Giacomo Leopardi/XXVII. «Pensieri e detti» di Leopardi

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XXVII. «Pensieri e detti» di Leopardi

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XXVII. «Pensieri e detti» di Leopardi
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XXVII

«PENSIERI E DETTI» DI LEOPARDI

Lo scrittore pone ogni studio a bene occultare la sua personalità, sicché le sue opinioni sembrino dettate non da umore o singolare disposizione psicologica, ma da puro e disinteressato convincimento del vero. Questo non gli riesce in tutto, perché l’umore scatta da quella sua attitudine freddamente ironica, e qua e là il velo è così trasparente che si vede dietro la sua persona. E se si fosse lasciato ire alle sue impressioni, innestando concetti e sentimenti, avremmo avuto un quadro vivo e interessante. Ma, parte il desiderio che la singolarità delle sue opinioni non sia attribuita a singolarità d’umore, parte il concetto rigido e astratto che s’era formato della prosa, l’autore rimane, quanto gli è possibile, in una generalità scientifica.

Pure, queste prose non destano un interesse filosofico, non hanno un valore seriamente scientifico. Mancano a Leopardi le alte qualità di un ingegno filosofico: la virtù speculativa, familiare con le più elevate astrattezze, come fossero cose viste con l’occhio, e la virtù edificativa o metodica, da cui nasce un tutto sistematico, vigorosamente coordinato. Non ha l’intuizione del generale o della legge, e non ci va, se non per via di esempi e d’immagini e di sentenze, e giunto appena, ricasca in basso. Le sue cognizioni filosofiche, non comuni, massime per quello che si appartiene all’antichità, erano rimaste nello stato di dottrina o di erudizione, vale a dire di semplice particolare; e non si vede che ci sia stato da parte sua nessun lavoro serio di assimilazione [p. 213 modifica]o di ricostruzione. Le sue osservazioni sulla natura umana mostrano acutezza e novità di guardatura, e destano un interesse che rimane con diversa intensità sulle singole parti, e non s’innalza a durevole interesse generale, cioè a interesse filosofico. La contraddizione ch’era nella sua natura, invade anche l’intelletto, ancoraché acutissimo e chiarissimo; e malgrado ogni suo sforzo non giunge a dominarla. Ivi penetra la sua volontà debole e scissa, menata dal flutto delle impressioni quotidiane, e non lo lascia venire a conclusione stabile, a coerenza filosofica, sospeso e scisso tra un nichilismo assoluto e disperato, e velleità individuali e umanitarie: scissura visibile in questi Pensieri e Detti. Ora, se questa condizione della sua mente è ottima per il poeta, è infelice per il filosofo, la cui prima qualità è la coerenza e stabilità delle idee. E qui troviamo una singolare perspicuità ne’ particolari, e una non meno singolare scucitura e perplessità nell’insieme.

Ond’è che le sue prose non hanno interesse scientifico, e neppure oratorio. Lo scrittore non ha la mira a’ lettori, e non vuol persuaderli e non cerca nessun effetto. Fa soliloquii, con un tal piglio sinistro, quasi godesse del dispiacere che ci fa a ricantarci sempre la trista canzone. Parlando degli uomini, sembra quasi che non sia uomo lui; e stia da parte a guardarci, non senza un certo risetto di beffa. Perciò, non ci essendo calore e non comunione simpatica, l’impressione è fredda e talora disaggradevole.

Si può domandare se questa posizione del suo spirito, insufficiente all’oratore e al filosofo, sia buona almeno a creare qui un interesse artistico. Ma di questa sua posizione egli non ha coscienza, e fa ogni opera per dissimularla a sé stesso, quando per avventura gliene venga un barlume. Se si sentisse misantropo e parlasse così con libero sfogo, avremmo l’artista. Ma egli ha l’aria di cercare il nudo vero, e di esporlo nudamente, guardingo verso ogni moto d’immaginazione o di cuore che vi s’introduca di soppiatto. E se fosse così, se rimanesse innanzi a quel nudo vero semplicemente, curioso e imparziale, avrebbe quella libertà di spirito che è necessaria all’artista. Ma quel vero è [p. 214 modifica]desso, che lo attrista e guasta il suo umore e lo tiene preoccupato, e gli vieta la serenità dell’arte. Perciò manca a questa prosa l’interesse che viene da una sincera e calda partecipazione personale, e l’interesse che viene dalla calma e serenità dello spirito. Ci è quell’uomo tristo e frigido, non potuto vincere nelle nuove Canzoni come s’è visto.

Quanto alla maniera dell’esposizione, o a quel suo tipo di prosa, fo alcune considerazioni. Quella prosa è perfettissima in sé, ben rispondente al suo esemplare, di una solida ossatura, ma non è viva, non è moderna. La prosa italiana classica è finita nel secolo decimosettimo, quando appunto in altre nazioni s’iniziava una nuova civiltà, a cui restammo estranei. Rimasta stazionaria, ed imbarbarendo sempre più con mescolanze strane, quando il nostro pensiero si risvegliava e si moveva, l’ingegno italiano ricorse all’imitazione francese, quasi tacita confessione che la nostra prosa classica era divenuta stantìa, e non rispondeva più alle nuove condizioni del nostro pensiero. Ben vi si provarono alcuni, e cito Antonio Genovesi, che filosofava in forma boccaccevole. Venne poi la reazione purista, e si tentò una restaurazione della prosa classica; e la soluzione del problema era in un cercato e non ottenuto innesto della prosa del trecento e di quella del cinquecento. Dalla prosa di Alfieri e di Foscolo a quella di Giordani è una curiosa storia di tentativi sui morti, voglio dire sui classici. Ora, a Leopardi, che aveva innanzi il tipo semplice e insieme elegante della prosa greca, parve che quei tentativi non approdassero. Ma anche lui si ostinò a lavorare sul morto, e non poteva altrimenti, chiuso come era e solitario in Recanati. E gli venne fatta una prosa, che per proprietà, per semplicità, per intima connessione è mirabile, ed è certo la miglior prosa di quel tempo, e in sé modello compiuto. Pure, non è difficile scoprire in questa prosa un certo artificio sotto a quella apparenza di naturalezza, qualcosa come fatto a studio e secondo norme prestabilite. E poi, ci si sente il morto, non so che stancante, mal corrispondente all’impazienza del nostro spirito moderno, alla velocità della nostra apprensione. I nostri classici vogliono tutto dimostrare e tutto descrivere; [p. 215 modifica]onde viene la necessità del periodo, che è quel voler circondare una proposizione di tutte le sue circostanze accessorie. Ora, questo difetto sostanziale è rimasto anche nella prosa leopardiana, dove spesso una premessa chiara è sviluppata con lungo e sottile discorso; e trovi non solo le cose, ma tutte le giunture e le particolarità delle cose. La qual minuta esposizione genera impazienza negli intelletti moderni, usi a veder chiaro e presto al solo apparire delle cose, massime a questi tempi del telegrafo e del vapore. A quel modo che i dialetti si mangiano le sillabe, e con ellissi e stroncature e sottintesi riescono più vivi e più rapidi della lingua materna, oggi il medesimo lavoro si fa nelle lingue, e si cerca rapidità e brio, e si viene subito a conclusione, e si mangia le premesse. È un progresso nel pensiero, che richiede uguale progresso nella espressione: e non ci è peggior cosa che trovar nella lingua processi e forme antiche, tenute inviolabili, che ci costringano e arrenino entro il pensiero. Oggi, grazie soprattutto alla libertà politica, nasce una prosa più spigliata, di una elasticità conforme alle infinite pieghe di un pensiero più sviluppato, e con la sua base nel vivo della lingua in uso. E Leopardi vi si accosta, quando, uscendo dai soliti andirivieni, condensa e scolpisce in prosa così felicemente come fa in verso.

Non è dunque meraviglia che queste prose, per rispetto e alle opinioni e alla maniera della esposizione, sieno rimaste senza alcuna azione sullo spirito italiano.

I Pensieri messi a stampa sono centundici. Altri se ne trovano nei manoscritti alla Nazionale di Firenze; altri molti si dicono smarriti.

Queste note, scritte in varii tempi ed in varie occasioni, non hanno un concetto unico, non un indirizzo chiaro nelle idee e nella espressione. Valgono a finire il ritratto del loro autore, dandoci le sue impressioni immediate e per dir così in veste da camera, che sono rivelazioni subitanee dell’animo.

Ma se le impressioni sono immediate, l’espressione è molto limata, e sembra che in varii tempi l’autore ci sia tornato sopra. Spesso vi si nota una precisione e una concisione, che pare naturalissima ed è frutto di molte cancellature. [p. 216 modifica]Alcuni di questi pensieri sono occasionali, derivati cioè da un fatto, che vien fuori mescolato con le sue impressioni. Fra gli altri è un modello di narrazione rapido ed efficace il quarto pensiero.

Altri sono riflessioni sopra studi fatti; i più sono osservazioni sulla natura umana, ispirate dalla varia esperienza della vita sociale, e ridotte a leggi, temperate da un «forse» o da uno «spesso», che allontana l’esagerazione e dà luogo alle eccezioni. Talora la legge ha uno scopo pratico e si trasforma in regola di vita. Tutto questi così come viene, senza un concetto e senza uno scopo predeterminato.

Nondimeno questi Pensieri, se non hanno un concetto ed uno scopo comune, hanno tutti la stessa fisonomia. È una vista oscura del mondo, un parto dell’umor nero. L’autore tende a cogliere nell’umanità il ridicolo o il vizio.

Questa guardatura di misantropo non è però accompagnata da odio, da disprezzo, da beffa. Leopardi non è odiatore degli uomini. Pure, l’impressione generale dovea esser questa. Ed egli cerca purgarsi dell’accusa, che oggi pesa ancora sul suo capo nella opinione di molti.

Se Leopardi avesse avuto vigore di odio o di disprezzo o genio comico, la sua vita sarebbe stata meno trista, perché tristezza è scarsezza di forze vitali. Nemico del genere umano non poteva essere. Avesse voluto, gliene mancava la forza. Sentiva anzi una certa benevolenza verso tutti, e specialmente verso la gioventù, alla quale indirizzò molti di questi pensieri nei suoi tardi anni. Piacevagli contemplare ivi quella immagine di letizia e quelle ingenue illusioni, che lamenta perdute. Né la sua solitudine è prova di misantropia, perché, com’egli nota, «veri misantropi non si trovano nella solitudine, ma nel mondo». E vuol dire che il cattivo concetto in cui ha gli uomini, nasce da persuasione filosofica e non da uso del mondo, che gli abbia ispirato disprezzo, odio, o simili passioni.

Ci è un punto che luce in mezzo a questo cielo oscuro. Ed è la gioventù, l’età delle illusioni, perciò della sincerità e della virtù, e insieme l’età della salute e della forza e della letizia, incontro alla quale la gravità del viso nella età virile gli pare [p. 217 modifica]tristezza. Disapprova l’educazione monastica che si suol dare ai giovani, qualificandola «un formale tradimento ordinato dalla debolezza contro la forza», e porge loro utili consigli, perché si premuniscano nei varii casi della vita.

Ma è luce fosca, la quale non dissipa l’oscurità del quadro, anzi la rileva. Perché la simpatia verso la gioventù non è qui che desiderio inconsolato di un bene poco goduto, e non riscalda lo spirito, non se lo tira appresso, anzi lo spirito tristo vi gitta entro le sue ombre. Perciò è luce soverchiata da tenebre.

Nella persuasione dello scrittore il mondo è tale, che i giovani anche ottimi debbono necessariamente divenire malvagi. Talete, domandato da Solone perché non si ammogliasse, poteva addurre valida e ragionevole scusa, dicendo «di non volere aumentare il numero dei malvagi». L’uomo è malvagio o ridicolo.

E questo afferma, non per esperienza singolare che abbia avuto dell’uomo, alieno com’era da umano consorzio, ma per istudio della natura umana. Loda Guicciardini appunto per questo studio, e non ammette che la malvagità nasca da cagioni politiche, sì che il mutamento di istituti politici valga ad emendarla, né gli pare che nasca da cagioni peculiari, che si possano rimuovere. L’uomo è fatto così per una irrimediabile necessità della sua natura.

Perciò qui non trovi nulla che si riferisca a casi singoli, politici o sociali, nulla che si riferisca alla sua persona, o a questa o a quella nazione. Lo stesso destino pesa sopra tutto, e le particolarità non hanno importanza. Ben ci è qualche allusione, come alla tutela paterna, o al secolo, che «presume di rifar tutto, perché nulla sa fare», ma in forma generalissima e impersonale. Si direbbe quasi che egli cacci da sé qualsiasi moto di passione o di sentimento personale, per essere non altro che voce di fato. La placidità impassibile dell’esposizione, in materia così commovente, ha un certo senso ironico, quasi di scherno. L’ironia verso gli uomini e anche verso la natura non è tanto in qualche epiteto, quanto nello spirito occulto e satanico, che anima il pensiero, e oscura e imbruttisce la faccia dello scrittore. [p. 218 modifica]Sicché, a dir cose così poco gradite, non gli basta la crudeltà di una espressione netta e frigida, ma l’aguzza per modo che sia come uno strale fitto nella carne. Non è già ch’egli lo faccia con questa intenzione; quel suo aguzzare il pensiero è in lui studio di artista e non compiacenza di misantropo; ma questo è l’effetto che produce. Va diritto e sereno nel discorso, come si trattasse di cosa indifferente all’umanità; poi ti condensa tutto in una frase inaspettata, che ti penetra come una spada.

Si può dire che l’interesse è appunto in queste frasi ultime abbreviative, che ti restano nella mente, come l’ultima pennellata che dà la vita ad un quadro. Ti straziano; pure non le puoi allontanare da te, e resti con ammirazione, perché spesso la novità non è nel pensiero, ma nel dirlo a quel modo.

Le cose da lui notate spesso ci son corse avanti gli occhi e non ci son parse degne di nota. Pure, in quella forma ci sembrano nuove. E non è già una forma aguzzata artificiosamente per fare effetto, perché nessuno cerca così poco l’effetto come Leopardi. Le cose più ordinarie acquistano novità, quando il punto di vista sia nuovo. E ciò che qui interessa non è la cosa, ma il punto di vista o la guardatura visibile nella forma.

La celebrazione degli anniversarii, quel voler leggere altrui i componimenti proprii, e non saper parlare di altro che di sé, quel poco conto in cui si ha la semplicità dei modi, quel parlare in una maniera e operare in un’altra: o chi queste cose e simili non se le ha viste innanzi le cento volte? Sono fonti comuni di ridicolo, materia di ritratti o di bozzetti. Ma qui la materia si rinnova sotto una nuova guardatura. È appunto questo mutamento di guardatura, che apparisce nella frase condensata leopardiana.

Talora la novità è nell’immagine, com’è quel fiorentino che, strascinando a modo di bestia da tiro un carro, gridava con alterigia alle persone di dar luogo. Il più spesso è nella virtù de’ contrasti o delle somiglianze, com’è quest’ultima frase di un pensiero: «Gli uomini sono miseri per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente»; ovvero quest’altra: «Nessun [p. 219 modifica]maggior segno d’essere poco filosofo e poco savio, che volere savia e filosofica tutta la vita».

I Detti memorabili di Filippo Ottonieri sono pensieri dello scrittore messi in bocca a Filippo, nel quale ha voluto coprire sé stesso. Questi sembrano scritti in continuazione, perciò sono uguali di tono e di colorito. Vi si nota qua e là uno stile più animato e un umore meno increscioso che non è ne’ Pensieri. La rappresentazione di Socrate, dove è manifesta l’allusione a sé stesso, è uno de’ tratti più felici.

Molti di questi Detti sembrano pensieri occorsi all’autore nella lettura di classici greci e latini; altri sono ragionamenti a sostegno delle sue tesi favorite, come: che le azioni umane sono trastulli, e che i piaceri nascono da false immaginazioni, e che i peggiori momenti della vita sono quelli del piacere. Trovi anche qui novità d’immagini, e un lavoro spesso felice di condensamento, come: «I fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto».

Pensieri e Detti furono scritti ad occhi asciutti, ma che portavano segno di avere versate molte lacrime. Sembra che l’autore si vergogni di piangere, o non ne abbia più la forza, o abbia fatto il callo e l’uso al dolore, e dice cosa talora tenerissima tranquillamente, quasi il cuore si sia cristallizzato. Nel principio del capitolo terzo narra di una disavventura, con chiara allusione a qualche suo caso particolare. Narra di una donna amata, morta a poco a poco, e prima trasformata che morta:

«In modo che tutti gl’inganni dell’amore ti sono strappati violentemente dall’animo; e quando ella poi ti si parte per sempre dalla presenza, quell’immagine prima, che tu avevi di lei nel pensiero, si trova essere scancellata dalla nuova.»

Il racconto ha una efficacia e una precisione, che non t’intenerisce, anzi ti fa male perché il tono è asciutto. E ci vuole molta finezza di fibra per sentire la lacrima sotto a quell’aridità. Gli è un uomo disilluso, stanco di vivere, con apparenza di [p. 220 modifica]tranquilla rassegnazione, accompagnata dalla coscienza di sé e dallo strazio interno. Tale si rivela nella bellissima epigrafe, che è conclusione e spiegazione de’ Pensieri e de’ Detti:

OSSA

DI FILIPPO OTTONIERI

NATO ALLE OPERE VIRTUOSE

E ALLA GLORIA

VISSUTO OZIOSO E DISUTILE

E MORTO SENZA FAMA

NON IGNARO DELLA NATURA

NÉ DELLA FORTUNA

SUA


Se questa catastrofe di un’anima consapevole fosse meglio sottolineata in tanta rigidità di esposizione, prenderemmo interesse vivissimo a questi Pensieri e Detti. Ma l’autore vi seppellisce sotto sé stesso in modo che poco o nulla traspaia. La sua prosa è una profonda superficie di neve, che cancella ogni varietà del terreno, e dà a tutto un colore monotono e sonnolento. Ben trovi qualche intaccatura, qualche rivelazione subitanea, la quale ti giunge fredda e trista, perché ti giunge a traverso un piglio ironico.

Perciò qui non è altro interesse che delle cose in sé stesse, le quali variamente ti allettano, ora per l’importanza delle osservazioni, ora per la felicità dell’esposizione. Ma è un interesse disuguale, e direi quasi scucito e a balzi, che non può impedire una certa freddezza e sazietà, che ti viene dall’insieme.