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Gerusalemme liberata/Canto quarto

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Canto Quarto

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Canto terzo Canto quinto


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IDRAOTE


ARGOMENTO.

     Tutti i numi d’Inferno à se raccoglie
L’imperador del tenebroso regno;
E per dare a’ Cristiani acerbe doglie
Vuol, ch’ usi ognun di lor suo iniquo ingegno.
Per lor opra Idraote a crude voglie
Si volge, e vuol ch’ Armida al suo disegno
Spiani la via, parlando in dolci modi:
E sue machine son bellezze, e frodi.


CANTO QUARTO.


Me n t r e son questi alle bell’opre intenti,
Perchè debbano tosto in uso porse;
Il gran nemico dell’umane genti
4Contra i Cristiani i lividi occhj torse,
E scorgendogli omai lieti, e contenti,
Ambo le labbra per furor si morse,
E qual tauro ferito, il suo dolore
8Versò, mugghiando e sospirando, fuore.

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II.


     Quinci avendo per tutto il pensier volto
A recar ne’ Cristiani ultima doglia,
Che sia, comanda, il popol suo raccolto
12(Concilio orrendo!) entro la regia soglia:
Come sia pur leggiera impresa (ahi stolto!)
Il repugnare alla divina voglia;
Stolto, ch’al Ciel s’agguaglia, e in oblio pone,
16Come di Dio la destra irata tuone.

III.


     Chiama gli abitator dell’ombre eterne
Il rauco suon della tartarea tromba:
Treman le spaziose atre caverne,
20E l’aer cieco a quel romor rimbomba.
Nè sì stridendo mai dalle superne
Regioni del Cielo il folgor piomba,
Nè sì scossa giammai tréma la terra,
24Quando i vapori in sen gravida serra.

IV.


     Tosto gli Dei d’abisso in varie torme
Concorron d’ogn’intorno all’alte porte,
Oh come strane, o come orribil forme,
28Quant’è negli occhj lor terrore, e morte!
Stampano alcuni il suol di ferine orme,
E ’n fronte umana han chiome d’angui attorte,
E lor s’aggira dietro immensa coda,
32Che quasi sferza si ripiega, e snoda.

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V.


     Quì mille immonde Arpie vedresti, e mille
Centauri, e Sfingi, e pallide Gorgoni,
Molte e molte latrar voraci Scille,
36E fischiar Idre, e sibilar Pitoni,
E vomitar Chimere atre faville,
E Polifemi orrendi, e Gerioni,
E in nuovi mostri, e non più intesi o visti,
40Diversi aspetti in un confusi, e misti.

VI.


     D’essi parte a sinistra, e parte a destra
A seder vanno al crudo Re davante.
Siede Pluton nel mezzo, e con la destra
44Sostien lo scetro ruvido e pesante:
Nè tanto scoglio in mar, nè rupe alpestra,
Nè pur Calpe s’innalza, o ’l magno Atlante,
Ch’anzi lui non paresse un picciol colle;
48Sì la gran fronte, e le gran corna estolle.

VII.


     Orrida maestà nel fero aspetto
Terrore accresce, e più superbo il rende:
Rosseggian gli occhj, e di veneno infetto,
52Come infausta cometa, il guardo splende:
Gl’involve il mento, e su l’irsuto petto
Ispida e folta la gran barba scende:
E in guisa di voragine profonda,
56S’apre la bocca d’atro sangue immonda.

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VIII.


     Qual’i fumi sulfurei, ed infiammati
Escon di Mongibello, e ’l puzzo e ’l tuono;
Tal della fera bocca i negri fiati,
60Tale il fetore e le faville sono.
Mentre ei parlava, Cerbero i latrati
Ripresse, e l’Idra si fè muta al suono:
Restò Cocíto, e ne tremar gli abissi;
64E in questi detti il gran rimbombo udissi:

IX.


     Tartarei Numi, di seder più degni
Là sovra il Sole, ond’è l’origin vostra,
Che meco già dai più felici regni
68Spinse il gran caso in questa orribil chiostra;
Gli antichi altrui sospetti, e i fieri sdegni
Noti son troppo, e l’alta impresa nostra.
Or colui regge a suo voler le stelle,
72E noi siam giudicate alme rubelle.

X.


     Ed in vece del dì sereno e puro,
Dell’aureo Sol, degli stellati giri,
N’ha quì rinchiusi in questo abisso oscuro,
76Nè vuol ch’al primo onor per noi s’aspiri.
E poscia (ahi quanto a ricordarlo è duro!
Quest’è quel che più inaspra i miei martíri)
Ne’ bei seggj celesti ha l’uom chiamato;
80L’uom vile, e di vil fango in terra nato.

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XI.


     Nè ciò gli parve assai; ma in preda a morte,
Sol per farne più danno, il Figlio diede.
Ei venne, e ruppe le tartaree porte,
84E porre osò ne’ regni nostri il piede,
E trarne l’alme a noi dovute in sorte,
E riportarne al Ciel sì ricche prede;
Vincitor trionfando; e in nostro scherno
88Le insegne ivi spiegar del vinto Inferno.

XII.


     Ma chè rinnovo i miei dolor parlando?
Chi non ha già l’ingiurie nostre intese?
Ed in qual parte si trovò, nè quando
92Ch’egli cessasse dalle usate imprese?
Non più dèssi alle antiche andar pensando,
Pensar dobbiamo alle presenti offese.
Deh non vedete omai come egli tenti
96Tutte al suo culto richiamar le genti?

XIII.


     Noi trarrem neghittosi i giorni, e l’ore,
Nè degna cura fia che ’l cor n’accenda?
E soffrirem che forza ognor maggiore
100Il suo popol fedele in Asia prenda?
E che Giudea soggioghi, e che ’l suo onore,
Che ’l nome suo più si dilati e stenda?
Che suoni in altre lingue, e in altri carmi
104Si scriva, e incida in nuovi bronzi, e marmi?

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XIV.


     Che sian gl’Idoli nostri a terra sparsi?
Che i nostri altari il mondo a lui converta?
Ch’a lui sospesi i voti, a lui sol’arsi
108Siano gl’incensi, ed auro e mirra offerta?
Ch’ove a noi tempio non solea serrarsi,
Or via non resti all’arti nostre aperta?
Che di tant’alme il solito tributo
112Ne manchi, e in voto regno alberghi Pluto?

XV.


     Ah non fia ver, chè non sono anco estinti
Gli spirti in noi di quel valor primiero,
Quando di ferro e d’alte fiamme cinti
116Pugnammo già contra il celeste impero.
Fummo, io nol nego, in quel conflitto vinti;
Pur non mancò virtute al gran pensiero:
Ebbero i più felici allor vittoria;
120Rimase a noi d’invitto ardir la gloria.
 

XVI.


     Ma perchè più v’indugio? Itene, o miei
Fidi consorti, o mia potenza e forze:
Ite veloci, ed opprimete i rei,
124Prima che ’l lor poter più si rinforze;
Pria che tutt’arda il regno degli Ebrei,
Questa fiamma crescente omai s’ammorze:
Fra loro entrate, e in ultimo lor danno
128Or la forza s’adopri, ed or l’inganno.

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XVII.


     Sia destin ciò ch’io voglio; altri disperso
Sen vada errando: altri rimanga ucciso:
Altri in cure d’amor lascive immerso,
132Idol si faccia un dolce sguardo e un riso:
Sia 'l ferro incontro al suo rettor converso
Dallo stuol ribellante e in se diviso:
Pera il campo e ruini, e resti in tutto
136Ogni vestigio suo con lui distrutto.
    

XVIII.


     Non aspettar già l’alme a Dio rubelle
Che fosser queste voci al fin condotte;
Ma fuor volando, a riveder le stelle
140Già se n’uscian dalla profonda notte;
Come sonanti e torbide procelle,
Che vengan fuor delle natíe lor grotte
Ad oscurar il cielo, a portar guerra
144Ai gran regni del mare e della terra.

XIX.


     Tosto spiegando in varj lati i vanni,
Si furon questi per lo mondo sparti;
E incominciaro a fabbricar inganni
148Diversi e nuovi, e ad usar lor arti.
Ma di’ tu, Musa, come i primi danni
Mandassero ai Cristiani, e di quai parti:
Tu ’l sai; ma di tant’opra a noi sì lunge
152Debil aura di fama appena giunge.

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XX.


     Reggea Damasco e le città vicine
Idraote famoso e nobil mago;
Che fin da’ suoi prim’anni all’indovine
156Arti si diede, e ne fu ognor più vago.
Ma che giovar, se non potè del fine
Di quella incerta guerra esser presago?
Ned aspetto di stelle erranti o fisse,
160Nè risposta d’Inferno il ver predisse?

XXI.


     Giudicò questi (ahi cieca umana mente,
Come i giudícj tuoi son vani e torti!)
Ch’all’esercito invitto d’Occidente
164Apparecchiasse il Ciel ruine e morti:
Però credendo che l’Egizia gente
La palma dell’impresa alfin riporti,
Desia che ’l popol suo nella vittoria
168Sia dell’acquisto a parte, e della gloria.

XXII.


     Ma perchè il valor Franco ha in grande stima,
Di sanguigna vittoria i danni teme;
E va pensando con qual'arte in prima
172Il poter de’ Cristiani in parte sceme:
Sicchè più agevolmente indi s’opprima
Dalle sue genti, e dall’Egizie insieme.
In questo suo pensier il sovraggiunge
176L’Angelo iniquo, e più l’instiga e punge.

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XXIII.


     Esso il consiglia, e gli ministra i modi
Onde l’impresa agevolar si puote.
Donna, a cui di beltà le prime lodi
180Concedea l’Oriente, è sua nipote.
Gli accorgimenti e le più occulte frodi,
Ch’usi o femmina o maga, a lei son note.
Questa a se chiama, e seco i suoi consiglj
184Comparte, e vuol che cura ella ne pigli.

XXIV.


     Dice: o diletta mia, che sotto biondi
Capelli, e fra sì tenere sembianze,
Canuto senno, e cor virile ascondi,
188E già nell’arti mie me stesso avanze;
Gran pensier volgo; e se tu lui secondi,
Seguiteran gli effetti alle speranze:
Tessi la tela ch’io ti mostro ordita,
192Di cauto vecchio esecutrice ardita.

XXV.


     Vanne al campo nemico: ivi s’impieghi
Ogn’arte femminil, ch’amore alletti:
Bagna di pianto, e fà melati i preghi:
196Tronca e confondi co’ sospiri i detti:
Beltà dolente e miserabil pieghi
Al tuo volere i più ostinati petti:
Vela il soverchio ardir con la vergogna,
200E fà manto del vero alla menzogna.

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XXVI.


     Prendi, s’esser potrà, Goffredo all’esca
De’ dolci sguardi, e de’ bei detti adorni;
Sicch’all’uomo invaghito omai rincresca
204L’incominciata guerra, e la distorni.
Se ciò non puoi, gli altri più grandi adesca:
Menagli in parte, ond’alcun mai non torni.
Poi distingue i consiglj: alfin le dice:
208Per la fe, per la patria il tutto lice.

XXVII.


     La bella Armida di sua forma altera,
E de’ doni del sesso e dell’etate,
L’impresa prende; e in su la prima sera
212Parte, e tiene sol vie chiuse e celate:
E ’n treccia, e ’n gonna femminile spera
Vincer popoli invitti, e schiere armate.
Ma son del suo partir tra ’l volgo, ad arte,
216Diverse voci poi diffuse e sparte.

XXVIII.


     Dopo non molti dì vien la Donzella
Dove spiegate i Franchi avean le tende.
All’apparir della beltà novella
220Nasce un bisbiglio, e ’l guardo ognun v’intende;
Siccome là, dove cometa o stella,
Non più vista di giorno, in ciel risplende:
E traggon tutti per veder chi sia
224Sì bella peregrina, e chi l’invia.

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XXIX.


     Argo non mai, non vide Cipro o Delo,
D’abito o di beltà forme sì care.
D’auro ha la chioma; ed or dal bianco velo
228Traluce involta, or discoperta appare.
Così qualor si rasserena il cielo,
Or da candida nube il Sol traspare;
Or dalla nube uscendo, i raggj intorno
232Più chiari spiega, e ne raddoppia il giorno.

XXX.


     Fa nove crespe l’aura al crin disciolto,
Che natura per se rincrespa in onde:
Stassi l’avaro sguardo in se raccolto,
236E i tesori d’amore, e i suoi nasconde.
Dolce color di rose in quel bel volto
Fra l’avorio si sparge e si confonde:
Ma nella bocca, ond’esce aura amorosa,
240Sola rosseggia, e semplice la rosa.

XXXI.


     Mostra il bel petto le sue nevi ignude,
Onde il foco d’amor si nutre e desta:
Parte appar delle mamme acerbe e crude,
244Parte altrui ne ricopre invida vesta:
Invida, ma s’agli occhj il varco chiude,
L’amoroso pensier già non arresta;
Chè non ben pago di bellezza esterna,
248Negli occulti secreti anco s’interna.

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XXXII.


     Come per acqua, o per cristallo intero
Trapassa il raggio, e nol divide o parte;
Per entro il chiuso manto osa il pensiero
252Sì penetrar nella vietata parte:
Ivi si spazia, ivi contempla il vero
Di tante maraviglie a parte a parte:
Poscia al desio le narra e le descrive,
256E ne fa le sue fiamme in lui più vive.

XXXIII.


     Lodata passa, e vagheggiata Armida,
Fra le cupide turbe, e se n’avvede.
Nol mostra già, benchè in suo cor ne rida,
260E ne disegni alte vittorie e prede.
Mentre sospesa alquanto, alcuna guida
Che la conduca al Capitan, richiede;
Eustazio occorse a lei, che del sovrano
264Principe delle squadre era germano.

XXXIV.


     Come al lume farfalla, ei si rivolse
Allo splendor della beltà divina;
E rimirar dappresso i lumi volse,
268Che dolcemente atto modesto inchina:
E ne trasse gran fiamma, e la raccolse,
Come da foco suole esca vicina:
E disse verso lei, ch’audace e baldo
272Il fea degli anni e dell’amore il caldo:

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XXXV.


     Donna, se pur tal nome a te conviensi;
Chè non somigli tu cosa terrena:
Nè v’è figlia d’Adamo, in cui dispensi
276Cotanto il ciel di sua luce serena:
Chè da te si ricerca? e donde viensi?
Qual tua ventura o nostra or quì ti mena?
Fà ch’io sappia chi sei; fà ch’io non erri
280Nell’onorarti, e s’è ragion, m’atterri.

XXXVI.


     Risponde: Il tuo lodar troppo alto sale;
Nè tanto in suso il merto nostro arriva:
Cosa vedi, Signor, non pur mortale,
284Ma già morta ai diletti, al duol sol viva.
Mia sciagura mi spinge in loco tale,
Vergine peregrina e fuggitiva:
Ricorro al pio Goffredo, e in lui confido;
288Tal va di sua bontade intorno il grido.

XXXVII.


     Tu l’adito m’impetra al Capitano,
S’hai, come pare, alma cortese e pia.
Ed egli: è ben ragion ch’all’un germano
292L’altro ti guidi, e intercessor ti sia.
Vergine bella, non ricorri invano:
Non è vile appo lui la grazia mia:
Spender tutto potrai, come t’aggrada,
296Ciò che vaglia il suo scettro, o la mia spada.

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XXXVIII.


     Tace, e la guida ove tra i grandi eroi
Allor dal volgo il pio Buglion s’invola.
Essa inchinollo riverente, e poi
300Vergognosetta non facea parola.
Ma quei rossor, ma quei timori suoi
Rassicura il guerriero, e riconsola;
Sicchè i pensati inganni alfine spiega
304In suon che di dolcezza i sensi lega.


Essa inchinollo riverente, e poi
Vergognosetta non facea parola.



XXXIX.


     Principe invitto, disse, il cui gran nome
Sen vola adorno di sì chiari fregj;
Chè l’esser da te vinte, e in guerra dome
308Recansi a gloria le provincie e i Regi:
Noto per tutto è il tuo valore, e come
Sin dai nemici avvien che s’ami e pregi;
Così anco i tuoi nemici affida, e invita
312Di ricercarti, e d’impetrarne aita.

XL.


     Ed io che nacqui in sì diversa fede,
Che tu abbassasti, e ch’or d’opprimer tenti,
Per te spero acquistar la nobil sede,
316E lo scettro regal de’ miei parenti:
E s’altri aita ai suoi congiunti chiede
Contra il furor delle straniere genti;
Io, poichè ’n lor non ha pietà più loco,
320Contra il mio sangue il ferro ostíle invoco.

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XLI.


     Te chiamo, ed in te spero; e in quell’altezza
Puoi tu sol pormi, onde sospinta io fui.
Nè la tua destra esser dee meno avvezza
324Di sollevar, che d’atterrar altrui:
Nè meno il vanto di pietà si prezza,
Che ’l trionfar degli avversarj sui;
E s’hai potuto a molti il regno torre,
328Fia gloria egual nel regno or me riporre.

XLII.


     Ma se la nostra fe varia ti move
A disprezzar forse i miei preghi onesti,
La fe ch’ho certa in tua pietà, mi giove:
332Nè dritto par ch’ella delusa resti.
Testimon è quel Dio ch’a tutti è Giove,
Ch’altrui più giusta aita unqua non desti.
Ma perchè il tutto appieno intenda, or odi
336Le mie sventure insieme, e le altrui frodi.

XLIII.


     Figlia i’ son d’Arbilan, che ’l regno tenne
Del bel Damasco, e in minor sorte nacque:
Ma la bella Cariclia in sposa ottenne,
340Cui farlo erede del suo imperio piacque.
Costei col suo morir quasi prevenne
Il nascer mio; chè in tempo estinta giacque,
Ch’io fuori uscia dell’alvo: e fu il fatale
344Giorno ch’a lei diè morte, a me natale.

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XLIV.


     Ma il primo lustro appena era varcato
Dal dì ch’ella spogliossi il mortal velo;
Quando il mio genitor, cedendo al fato,
348Forse con lei si ricongiunse in Cielo:
Di me cura lasciando e dello stato
Al fratel ch’egli amò con tanto zelo;
Chè se in petto mortal pietà risiede,
352Esser certo dovea della sua fede.

XLV.


     Preso dunque di me questi il governo,
Vago d’ogni mio ben si mostrò tanto,
Che d’incorrotta fe, d’amor paterno,
356E d’immensa pietade ottenne il vanto.
O che ’l maligno suo pensiero interno
Celasse allor sotto contrario manto;
O che sincere avesse ancor le voglie,
360Perch’al figliuol mi destinava in moglie.

XLVI.


     Io crebbi, e crebbe il figlio; e mai nè stile
Di cavalier, nè nobil’arte apprese;
Nulla di pellegrino o di gentile
364Gli piacque mai, nè mai troppo alto intese:
Sotto deforme aspetto animo vile,
E in cor superbo avare voglie accese:
Ruvido in atti, ed in costumi è tale,
368Ch’è sol ne’ vizj a se medesmo eguale.

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XLVII.


     Ora il mio buon custode ad uom sì degno
Unirmi in matrimonio in se prefisse;
E farlo del mio letto e del mio regno
372Consorte; e chiaro a me più volte il disse.
Usò la lingua e l’arte, usò l’ingegno,
Perchè ’l bramato effetto indi seguisse:
Ma promessa da me non trasse mai;
376Anzi ritrosa ognor tacqui, o negai.

XLVIII.


     Partissi alfin con un sembiante oscuro,
Onde l’empio suo cor chiaro trasparve.
E ben l’istoria del mio mal futuro
380Leggergli scritta in fronte allor mi parve;
Quinci i notturni miei riposi furo
Turbati ognor da strani sogni e larve:
Ed un fatale orror nell’alma impresso,
384M’era presagio de’ miei danni espresso.

XLIX.


     Spesso l’ombra materna a me s’offria,
Pallida imago, e dolorosa in atto;
Quanto diversa, oimè, da quel che pria
388Visto altrove il suo volto avea ritratto.
Fuggi, figlia, dicea, morte sì ria
Che ti sovrasta omai, partiti ratto.
Già veggio il tosco e ’l ferro in tuo sol danno
392Apparecchiar dal perfido Tiranno.

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L.


     Ma che giovava, oimè, che del periglio
Vicino omai fosse presago il core;
Se irresoluta in ritrovar consiglio
396La mia tenera età rendea il timore?
Prender fuggendo volontario esiglio,
E ignuda uscir del patrio regno fuore
Grave era sì, ch’io fea minore stima
400Di chiuder gli occhj, ove gli apersi in prima.

LI.


     Temea, lassa, la morte, e non avea
(Chi ’l crederia?) poi di fuggirla ardire;
E scoprir la mia tema anco temea,
404Per non affrettar l’ore al mio morire.
Così inquieta e torbida traea
La vita in un continuo martíre;
Qual uom ch’aspetti, che sul collo ignudo
408Ad or ad or gli caggia il ferro crudo.

LII.


     In tal mio stato, o fosse amica sorte,
O ch’a peggio mi serbi il mio destino,
Un de’ ministri della regia corte,
412Che ’l Re mio padre s’allevò bambino,
Mi scoperse che ’l tempo alla mia morte,
Dal Tiranno prescritto, era vicino;
E ch’egli a quel crudele avea promesso
416Di porgermi il velen quel giorno stesso.

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LIII.


     E mi soggiunse poi, ch’ alla mia vita,
Sol fuggendo, allungar poteva il corso;
E poich’altronde io non sperava aita,
420Pronto offrì se medesmo al mio soccorso;
E confortando mi rendè sì ardita,
Che del timor non mi ritenne il morso;
Sicch’io non disponessi, all’aer cieco,
424La patria e ’l zio fuggendo, andarne seco.

LIV.


     Sorse la notte oltra l’usato oscura,
Che sotto l’ombre amiche ne coperse:
Talchè con due donzelle uscii sicura,
428Compagne elette alle fortune avverse.
Ma pure indietro alle mie patrie mura
Le luci io rivolgea di pianto asperse:
Nè della vista del natío terreno
432Potea, partendo, saziarle appieno.

LV.


     Fea l’istesso cammin l’occhio, e ’l pensiero;
E mal suo grado il piede innanzi giva:
Siccome nave ch’improvviso e fero
436Turbine scioglia dall’amata riva.
La notte andammo, e ’l dì seguente intero
Per lochi ov’orma altrui non appariva.
Ci ricovrammo in un castello alfine,
440Che siede del mio regno in sul confine.

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LVI.


     È d’Aronte il castel, (ch’Aronte fue
Quel che mi trasse di periglio, e scorse)
Ma poichè me fuggito aver le sue
444Mortali insidie, il traditor, s’accorse;
Acceso di furor contr’ambidue,
Le sue colpe medesme in noi ritorse;
Ed ambo fece rei di quell’eccesso,
448Che commetter in me volle egli stesso.

LVII.


     Disse ch’Aronte i’ avea con doni spinto
Fra sue bevande a mescolar veneno;
Per non aver, poi ch’egli fosse estinto,
452Chi legge mi prescriva, o tenga a freno:
E ch’io seguendo un mio lascivo instinto,
Volea raccormi a mille amanti in seno.
Ahi, che fiamma dal Cielo anzi in me scenda,
456Santa Onestà, ch’io le tue leggi offenda!

LVIII.


     Ch’avara fame d’oro, e sete insieme
Del mio sangue innocente il crudo avesse,
Grave m’è si; ma via più il cor mi preme,
460Che ’l mio candido onor macchiar volesse.
L’empio, che i popolari impeti teme,
Così le sue menzogne adorna e tesse,
Chè la città, del ver dubbia e sospesa,
464Sollevata non s’armi a mia difesa.

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LIX.


     Nè, perch’or sieda nel mio seggio, e ’n fronte
Già gli risplenda la regal corona,
Pone alcun fine a’ miei gran danni, all’onte;
468Sì la sua feritate oltre lo sprona.
Arder minaccia entro ’l castello Aronte,
Se di proprio voler non s’imprigiona;
Ed a me, lassa, e insieme ai miei consorti
472Guerra annunzia non pur, ma strazj, e morti.

LX.


     Ciò dice egli di far, perchè dal volto
Così levarsi la vergogna crede;
E ritornar nel grado, ond’io l’ho tolto,
476L’onor del sangue, e della regia sede.
Ma il timor n’è cagion, chè non ritolto
Gli sia lo scettro, ond’io son vera erede;
Chè sol, s’io caggio, por fermo sostegno,
480Con le ruine mie, puote al suo regno.

LXI.


     E ben quel fine avrà l’empio desire,
Che già il Tiranno ha stabilito in mente;
E saran nel mio sangue estinte l’ire,
484Che dal mio lagrimar non fiano spente,
Se tu nol vieti: a te rifuggo, o Sire,
Io misera fanciulla, orba, innocente:
E questo pianto, ond’ho i tuoi piedi aspersi,
488Vagliami sì, che ’l sangue io poi non versi.

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LXII.


     Per questi piedi, onde i superbi e gli empj
Calchi: per questa man che ’l dritto aita:
Per l’alte tue vittorie, e per que’ tempj
492Sacri, cui desti, e cui dar cerchi aita;
Il mio desir, tu che puoi solo, adempi;
E in un col regno a me serbi la vita
La tua pietà; ma pietà nulla giove,
496S’anco te il dritto e la ragion non move.

LXIII.


     Tu, cui concesse il Cielo, e dielti in fato
Voler il giusto, e poter ciò che vuoi;
A me salvar la vita, a te lo stato
500(Chè tuo fia, s’io ’l ricovro) acquistar puoi.
Fra numero sì grande a me sia dato
Dieci condur de’ tuoi più forti eroi:
Ch’avendo i padri amici, e ’l popol fido,
504Bastan questi a ripormi entro al mio nido.

LXIV.


     Anzi un de’ primi, alla cui fe commessa
È la custodia di secreta porta,
Promette aprirla, e nella reggia stessa
508Porci di notte tempo; e sol m’esorta
Ch’io da te cerchi alcuna aita; e in essa,
Per picciola che sia, si riconforta
Più che s’altronde avesse un grande stuolo:
512Tanto l’insegne estima, e ’l nome solo!

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LXV.


     Ciò detto tace, e la risposta attende
Con atto che, in silenzio, ha voce e preghi.
Goffredo il dubbio cor volve e sospende
516Fra pensier varj, e non sa dove il pieghi.
Teme i barbari inganni, e ben comprende
Che non è fede in uom ch’a Dio la neghi.
Ma d’altra parte in lui pietoso affetto
520Si desta, che non dorme in nobil petto.

LXVI.


     Nè pur l’usata sua pietà natía
Vuol che costei della sua grazia degni,
Ma il move utile ancor: ch’util gli fia
524Che nell’imperio di Damasco regni
Chi, da lui dipendendo, apra la via
Ed agevoli il corso ai suoi disegni;
E genti, ed arme gli ministri, ed oro
528Contra gli Egizj, e chi sarà con loro.

LXVII.


     Mentre ei, così dubbioso, a terra volto
Lo sguardo tiene, e ’l pensier volve e gira;
La donna in lui s’affissa, e dal suo volto
532Intenta pende, e gli atti osserva e mira:
E perchè tarda, oltra ’l suo creder, molto
La risposta, ne teme e ne sospira.
Quegli la chiesta grazia al fin negolle:
536Ma diè risposta assai cortese e molle.

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LXVIII.


     Se in servigio di Dio, ch’a ciò n’elesse,
Non s’impiegasser quì le nostre spade,
Ben tua speme fondar potresti in esse,
540E soccorso trovar, non che pietade:
Ma se queste sue gregge, e queste oppresse
Mura non torniam prima in libertade,
Giusto non è, con iscemar le genti,
544Che di nostra vittoria il corso allenti.

LXIX.


     Ben ti prometto, e tu per nobil pegno
Mia fe ne prendi, e vivi in lei sicura;
Che se mai sottrarremo al giogo indegno
548Queste sacre, e dal Ciel dilette mura;
Di ritornarti al tuo perduto regno,
Come pietà n’esorta, avrem poi cura.
Or mi farebbe la pietà men pio,
552S’anzi il suo dritto io non rendessi a Dio.

LXX.


     A quel parlar chinò la donna, e fisse
Le luci a terra, e stette immota alquanto:
Poi sollevolle rugiadose, e disse,
556Accompagnando i flebil’atti al pianto:
Misera! ed a qual’altra il Ciel prescrisse
Vita mai grave, ed immutabil tanto?
Chè si cangia in altrui mente e natura,
560Pria che si cangi in me sorte sì dura.

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LXXI.


     Nulla speme più resta: invan mi doglio:
Non han più forza in uman petto i preghi.
Forse lece sperar che ’l mio cordoglio,
564Che te non mosse, il reo Tiranno pieghi?
Nè già te d’inclemenza accusar voglio,
Perchè ’l picciol soccorso a me si neghi;
Ma il Cielo accuso, onde il mio mal discende,
568Che ’n te pietade innesorabil rende.

LXXII.


     Non tu, Signor, nè tua bontade è tale;
Ma ’l mio destino è che mi nega aita:
Crudo destino, empio destin fatale,
572Uccidi omai questa odiosa vita.
L’avermi priva, oimè, fu picciol male
De’ dolci padri in loro età fiorita;
Se non mi vedi ancor, del regno priva,
576Qual vittima al coltello andar cattiva.

LXXIII.


     Chè poichè legge d’onestate, e zelo
Non vuol che quì sì lungamente indugi,
A cui ricorro intanto? ove mi celo?
580O quai contra il Tiranno avrò rifugj?
Nessun loco sì chiuso è sotto il Cielo,
Ch’a lor non s’apra: or perchè tanti indugj?
Veggio la morte, e se ’l fuggirla è vano,
584Incontro a lei n’andrò con questa mano.

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LXXIV.


     Quì tacque; e parve ch’un regale sdegno
E generoso l’accendesse in vista:
E ’l piè volgendo, di partir fea segno,
588Tutta negli atti dispettosa e trista.
Il pianto si spargea senza ritegno,
Com’ira suol produrlo a dolor mista:
E le nascenti lagrime, a vederle,
592Erano a’ rai del Sol cristalli e perle.

LXXV.


     Le guance asperse di que’ vivi umori,
Che giù cadean sin della veste al lembo,
Parean vermiglj insieme, e bianchi fiori;
596Se pur gl’irriga un rugiadoso nembo,
Quando su l’apparir de’ primi albóri
Spiegano all’aure liete il chiuso grembo:
E l’alba che gli mira, e se n’appaga,
600D’adornarsene il crin diventa vaga.

LXXVI.


     Ma il chiaro umor, che di sì spesse stille
Le belle gote e ’l seno adorno rende,
Opra effetto di foco, il qual in mille
604Petti serpe celato, e vi s’apprende.
O miracol d’Amor, che le faville
Tragge del pianto, e i cor nell’acqua accende!
Sempre sovra natura egli ha possanza;
608Ma in virtù di costei se stesso avanza.

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LXXVII.


     Questo finto dolor da molti elíce
Lagrime vere, e i cor più duri spetra.
Ciascun con lei s’affligge, e fra se dice:
612Se mercè da Goffredo or non impetra,
Ben fu rabbiosa tigre a lui nutrice,
E ’l produsse in aspr’alpe orrida pietra,
O l’onda che nel mar si frange e spuma:
616Crudel, che tal beltà turba e consuma.

LXXVIII.


     Ma il giovinetto Eustazio, in cui la face
Di pietade e d’amore è più fervente,
Mentre bisbiglia ciascun altro, e tace,
620Si tragge avanti, e parla audacemente:
O germano e Signor, troppo tenace
Del suo primo proposto è la tua mente;
Se al consenso comun che brama e prega,
624Arrendevole alquanto or non si piega.

LXXIX.


     Non dico io già, che i Principi, che a cura
Si stanno quì de’ popoli soggetti,
Torcano il piè dalle oppugnate mura,
628E sian gli uficj lor da lor negletti:
Ma fra noi che guerrier siam di ventura,
Senza alcun proprio peso, e meno astretti
Alle leggi degli altri, elegger diece
632Difensori del giusto a te ben lece.

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LXXX.


     Ch’al servigio di Dio già non si toglie
L’uom ch’innocente vergine difende;
Ed assai care al Ciel son quelle spoglie,
636Che d’ucciso tiranno altri gli appende.
Quando dunque all’impresa or non m’invoglie
Quell’util certo che da lei s’attende,
Mi ci move il dover, ch’a dar tenuto
640È l’ordin nostro alle donzelle ajuto.

LXXXI.


     Ah non sia ver, per Dio, che si ridica
In Francia, o dove in pregio è cortesia,
Che si fugga da noi rischio o fatica
644Per cagion così giusta, e così pia.
Io per me quì depongo elmo e lorica:
Quì mi scingo la spada, e più non fia
Ch’adopri indegnamente arme o destriero,
648O ’l nome usurpi mai di cavaliero.

LXXXII.


     Così favella, e seco in chiaro suono
Tutto l’ordine suo concorde freme;
E chiamando il consiglio utile e buono,
652Co’ preghi il Capitan circonda e preme.
Cedo, egli disse allora, e vinto sono
Al concorso di tanti uniti insieme.
Abbia, se parvi, il chiesto don costei,
656Dai vostri si, non dai consiglj miei.

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LXXXIII.


     Ma se Goffredo di credenza alquanto
Pur trova in voi, temprate i vostri affetti.
Tanto sol disse; e basta lor ben tanto,
660Perchè ciascun quel ch’ei concede, accetti.
Or chè non può di bella donna il pianto,
Ed in lingua amorosa i dolci detti?
Esce da vaghe labbra aurea catena,
664Che l’alme a suo voler prende ed affrena.

LXXXIV.


     Eustazio lei richiama, e dice: omai
Cessi, vaga donzella, il tuo dolore:
Chè tal da noi soccorso in breve avrai,
668Qual par che più richiegga il tuo timore.
Serenò allora i nubilosi rai
Armida, e sì ridente apparve fuore,
Ch’innamorò di sue bellezze il Cielo,
672Asciugandosi gli occhj col bel velo.

LXXXV.


     Rendè lor poscia in dolci e care note
Grazie per l’alte grazie a lei concesse,
Mostrando che sariano al mondo note
676Mai sempre, e sempre nel suo core impresse:
E ciò che lingua esprimer ben non puote,
Muta eloquenza ne’ suoi gesti espresse:
E celò sì sotto mentito aspetto
680Il suo pensier, ch’altrui non diè sospetto.

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LXXXVI.


     Quinci vedendo che furtuna arriso
Al gran principio di sue frodi avea,
Prima che ’l suo pensier le sia preciso,
684Dispon di trarre al fine opra sì rea;
E far con gli atti dolci, e col bel viso,
Più che con l’arti lor Circe o Medea;
E in voce di Sirena, ai suoi concenti
688Addormentar le più svegliate menti.

LXXXVII.


     Usa ogni arte la donna, onde sia colto
Nella sua rete alcun novello amante:
Nè con tutti, nè sempre un stesso volto
692Serba; ma cangia a tempo atti e sembiante.
Or tien pudíca il guardo in se raccolto;
Or lo rivolge cupido e vagante.
La sferza in quegli, il freno adopra in questi,
696Come lor vede in amar lenti o presti.

LXXXVIII.


     Se scorge alcun che dal suo amor ritiri
L’alma, e i pensier per diffidenza affrene;
Gli apre un benigno riso, e in dolci giri
700Volge le luci in lui liete e serene:
E così i pigri e timidi desiri
Sprona, ed affida la dubbiosa spene:
Ed infiammando le amorose voglie,
704Sgombra quel gel che la paura accoglie.

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LXXXIX.


     Ad altri poi, ch’audace il segno varca,
Scorto da cieco e temerario duce,
De’ cari detti, e de’ begli occhj è parca,
708E in lui timore e riverenza induce:
Ma fra lo sdegno, onde la fronte è carca,
Pur anco un raggio di pietà riluce;
Sicch’altri teme ben, ma non dispera:
712E più s’invoglia, quanto appar più altera.

XC.


     Stassi talvolta ella in disparte alquanto,
E ’l volto e gli atti suoi compone e finge
Quasi dogliosa; e infin su gli occhj il pianto
716Tragge sovente, e poi dentro il respinge.
E con quest’arti a lagrimar intanto
Seco mill’alme semplicette astringe;
E in fuoco di pietà strali d’amore
720Tempra, onde pera a sì fort’arme il core.

XCI.


     Poi, siccome ella a quei pensier s’invole,
E novella speranza in lei si deste,
Ver gli amanti il piè drizza, e le parole,
724E di gioja la fronte adorna e veste:
E lampeggiar fa quasi un doppio Sole,
Il chiaro sguardo, e ’l bel riso celeste
Su le nebbie del duolo oscure e folte,
728Ch’avea lor prima intorno al petto accolte.

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XCII.


     Ma mentre dolce parla, e dolce ride,
E di doppia dolcezza inebria i sensi;
Quasi dal petto lor l’alma divide,
732Non prima usata a quei diletti immensi.
Ahi crudo Amor, ch’egualmente n’ancide
L’assenzio e ’l mel, che tu fra noi dispensi:
E d’ogni tempo egualmente mortali
736Vengon da te le medicine e i mali.

XCIII.


     Fra sì contrarie tempre, in ghiaccio e in foco,
In riso e in pianto, e fra paura e spene,
Inforsa ognun suo stato; e di lor gioco,
740L’ingannatrice donna, a prender viene.
E s’alcun mai con suon tremante e fioco
Osa, parlando, d’accennar sue pene;
Finge, quasi in amor rozza e inesperta,
744Non veder l’alma ne’ suoi detti aperta.

XCIV.


     O pur le luci vergognose e chine
Tenendo, d’onestà s’orna e colora;
Sicchè viene a celar le fresche brine
748Sotto le rose, onde il bel viso infiora.
Qual nell’ore più fresche e mattutine
Del primo nascer suo veggiam l’aurora;
E ’l rossor dello sdegno insieme n’esce
752Con la vergogna, e si confonde e mesce.

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XCV.


     Ma se prima negli atti ella s’accorge
D’uom che tenti scoprir le accese voglie,
Or gli s’invola e fugge, ed or gli porge
756Modo onde parli, e in un tempo il ritoglie.
Così il dì tutto in vano error lo scorge,
Stanco e deluso poi di speme il toglie.
Ei si riman, qual cacciator, ch’a sera
760Perda alfin l’orma di seguita fera.

XCVI.


     Queste fur l’arti, onde mill’alme e mille
Prender furtivamente ella poteo;
Anzi pur furon l’arme, onde rapille
764Ed, a forza, d’Amor serve le feo.
Qual maraviglia or fia, se’l fero Achille
D’Amor fu preda, ed Ercole, e Teseo;
S’ancor chi per Gesù la spada cinge,
768L’empio, ne’ laccj suoi talora stringe?



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