio, e gl’immolati tori:
Già ne i tëatri su i veloci perni
40Veggio d’aspetto varïar le pinte
Mobili scene, ed i britanni schiavi
Svolgere e alzar ne i ricamati arazzi
Le lor tessute immagini, e sconfitte.
Su l’alte porte in liscio avorio, e in oro

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45Inciderò l’indica pugna, e l’armi
Del novello Quirin: spumante e ingombro
D’ostili vele e di sanguigni flutti
Vedrassi il Nilo, e le colonne erette
Col fuso bronzo de l’egizie navi.
50De l’Asia in oltre aggiugnerò le dome
Città, gli Armeni debellati, e il Parto
Che imbelle a un tempo e insidïoso i dardi
Scaglia da tergo, e nel fuggir combatte.
Le doppie spoglie, ed i trofei rapiti
55A diversi nemici, e la due volte
Ne l’uno e l’altro mar gente sconfitta.
Scolpiti al vivo in pario marmo i volti
Ivi saranno, e i glorïosi nomi
De la scesa da Giove inclita schiatta,
60D’Assaraco la prole, e il padre Troe,
E il fondator de l’alta Troia Apollo.
Muta l’Invidia e pallida le ultrici
Furie, dovuta pena, e il nero fiume
Paventerà del vindice Cocito,
65La ruota e i serpi d’Issione, e il sasso,
Che di Sisifo il piè stanca, e la mano.

     Ma ne le selve de le Driadi intanto,
Da latino cantor non tocche ancora,
Or tempo è, ch’io m’inoltri. Ardua fatica,

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70Ma tuo comando, augusta Bice, a cui
Nulla negare, e senza cui non osa
Nulla di grande incominciar l’ingegno.
Su dunque vieni, affretta omai: con alto
Rimbombo già del Citeron gli armenti,
75E del Taigete i cani, e d’Epidauro
Ne invitano i destrieri, e il vasto intorno
Fragor s’addoppia a l’eccheggiar de i boschi.
Dopo questo lavor con maggior tromba
Io poi d’Augusto canterò le guerre,
80E farò sì, che il nome suo per fama
La lunga etade di Titon pareggi.

     O che a le palme olimpiche tu voglia
Magnanimi destrieri, o buoi robusti
A l’aratro educar, tua prima cura
85Sarà sceglier le madri. Ottima quella
Giovenca fia, che torva abbia la fronte,
Informe il capo, e doppio il collo, e a cui
Dal mento giù fino al ginocchio ondeggi
La pendula gorgaia: esteso e lungo
90Il fianco loderò, grandi le membra
E muscolose, e largo il piede, e sotto
Brevi e inarcate corna irte le orecchie.
Nè a me dispiacerà che sparso mostri
Di bianche macchie il dorso, e non che il giogo

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95Indocile ricusi, e il corno avventi
Minacciosa a ferir, nè che del toro
Le forme imiti e la maschil fierezza,
E mäestosa passeggiando e altera
Scopi il terren co la setosa coda.

     100Non pria del quarto soffrirai, non oltre
Il decim’anno che a i lavori agresti,
O a le fatiche d’imeneo soggiaccia;
Fuor di questi confin rïesce a i parti
Ogni altra etade, ed a l’aratro inetta.
105Dunque, finchè conservano le mandre
Il giovanil vigor, t’affretta, e il maschio
Sciogli, e il concedi a l’avide consorti,
Che gli annui danni a riparar crescente
Somministrino a te novella prole.
110Ahi! che qual lampo a i miseri viventi
De la fiorita età fuggono i giorni;
Quindi i morbi succedono, e le tristi
Fatiche, e l’egra inutile vecchiezza,
E morte alfin, che tutto invola e strugge.
115Tu fra le molte madri alcuna sempre
Da cambiar troverai; nuova sottentri
A l’inabile, o vecchia, e cauto ogni anno
Prevenendo il bisogno, i nuovi eleggi
Migliori allievi a risarcir l’armento.

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     120E ne la scelta de i destrier pur anco
Vuolsi ogni studio usar, e quelli poi
Fin da’ prim’anni custodir che scelti
Avrai le razze a propagar. Tra questi
Sono i leardi in molto pregio, e i bai,
125Negletto e vile il cinericcio e il falbo.
Se generoso è d’indole il polledro,
Giovinetto il vedrai tosto pe i campi
Passeggiar alto, e la pieghevol zampa
Mollemente posar: primo ei nel corso
130La via divora, e a perigliosi guadi
Intrepido s’avventa, e ignoto ponte
Osa calcar con franco piè, nè vano
O subito romor l’arresta, o scuote.
Erta e ricurva ha la cervice, il capo
135Sottil, tonda la groppa, asciutto il fianco,
Polputo e largo l’animoso petto.
Chè se improvviso suon d’armi, o di tromba
Da lungi ascolta, impetuoso, ardente
S’agita, e star non sa, drizza le orecchie,
140E trema, e sbuffa da le nari il foco.
Sovra l’omero destro ondeggia sparso
Il foltissimo crin, doppia sul dorso
Appar la spina, e irrequïeta e dura
Batte e scava il terren l’unghia sonante.
145Tal fu Cillaro un dì, domo dal freno

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De l’amicleo Polluce, e tai di Marte
I cavalli a noi pinsero, e d’Achille
I greci vati; e in simile destriero
Trasformossi Nettun, quando da Rea
150Colto in furtivi amor lasciò sul collo
Cadersi i crini, e rapido fuggendo
Su l’alto Pelio di nitriti acuti
La conscia spaventò Fillira amante.

     Quando però da non sanabil morbo,
155O da lunghi anni infievolito ei langue,
Tu chiuso allora ne le stalle il serba,
E a l’onorata e di riposo degna
Sua vecchiezza perdona. Inetto e freddo
Sempre è il vecchio in amor, e in vani sforzi
160Consumasi anelando; e se talvolta
A la battaglia avventasi, repente
In lui, qual debil vampa in secca paglia,
In breve langue inutile furore.
E l’età dunque, e l’indole, e le doti
165Varie procura d’indagar, da quale
Schiatta derivi, e qual nel corso mostri
Senso di gloria a riportar la palma,
O dolor d’esser vinto. E non vedesti
Nel circo allor che da le aperte sbarre
170Impetüosi a divorar l’arringo

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Slanciansi i cocchi? Ai giovanetti aurighi
Fra la speme e il timor esulta, e in petto
Palpita il cor: co le innalzate sferze
Pendono chini e ai corridor sul collo
175Allentano le briglie; accese in giro
Volan le ruote: or rannicchiarsi e bassi
Radere il suolo, or raddrizzarsi e in alto
Li vedi sollevar; nè indugi o al corso
O riposo sì dà: nuotano in nembo
180Di polvere i destrier, di sudor molli,
Bianchi di spume, ed anelante il vinto
Scalda col fiato al vincitor le groppe.
Tanto è l’ardor de la vittoria, e tanto
Può negli emuli cor desìo di lode.

     185Primo Erittonio fu che quattro al giogo
Destrieri aggiunse, e su veloce cocchio
Osò mostrarsi trïonfando in giro.
I peletronii Lápiti del freno
L’uso poscia inventarono, e sul dorso
190Dei domati destrieri in mezzo a l’armi
Ai giri li addestrano ed ai salti,
E mäestosi a galoppar sul campo.
Ambe quest’arti han lode ugual; ma sia,
Che a l’una o a l’altra i generosi alunni
195Ami educar, ne la paterna scelta

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Ardente al corso e vigoroso cerca,
E giovane il destrier. Vecchio il rigetta,
Nè lasciarti sedur, benchè famoso
Sia per vinte battaglie, o a patria vanti
200Micene, o Epiro, e non s’ei fosse ancora
Del destrier di Nettun divina prole.

     Ciò posto, allor che il solito s’appressa
Tempo de gli imenei, tutte le cure
Pongono in uso i provvidi custodi
205Il maschio ad impinguar, che de l’armento
A duce destinarono e marito;
A liquid’acque, erbe sugose e biada
Porgongli in copia, onde non egli al dolce
D’amor travaglio inabile soccomba,
210O da padre digiun nascano poi
Estenuati e senza forze i figli.
Ma per opposto di smagrir le madri
Studiano ad arte, ed allor quando il noto
Piacer le invoglia a gli amorosi assalti,
215Dai paschi le allontanano e dai fonti,
E spesso ancora affaticarle al corso
Sogliono e sotto il sol, mentre su l’aia
Batte le biade il contadino, e gitta
In faccia al vento le volanti paglie.
220E ciò perchè non di soverchio pingue

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Stringasi il solco genital, ma schiuda
Facile il varco, e sitibondo attragga,
E custodisca l’internato seme.

     Ma il provvido pensier che pria rivolto
225Era i padri a nudrir, termina, e quello
De le madri sottentra, allorchè in giro
Portano pregno di più mesi il ventre.
Ah non soffrasi allor che a grave carro
Alcun le aggioghi, o a correre sui prati,
230O a saltar fossi, o rapidi torrenti
Le costringa a guadar. Pascan tranquille
In aperta pianura e lungo il fiume;
Che placido ridondi, ove di musco
E d’erbe ognor verdeggiano le rive,
235E fresca grotta, o sovrastante scoglio
Non lontan somministri ombra ed asilo.

     Dentro i boschi del Silaro e vicino
Al coronato di verdi elci Alburno,
Stridulo vola e numeroso un tristo
240Alato insetto, a cui d’asilo diero
Nome i Romani, e in lor favella poi
Estro i Greci il chiamar. Da l’aspro e acuto
Stimolo e da l’orrisono ronzìo
Fuggon gli armenti spaventati, e d’alto

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245Muggito il ciel, le ingrate selve e i lidi
Rimbombando de l’arido Tanagro.
Questo per odio e per vendetta un tempo
Contro l’Inachia figlia orrido mostro
La gelosa incitò cruda Giunone.
250Tu lui però da le impregnate madri
Lungi discaccia; e al mezzodì, chè allora
Più molesto esser suol, cauto ritira
L’armento altrove, e a pascolarvi il guida
O ai primi raggi del nascente sole,
255O a l’apparir de le notturne stelle.

     Dopo del parto ogni pensiero e cura
A i vitelli rivolgesi; e da prima
Sovra la coscia con rovente ferro
S’imprime il marchio de la razza, e quelli
260Scelgonsi poi che vittima a gli altari
Son destinati o a propagar la mandra,
O sotto il giogo ad incallire il collo,
E i duri campi aprir: liberi gli altri
Su i verdi prati a pascolar sen vanno.

     265Tu quei però che ai rustici lavori
Formar vorrai, d’ammäestrar procura,
E di domare in giovinetta etade,
Finchè la docil’indole inesperta

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E’ facile a piegar: e pria di molli
270Pieghevoli vincastri un largo cerchio
Portin pendulo al collo, e poichè avvezza
La libera cervice a questo avranno
Segno di servitù, co i cerchi stessi
Tu due ne aggioga, e sforzali congiunti
275Con passo eguale a camminar del pari.
Ciò fatto, il carro insiem, vôto da pria,
S’addestrino a tirar che segni appena
Il polveroso pian; indi, cresciute
Le forze alfine, a più pesante incarco
280Curvino il dorso, e gemere da tergo
Odano l’asse, e cigolar le ruote.
Cibo ai vitelli non domati ancora
Non pur l’alga palustre, e il salcio, e l’erbe
Verdi saran, ma le recise cime
285Porgerai lor de le novelle biade;
Nè dopo il parto a te le munte vacche,
Come uso antico fu, di latte i vasi
Empir dovran, ma lascerai che tutte
Vôtino i figli le materne poppe.

     290Che se di Marte a le feroci pugne
L’animo hai volto; o del pisano Alfeo
Lungo le rive, o nei sacrati a Giove
Arcadi boschi le veloci bighe

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Ami al corso agitar, tua prima cura
295Sia l’avvezzare il giovane polledro
De l’armi il lampo e de le trombe il suono
Tranquillo a sostener; nè lui di ruote
Stridor spaventi, o l’agitar dei freni
Dentro le stalle; ed a la nota voce
300Del custode s’allegri, e il plauso goda
De la concava man che a lui la fronte
E il collo palpa accarezzando e il petto.
E a tutto questo accostumarlo è d’uopo
Slattato appena; e giovanetto pure
305Debole ancora, e di difese ignaro
Morbide funi al collo intorno e in bocca
Di morso invece a tollerare impari.
Ma poichè, il terzo già compiuto, ei giunge
L’anno quarto a toccar, cominci allora
310A sciorre il trotto rotëando in giro,
Indi con arte a regolati passi
Addestri il piè sonante, e inarchi, e snodi
Le gambe alterne e l’agil anca, e sembri
Costretto faticar; libero al corso
315Poi s’abbandoni, e per gli aperti campi,
Sciolto sul collo il fren, rapido voli,
L’orme segnando su la polve appena.
Così talor da l’iperboree spiagge
Scende aquilon fugandosi dinanzi

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320Le scitiche procelle, e i secchi nembi.
Senton da lungi il suo venire, e al primo
Soffio leggero le ondeggianti spiche
A spiegarsi incominciano, e le cime
A sibilar de le foreste, e lungi
325A sorger l’onde ed innalzarsi al lido:
Ei sopraggiunge impetüoso, e passa
Radendo a volo le campagne e il mare.
Educato così tu lieto poi
Primo a la meta il tuo destrier vedrai,
330Di sudor sparso e di sanguigne spume
Correre un dì ne la palestra elea,
O in miglior uso l’animoso collo
A i belgici soppor guerrieri cocchi.
Poichè domo ei sarà, tu lascia allora
335Che d’erbe e biada a sazietà pasciuto
Colmi ingrassando le carnose groppe,
Prima non già, chè indocile e feroce
Mal soffrirebbe la fischiante verga
E d’ubbidir ricuserebbe al morso.

     340Ma nulla tanto è necessario, come
Da le furie di Venere, e dai ciechi
Stimoli de l’amor guardar l’armento.
Uso è però di confinare i tori
In solitarii pascoli e lontani,

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345O dietro a’ monti, o di frapposto fiume
Oltre le rive, o ne le chiuse stalle
Separati a mangiar; poichè la vista
De le consorti accende in loro e nutre
Un lento foco che li strugge e snerva,
350Dei pascoli svogliandoli e dei boschi.
E avvien sovente che di loro alcuna
Co le dolci lusinghe istighi e mova
I gelosi a pugnar superbi amanti.
Stassi nel bosco, e dei rivali in vista
355Pascendo la bellissima giovenca.
Essi abbassando le nemiche fronti
Movonsi incontro, e con feroce assalto
Le corna incrocicchiando urtansi, e i colpi
Alternano e le piaghe; il nero sangue
360Dal collo gronda e da le spalle, e geme
A le percosse ed ai muggiti il bosco.
Nè accordo, o pace è più tra lor, nè albergo
Han più comune insiem; esule il vinto
Sen va lontano in solitarie spiagge
365Le sue ferite a piangere, e il suo scorno,
E la vittoria del rival superbo,
E i suoi perduti e invendicati amori.
E rivolgendo nel partir lo sguardo
A i pascoli e a le stalle, i cari lidi,
370Dove ei nacque e regnò, mesto abbandona.

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Ma non l’amor, nè la vendetta obblìa,
E le sue forze esercitando e l’ire,
A le fatiche indurasi, e fra i sassi
In ruvido covil giace, d’amare
375Foglie, e d’acuta carice pasciuto;
E cimentando il suo furor, le corna
Appunta ai duri tronchi, e vani colpi
Vibrando a l’aria, co la bifid’unghia
Sparge l’arena, ed a pugnar s’addestra.
380E poichè alfin tutto raccolto ei sente
Il primiero vigore, a nuova pugna
Esce in campo, e l’immemore nemico
Impetuoso ad assaltar ritorna.
Siccome flutto che da l’alto mare
385Biancheggiar lungi, ed avanzar si vede
Or alto, or basso, indi più sempre a terra
Appressarsi ingrossando, e alfin tra scogli
Urtar muggendo, e sovra i lidi immenso
Rovesciarsi e piombar: da l’imo fondo
390L’onda agitata in vorticosi giri
Bolle e solleva la sconvolta arena.

     E che non puote amor? sue dolci furie
Ogni animal risente, e del suo foco
Ardon del pari e gli uomini e le fiere,
395Le gregge, i pesci, ed i volanti augelli.

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Calda d’amor la lïonessa obblìa
I cari figli, furïosa errando
A la campagna; sanguinose stragi
Fan gli orsi informi per le selve, e smania
400L’orrida tigre: ahi! periglioso allora
Saria di Libia il traversar le arene.
Non vedi tu qual tremito ricerchi
Ogni fibra al destrier, sol che a le nari
L’aura da lungi il noto odor trasporti?
405Rapido ei fugge, nè la dura sferza,
Nè il ferreo morso più, nè scoglio, o rupe,
Nè frapposto il ritien gonfio torrente.
E il feroce cignal urta grugnendo
Le folte macchie, aguzza i denti, e il suolo
410Raspa, e fregando a gli alberi le coste
L’ispido dorso a le ferite indura.
Che poi non oserà giovine incauto,
A cui nel sen sua vïolenta face
Agiti il crudo amor? Misero! ahi solo
415Di cupa notte in tempestoso mare
Gittasi a nuoto: invano a lui sul capo
Tuona e balena il ciel, tra scogli infranto
Mugghiagli invano il gonfio flutto; ei nulla
Ode, o paventa; nè il suo rischio, o il pianto
420Dei genitor, nè l’infelice amante
Che di dolor ne morirà, lo arresta.

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E che dirò de le macchiate linei,
A Bacco sacre, e de i selvaggi lupi,
E de i cani domestici, e de l’aspre
425Pugne che accende amor ne i cervi imbelli?
Ma nulla uguaglia lo sfrenato e cieco
Furor de le cavalle: in lor l’infuse
Venere stessa fin da quando in Potno
Le spinse il corpo a divorar di Glauco.
430Oltre il sonante Ascanio, oltre il sublime
Gargara amor le caccia, e varcan monti,
E foreste attraversano e torrenti.
E quando poi ne la stagion novella
Serpeggiar ne le cupide midolle
435Sentono il noto ardor, su l’alta cima
D’ignude rupi radunate e immote
Stan con la bocca a i zefiri rivolte
L’aure bevendo, e, meraviglia a dirsi!
Senz’altre nozze gravide di vento
440Scendono allor precipitose in fuga
Tra scogli e balze, e per le cupe valli;
E non a l’auro, od al nascente sole
Volgono il corso, ma là, d’onde o coro
Spira, o il freddo aquilon, o il torbid’austro
445Che di piogge dirotte attrista il cielo.
E quindi poi da la concetta fiamma
D’acre e viscoso umor stillano un lento

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Veleno, a cui d’Ippomane i pastori
Diedero il nome, e che le rie matrigne
450Spesse volte raccolgono, mescendo
Venefich’erbe e magiche parole.
Ma fugge intanto e rapido s’invola
Il tempo irrevocabile, mentr’io
Già troppo a lungo da l’amor rapito
455M’arresto errando ad ogni oggetto intorno.

     Basta fin qui del grosso armento. Or resta
Del lanigero gregge, e de le irsute
Capre a parlar: di faticosa cura
E’ il culto lor, ma larga poi ne speri
460L’industre agricoltor lode e vantaggio.
Ben veggio, e so, che malagevol opra
Fia l’innalzar con dignitoso stile
Sì basse cose, e l’umile argomento
Coi fregi ornar de l’apollineo canto;
465Ma un dolce amor di peregrina lode
Me per deserte e sconosciute spiagge
Di Pindo invita: ignote vie mi giova
Tentar su l’ardue cime, ove non orma
Appar d’antico piè che apra, od insegni
470Facil sentiero a le castalie rive.
Or tu propizia, o veneranda Pale,
Scendi, e rinforza la mia voce al canto.

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     E pria nel caldo ovil, finchè del verno
Dura la ria stagion, d’erbe dovrai
475Le pecore nutrir, e a lor di paglia
E di morbida felce agiato letto
Distender sotto, onde non nuoca il gelo
De l’umido terreno, e il molle gregge
D’immonda scabbia, o di podagra infetti.
480Le capre poi di teneri e frondosi
Ramoscelli alimenta, e limpid’onda
Bevano e fresca, e al mezzodì rivolte
Abbian le stalle, onde anche allor che versa
L’umido acquario le gelate piogge,
485Godano il sole, e non le offenda il vento.
Nè minor cura a lor tu déi, nè frutto
Minor, che da le pecore, ne avrai:
Che se le ricche e prezïose lane
Non porgon esse, che colora in Tiro
490Il milesio pastor, feconde invece
Sono di parti numerosi, e quindi
Così di latte abbondano, che quanto
Più i vasi n’empirai, tanto mungendo
Più lo vedrai fra le tue dita in bianchi
495Rivi colar da le rigonfie poppe.
Al cinifio capron si tosan pure
La bianca barba, e il lungo pel che ad uso
Servono poi di militari tende,

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E ne la pioggia a i marinar di cappa.
500Nel giorno e per le selve, e su per l’erte
Cime de’ monti pasconsi le capre
D’alpestri dumi e di spinosi rubi,
E da se stesse poi memori a casa
Guidando i parti lor, tornan la sera,
505E de l’ovil co le ripiene poppe
Possono a stento sormontar la soglia.
Ma tu però, quanto minori in loro
Sono i bisogni de la vita, attento
Veglian dovrai, che dai nevosi venti
510Sien difese, e dal gelo, e finchè dura
De l’inverno il rigor, provvido tieni
Chiuse le stalle, ed il fenile aperto.
Ma quando poi de’ zefiretti il dolce
Fiato richiama la stagion migliore,
515E le capre e le pecore nei verdi
Boschi, e sui prati a pascolare invia;
E dal dischiuso ovil escan ne l’ora
Che spunta appena in ciel l’idalia stella,
E non ben chiaro è il dì, finchè biancheggia
520Il campo ancor de la notturna brina,
E grata al gregge tremolando brilla
Su l’erbe la freschissima rugiada.
A l’ora quarta poi che in lor la sete
Destasi, e i campi col noioso canto

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525Assorda e il ciel la querula cicala,
A ber le guiderai la limpid’onda
Che per lungo canal d’elci scavate
Da i pozzi scorre, o dal vicino lago.
Ma nel meriggio ombrosa valle e fresca
530Trovar procura, ove i fronzuti rami
Ampia distende antica quercia, o dove
Di folt’elci nereggia il bosco opaco.
E finalmente al tramontar del sole
Abbeverarle, e pascere di nuovo
535Devi, quando il calor tempra del giorno
Espero, e spunta a ristorare i prati
L’umida luna, e già cantar sul lido
L’alcïon s’ode, e il cardellin fra i dumi.

     E a che dir qui de’ nomadi pastori
540Gli usi diversi, e i pascoli, ed i rari
Ne l’inospito suol sparsi tugurii?
Spesso l’errante greggia e notte e giorno
Per quelle solitudini pascendo
Sen va gl’interi mesi, a nudo cielo,
545Senza tetto incontrar, tanto si stende
La deserta pianura! E tutto quindi
Porta con se quanto a la vita è d’uopo
L’affricano pastor, gli arnesi, e i lari,
E la capanna, e la faretra, e il cane.

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550Tal d’armi carco, e d’importabil soma
Il soldato roman con piè robusto
La marcia affretta, e inaspettato il campo
Pianta, e già sta de l’inimico a fronte.

     Ma ne la Scizia non così, nè presso
555A la mëotic’onda, o dove l’Istro
Torbido volge al mar le bionde arene,
O dove l’alto Rodope piegando
Fin sotto al polo borëal s’allunga.
Ivi non mai da le rinchiuse stalle
560Escon gli armenti; e non appar su i campi
Erba, o fronda su gli alberi, ma sotto
Monti di neve desolata giace
La terra intorno, e d’aspro gel coperta,
Che alto a più braccia sovra lei s’indura.
565Perpetuo regna ivi l’inverno, e soffia
Il freddo coro, nè da l’äer tristo
Mai le pallide nebbie il sol dirada,
O ch’ei dal mar col luminoso carro
In alto ascenda, o che nel mar tramonti.
570In dure lastre de i correnti fiumi
Stringesi l’onda, e immobile sul dorso
Sostien le ferree ruote, ospite pria
Di lievi barche, or di stridenti carri.
Ampio specchio di lubrico cristallo

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575Ogni lago divien, frange i metalli
L’acuto freddo, e co la scure in pezzi
Tagliasi il duro vin, gelano indosso
L’umide vesti, e indurasi in sonore
Gocce di brina su la barba il fiato.
580Giù folta intanto dal cinereo cielo
Cade la neve a larghi fiocchi intorno.
Ne muor la greggia intirizzita, e oppressi
Vi rimangono i buoi; ristretti in branco
Giacciono i cervi, e torpidi e sepolti
585Sotto il peso novel la cima appena
Mostrano fuor de le ramose corna.
Nè cani allora per cacciarli, o reti,
O späuracchi di purpuree penne
Usa il feroce cacciator; col ferro
590Corre lor sopra ad assalirli, e mentre
Tentan col petto invan l’opposta neve
Gemendo sollevar, scannali, e lieto
Porta con se la palpitante preda.
Privi di sol que’ popoli selvaggi
595Entro scavate sotterranee grotte
Menan sicura ed ozïosa vita,
E sovra i vasti focolar le intere
Querce ammontando e gli olmi, in cerchio assisi
Le lunghe notti ingannano giocando,
600E a piene tazze, de le ignote viti

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Imitando il liquor, bevon de l’orzo,
E de le sorbe fermentate il sugo.
E, se nei brevi dì da le lor tane
Osan talvolta uscir, de l’euro a schermo
605Che da i monti rifei gelido spira,
Pe i boschi errando van, d’ispide pelli
D’uccise fiere orribilmente involti.

     Or ritornando a te, se il gregge nutri
Per raccoglierne lana, i troppo grassi
610Pascoli devi, e gli spinosi dumi
Fuggir del pari, e dapprincipio bianche,
E di morbido pel sceglier le madri.
Ma sovra tutto il capro, a cui nereggi
La lingua sotto l’umido palato,
615Fosse ei pur candidissimo qual neve,
Cauto rigetta, onde macchiati i figli
Non nascan poscia, ed un miglior ne cerca.
E in bianco capro trasformato un giorno
L’amante arcade Pan, se creder lice,
620Te, Dïana, ingannò, nel folto bosco
Da la lana bianchissima sedotta
Allettandoti a scendere; nè isdegno
Mostrasti tu del frodolento invito.

     Ma chi di latte è più bramoso, al gregge

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625E loro porga, e citiso fiorito,
Ed erbe salse, onde maggior la sete
In lor si desta, e più bevendo gonfie
Han più le poppe, e da gli occulti sali
Un più grato sapor risente il latte.
630Molti vi sono che i crescenti figli
Da le madri allontanano, ed al muso
Pongon pungente ostacolo di ferro.
Quel latte che il pastor munge al mattino,
E ne l’ore del giorno a tarda notte
635Il guaglia e preme, e quello poi che munto
Ha ne la sera al tramontar del sole,
O a la cittade in candide fiscelle
Su l’alba il porta, o parcamente asperso
Di sale il serba pel futuro inverno.

     640Nè de le cure tue restino i cani
L’ultima, o la minor: di pingue siero
Lo spartan velocissimo, e il feroce
Molosso nutrirai. Finchè custodi
Saran questi a l’ovil, notturni ladri
645Temer non devi, o di voraci lupi
Insidïoso assalto, o che a le spalle
Stuol ti sorprenda di vaganti Iberi.
E con essi potrai sovente al corso
Gli onagri päurosi, e le orecchiute

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650Lepri inseguire, e le veloci damme;
E co i latrati lor fuor de le macchie
I cignali stanar, e giù da i monti
Cacciar gridando ne la rete i cervi.

     D’ardere innoltre l’odoroso cedro
655Entro i presepii avverti, e l’atre bisce
Snidarne fuor col galbano fumoso.
Sovente avvien, che timida fuggendo
Dal chiaro giorno ne le immonde stalle
La velenosa vipera s’asconda;
660O che serpente a ricovrarsi avvezzo
De i tetti a l’ombra, insidïosa peste
De la greggia e de’ buoi, giacciavi occulto
In riposto covil: tu greve sasso,
O nodoso baston rapido afferra,
665E lui che n’esce minaccioso in vista,
Ed alza e gonfia sibilando il collo,
Percuoti e schiaccia: egli fuggendo il capo
Dai colpi asconderà, tu incalza e il batti
Finchè slombato e lacero le attorte
670Spire disciolga, dimenando appena
Con lento moto la strisciante coda.

     Ma ne le selve di Calabria un angue
Annidasi peggior: squammoso ha il tergo,

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Sublime il petto, erta la cresta, e lungo
675E a grandi macchie colorato il ventre.
Ei finchè piene son le fonti, e inonda
L’umida primavera e il torbid’austro
Di pioggia il suolo, a i paludosi stagni
Aggirasi d’intorno, o in riva a i fiumi
680Abita, e ingordo predator la gola
S’empie di pesci e di loquaci rane.
Ma quando asciutta è la palude, e s’apre
Fessa dal sol la terra, esce dal secco
Letto, e pe i campi inferocito smania
685Di sete e di calor, e l’arse fauci
Spalanca e gira l’infiammate luci.
Guardimi il Ciel che a periglioso sonno
Ne l’aria aperta io m’abbandoni allora,
O che nel bosco, o sul pendìo del colle
690Io mi ponga a giacer, quand’ei le antiche
Squame deposte, di novelle spoglie
Ringiovenito mostrasi, o nel nido
L’ova lasciando, o la digiuna prole
Va strisciando pe i campi, e contro al sole
695Alzasi, e vibra la trisulca lingua.

     Or qui de’ morbi le cagion diverse,
E i segni indicherò. Lurida scabbia
Suol le agnelle infettar, quando o la pioggia

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Soffrono, o il freddo lungamente, o quando
700Seccasi in croste sul tosato dorso
Non lavato il sudor, o irsute spine
Insanguinando sfregiano la pelle.
Sogliono quindi i provvidi pastori
Spesso lavar di limpid’onda il gregge,
705E in rio corrente spingono, e a seconda
Sforzano il capro a gir, che n’esce poi
Rigando il suol con la grondante lana.
E a le tosate pecore son molti,
Che ungono il corpo d’olëosa morchia,
710E pece d’Ida, e vivo zolfo, e spume
Vi mischiano d’argento, e squilla, e pingue
Vergine cera, elleboro e bitume.
Ma il più sicuro ed opportun rimedio
E’ de la piaga il velenoso labbro
715Col ferro risecar: nutresi, e chiusa
L’ulcere cresce, non sanabil poi,
Se la medica man pigro ricusi
Di prestarvi il pastor, e inerte sieda
Chiedendo al Ciel con vane preci aita.
720Che se ne l’ossa de le inferme agnelle
Passi il dolore, e le consumi acuta
Arida febbre, gioverà col ferro
Aprir del piè la zampillante vena;
Come i Bisalti sogliono, e i Geloni

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725O sul Rodope erranti, o pe i deserti
Getici, usar co i lor cavalli, e caldo
Beverne il sangue mescolato al latte.

     Se pecora vedrai lungi da l’altre
Errar divisa, e ricovrarsi a l’ombra
730Spesso, o svogliata mordere de l’erbe
La cima appena, e a lenti passi il gregge
Ultima seguitar, o in mezzo al campo
Coricarsi pascendo, e a tarda notte
Sola partirne, ah tu la via col ferro
735Tronca al nascente mal, prima che tutta
L’incauta greggia serpeggiando infetti.
Non così spesso il turbine sul mare
Agita e mesce i tempestosi flutti,
Come frequenti nel lanuto armento
740Regnano i morbi: e non a poche agnelle
E’ il contagio fatal, tutte sovente
Le madri, e i capri, e la crescente speme,
E intero suole devastar l’ovile.

     E ben convinto ne sarà, chi l’Alpi,
745E i montüosi norici castelli
Visiti, e i campi del Timavo, e dopo
Sì lungo tempo ancor vegga d’intorno
Deserti i regni de’ pastori, e vôti

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D’armento i boschi, e desolati i paschi.

     750In questi luoghi orribile già nacque
Da l’äer guasto contagiosa peste,
Che incrudelì nel caldo autunno, e tutte
Infettò l’acque, e i pascoli corruppe,
E armenti, e gregge, e fin le belve uccise.
755Nè conosciuto, o naturale il modo
Era in lor di morir: chè ove ignea sete,
Dentro le vene penetrando, attratte
E inaridite avea le membra, un nuovo
Quindi umor generavasi che pregno
760D’acre veleno in putrida sciogliea
Liquida tabe le midolle e l’ossa.
Spesso appiè de l’altar, mentre a le corna
Le sacre s’avvolgean candide bende
Per offrirla a gli dei; l’ostia si vide
765Fra le man de gli attoniti ministri
Moribonda cader; o se taluna
Il sacerdote ne uccidea col ferro,
Nè le viscere imposte ardean su l’ara,
Nè il consultato aruspice risposta
770Trarne incerto potea: di sangue appena
Eran tinti i coltelli, e poche stille
D’atra tabe macchiavano il terreno.
Presi dal morbo rio su i paschi erbosi,

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E ne i presepii, e ne gli ovili a torme
775Muoiono agnelli e buoi; mordace rabbia
Assale i cani, e vïolenta tosse
Agita e strozza soffocando i porci.
Langue il destrier già vincitore, e i fonti
Sdegna e l’erbe svogliato, e raspa e batte
780Con piè frequente il suol, chine ha le orecchie,
E un interrotto, e ne i vicini a morte
Freddo sudor gronda dal corpo, ed aspra
Resiste al tatto l’indurita pelle.
Questi ne i primi dì precoci segni
785Di morte si palesano, e se poi
Segue il morbo a inasprir, ardenti allora
Son gli occhi, e grave, e dal profondo petto
Tratto a stento il respir: teso è da i lunghi
Singulti il fianco palpitante, un nero
790Sangue giù cola da le nari, e chiude
L’asciutte fauci l’ingrossata lingua.
Dapprincipio giovò l’arida gola
D’infuso vino ristorare, e parve
Questo lo scampo sol, ma poi del male
795Fu il rimedio peggior; poichè, riprese
Quindi le forze, da feroce rabbia
Ardevano invasi, e nel morir (ah lungi
Da i buoni, a i soli rei serbate, o numi

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Tanto furor) contro di se volgendo
800I nudi denti, in sanguinosi brani
Lacerando mordevansi le membra.

     Ecco ahi! fumante di sudor sul campo,
Mentre il vomero trae, cade gemendo
L’esangue toro, ed a la spuma misto
805Vomita il sangue: l’arator dolente
Vassene, e lagrimando il bue compagno,
Mesto lui pur de la fraterna morte,
Dal timone distacca, e a mezzo il solco
Confitto lascia e in abbandon l’aratro.
810Non l’ombra più de gli alti boschi, o l’erba
De i molli prati or possono, nè l’onda,
Che scorre limpidissima qual ambra
Di sasso in sasso a zampillar su i campi,
L’egro armento allettar: ansa dimesso
815Il cavo fianco, istupiditi e immoti
Stan gli occhi in fronte, e dal suo peso tratta
Chinasi al suol la languida cervice.
Ahi! questo dunque de i sudori sparsi,
Questo di tante a pro de l’uom fatiche
820E’ dunque il frutto? E che giovò la terra
Con assiduo lavor svolgere, e il collo
Sotto il giogo incallir? Eppur fumosi

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Vini ad essi non nocquero, o mal sane
Ricercate vivande: usato cibo
825Erano l’erbe semplici e le frondi,
Sola bevanda le scorrevoli acque
Di fonte o fiume, e i placidi lor sonni
Mai non ruppe, o turbò cura inquïeta.

     Fama è, che in tutti quei contorni allora
830A i sagrificii di Giunone e i tori
Mancarono, e le solite giovenche,
E i cocchi a trarne con le offerte al tempio
Silvestri buoi si ritrovaro appena.
Quindi la terra a lavorar costretti
835Fur quelle genti senz’aratro, e i solchi
Con zappe aprire, ed incastrarvi il seme
Co l’unghie, e il collo sopponendo al giogo
I carri a stento strascinar su i monti.
Non più a la greggia insidïando, il lupo
840Notturno esplora il chiuso ovil, da cura
Più grave oppresso: e le fugaci damme
E i päurosi cervi in mezzo a i cani
Vanno ora errando, e a le capanne intorno.
Nè il rio contagio a lo squammoso armento
845Del mar perdona; in su l’estremo lido
Quasi naufraghi corpi i pesci esangui

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Rigetta il fiotto, e dentro ai fiumi ignoti
Corron le foche a ricovrarsi: invano
Nel suo covil la vipera s’appiatta,
850E l’irte squame attonito drizzando
Spira il serpente; velenosa è pure
L’aria a gli augelli, e a mezzo vol cadendo
Sotto le nubi lasciano la vita.

     Nulla giova il mutar pascoli, e spesso
855Nuoce i rimedi usar: cedono vinti
Il figliuol d’Amitäone e Chirone,
Mäestri invano de la medic’arte.
La pallida Tisifone, da l’ombre
Stigie mandata ad infettare il giorno,
860Incrudelisce, e innanzi a se cacciando,
Crudo corteggio, lo spavento e i morbi,
Ogni dì più l’avido capo estolle.
Al belar de la greggia, al mesto e spesso
Muggir de’ buoi tutti d’intorno i colli
865Suonano, e i fiumi, e le deserte rive.
Ampie cataste sovra i campi innalza
L’orrida furia, e ne le piene stalle
S’ammontano i cadaveri, stillanti
Putrida marcia; onde a scavar profonde
870Fosse appresero alfine, e interi corpi

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Sotterra a seppellir; chè di niun uso
Erane il cuoio, nè purgar col foco
Potevansi le viscere, o con l’onda
Tergere, nè tosar le immonde lane
875Dal morbo infette, nè adoprar le tele:
E se talun le abbominande vesti
Ardìa toccar, da l’ulcerosa pelle
Infiammati carbonchi usciano, e un sozzo
E fetido sudor, nè lungo tempo
880Tardava poi che le contatte carni
Il foco sacro divorando ardea.