Gli amanti timidi/Atto III

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Atto III

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Atto II Nota storica

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Arlecchino portando le robe sue per metterle nel baule.

Corpo del diavolo! No la pol esser altro che cussì. Penso, repenso; el mio ritratto ghe giera. In fumo nol poi esser andà. Carlotto no lo pol aver tegnù per elo. Certo, seguro Camilla l’ha tolto. Camilla me l’ha scambià... ma se la lo voleva, perchè refudarlo? Poi esser che la l’abbia fatto per modestia, per suggizion1. Ma cossa ghe ne vorla far? Tor el ritratto e no dir gnente all’original, per cossa? No credo gnente. E chi me segura che Carlotto m’abbia dà el mio, o quello del mio patron? Se almanco podesse parlar a Carlotto! Son sempre più confuso, stordio. Cossa ghe xe vegnù in testa a quel lavador [p. 48 modifica] de2 pennelli de far el mio ritratto per farme deventar matto? No m’importa de aver perso el ritratto; perchè averlo, o no averlo, per mi xe l’istesso. M’importa de saver, come e dove el xe andà3: averò guarda sessanta volte in ste maledette scarselle. (torna a guardarsi in saccoccia) Me par ancora impussibile... Orsù, no ghe voi più pensar, perchè le xe cosse da dar volta al cervello.

SCENA II.

Il Servitore ed il suddetto.

Servitore. Signor Arlecchino, ecco una lettera ed una scatola che viene a voi.

Arlecchino. A mi?

Servitore. Sì, a voi.

Arlecchino. Sarà per el mio patron.

Servitore. No, la lettera è diretta a voi.

Arlecchino. Mi non aspetto lettere da nissun. Ghe xe anca una scatola!

Servitore. Eccola qui. Una scatola col vostro nome. Al Signor Arlecchino Battocchio.

Arlecchino. Da dove vienla?

Servitore. L’ha portata un facchino.

Arlecchino. Ah! no la vien dalla Posta?

Servitore. Non credo. L’ha portata un facchino.

Arlecchino. Dove xelo sto facchin?

Servitore. È andato via subito. Mi ha dato la lettera e la scatola da consegnarvi, ed è subito andato via.

Arlecchino. Che ghe sia in Bologna qualche altro Arlecchin Battocchio?

Servitore. Io non so perchè facciate tante difficoltà. Osservate se la lettera viene a voi: Al Signor, Signor mio riveritissimo il Signor Arlecchino Battocchio, presso il Signor Roberto suo [p. 49 modifica] Padrone, in casa del Signor Anselmo, vicino alla Torre degli Asinelli. Bologna. Con una scatola al suo nome. Siete voi, o non siete voi?

Arlecchino. No so cossa dir. Son mi.

Servitore. Sia ringraziato il cielo, che siete voi. Tenete.

Arlecchino. Ave dà gnente al facchin?

Servitore. Niente.

Arlecchino. Ve ringrazio dell’incomodo.

Servitore. Non è niente portare una lettera ed una scatola, non è niente; ma mi avete fatto sudare a persuadervi che viene a voi. (parte)

SCENA III.

Arlecchino solo.

Chi mai me pol scriver sta lettera? Chi scrive, probabilmente no sa la mia disgrazia; no sa che cussì grando e grosso come che son, no so nè lezer, nè scriver. Sia maledetto! Se almanco fusse qua el mio patron, lo pregheria... Ma za che no posso lezer la lettera, vedemo cossa che ghe xe in te la scatola. La xe ben serrada e ben sigillada. (tira fuori una forbice, e poi si ferma) Ma la poderave esser una scatola da portar a Roma. E per questo? In ogni forma xe giusto che sappia cossa che ghe xe drento. (taglia lo spago) Qualchedun sa che vago a Roma, e me manda a pregar... no pol esser altro... la sarà cussì. (apre la scatola) Com’èla? (trova il ritratto, e lo apre) Oh bella! El mio ritratto! Oh questa xe curiosa! Da galantomo el xe andà in ziro, e el4 xe tornà in t’una scatola; e un facchin me l’ha portà: che’l sia el diavolo? Oh el diavolo no se saria servio de un facchin. Tutto el secreto sarà in sta lettera. Se savesse lezer! Maledetta la mia fatalità! (getta via la scatola e il legno, e mette il ritratto in saccoccia) Ho una curiosità, ho una smania, che me sento brusar, che me sento [p. 50 modifica] morir; e la sera se avicina5 e el6 patron tornerà in furie. Vegnirà i cavalli, e bisognerà andar via.

SCENA IV.

Carlotto ed il suddetto.

Carlotto. Vengo a dirvi per parte del vostro padrone...

Arlecchino. A proposito. Ve recordeu del ritratto che gh’avevi in man, e che m’avè dà?

Carlotto. Sicuro che me ne ricordo.

Arlecchino. Che ritratto gierelo?

Carlotto. Il vostro ritratto.

Arlecchino. El mio? Certo, certo el mio?

Carlotto. Il vostro sicuramente, il vostro. È ben facile a conoscere il vostro ritratto.

Arlecchino. (Ah! la xe cussì senz’altro. Camilla l’ha tolto, Camilla l’ha avudo ella. Chi sa? Spero ben). (da sè) E cussì dove xelo el mio patron? (a Carlotto)

Carlotto. L’ho incontrato per istrada vicino alla posta de’ cavalli, e mi ha pregato di dirvi, che teniate tutto pronto, perchè da qui a un’ora al più vuol montare in sedia.

Arlecchino. (Ah! pazienza). (da sè) Che ’l vegna co ’l vol; la roba xe all’ordene. (afflitto)

Carlotto. Mi pare che siate assai melanconico.

Arlecchino. Sior sì, gh’ho qualcossa per la testa.

Carlotto. Via, almeno negli ultimi momenti che siete per partire, prevaletevi di un buon amico. Ditemi, se avete qualche premura. Datemi qualche commissione; vi servirò di buon cuore.

Arlecchino. (Se podesse fidarme de costù!) (con allegria affettata)

Carlotto. Ho poca fortuna con voi. Vi sono amico, e non lo credete. (Vo’ veder se posso tirarlo giù). (da sè)

Arlecchino. (Ma o de lu, o de un altro, bisogna ben che me fida de qualchedun). (da sè)[p. 51 modifica]

Carlotto. Se avete qualche impegno, qualche interesse, qualche amoretto... siamo uomini alfine. Confidatevi, e non dubitate.

Arlecchino. (El mal xe, che me vergogno de far saver che no so lezer). (da sè)

Carlotto. Capisco dalla vostra confusione, dal vostro silenzio, che siete imbarazzato, dubbioso. Voi mi fate un gran torto, se non vi fidate di me. È segno manifesto che non mi siete amico.

Arlecchino. Sior sì, me fido de vu, son vostro amigo, e per darve una prova della mia amicizia, tolè, lezè sta lettera. (gliela dà)

Carlotto. Questa lettera viene a voi. (osservando la soprascritta)

Arlecchino. La vien a mi.

Carlotto. E non l’avete nemmeno disigillata?

Arlecchino. No, ve la confido tal e qual come che l’ho ricevuda.

Carlotto. Sapete che cosa contenga?

Arlecchino. Mi no so gnente.

Carlotto. E volete ch’io la legga prima di voi?

Arlecchino. Sì, perchè se ghe fusse qualche cattiva nova per mi, me ne dire el7 contenuto in succinto.

Carlotto. (Ci scommetto che non sa leggere). (da sè)

Arlecchino. (Se podesse scansar la vergogna). (da sè)

Carlotto. Eccola aperta. (apre la lettera)

Arlecchino. Chi la scrive?

Carlotto. Non vi è alcuna sottoscrizione.

Arlecchino. Ma pur?

Carlotto. Tenete. Voi capirete dal contesto della lettera... (gli vuol dar la lettera)

Arlecchino. No; feme sto servizio, lezèla vu.

Carlotto. Ci potrebbe essere qualche cosa, che non vi convenisse di far sapere; tenete.

Arlecchino. Gh’ho la testa confusa. Gh’ho mal ai occhi. Favorime de lezer vu.

Carlotto. (Ho capito. Non sa leggere, e si vergogna). (da sè) [p. 52 modifica]

Arlecchino. Via, diseme quel che la contien.

Carlotto. Aspettate. Il carattere è un poco difficile da rilevare. (Corpo del diavolo! Conosco la mano; questa è una lettera di Camilla). (da sè, fremendo)

Arlecchino. Me despiaseria che no savessi lezer. (a Carlotto)

Carlotto. Datemi tempo, e la leggerò. È una donna che scrive. (ad Arlecchino)

Arlecchino. Una donna? (con premura)

Carlotto. Sì, parla di ritratto... dice che vi rimanda il vostro ritratto. L’avete dato a qualcheduna il vostro ritratto?

Arlecchino. Mi no; cossa disela? cossa disela? Disème le precise parole.

Carlotto. Aspettate, perchè il carattere è sì difficile... qui ci si vede poco... bisogna ch’io mi approssimi alla finestra. (si tira da una parte)

Arlecchino. (Chi mai poi esser sta donna che me scrive? Camilla? Chi sa? Se poderave anche dar. Son curiosissimo de saver... e no so lezer! E bisogna che me fida!) (da sè)

Carlotto. Capitatomi nelle mani per accidente il vostro ritratto, ve lo rimando, perchè mi credo indegna di possederlo. (legge da sè piano, che Arlecchino non capisca; ma in maniera che il popolo senta) (Sì, è Camilla che scrive. Non si crede degna di possederlo? Sentiamo il resto). (da sè)

Arlecchino. E ben, cossa dìsela?

Carlotto. Ho rilevato il primo periodo. Ecco cosa dice: Signore, capitatomi nelle mani il vostro ritratto, ve lo rimando, perchè non saprei cosa farne. (ad Arlecchino, cambiando il senso della lettera)

Arlecchino. Cussì la dise? (mortificato)

Carlotto. (Torna a ritirarsi in disparte.)

Arlecchino. (Oh questa è bella! Se no la sa cossa far del mio ritratto, ghe giera bisogno che la me scrivesse una lettera per strapazzarme?) (da sè)

Carlotto. Confesso che la leggiadria del ritratto potrebbe farmi accendere dell’originale. (legge, come sopra) (Bravissima! Ora capisco tutto). (da sè)

Arlecchino. E cussì; gh’è altro? [p. 53 modifica]

Carlotto. Datemi tempo. Il carattere è indiavolato, cattivo, indegno. (fremendo per altra ragione; poi legge piano)

Arlecchino. (Qualcheduna che se tol spasso de mi. Pazienza! Camilla no credo mai. Voggio ben ch’ella no la ghe pensa de mi; ma no la credo capace de maltrattarme cussì). (da sè)

Carlotto. (Ecco tutto il segreto. Lo ama, e non lo vuol dire. Ecco le belle parole, i bei sentimenti. (da sè, legge) Siate sicuro, che vi amerà sempre la vostra fedele, ma sfortunata Incognita. Oh! Signora incognita, voglio accomodarvi io come va). (da sè)

Arlecchino. Aveu gnancora capìo, aveu gnancora fenìo?

Carlotto. Sì, ho letto tutto, ho capito tutto. (inquieto)

Arlecchino. E cussì, cossa dìsela?

Carlotto. Vi amo troppo per dirvi in faccia il contenuto di questa lettera.

Arlecchino. N’importa; disè quel che la dise. Vu no ghe n’avè colpa.

Carlotto. È una donna che scrive; ma una donna superba, incivile, che meriterebbe di essere mortificata, e mi fa rabbia, e mi si scalda il sangue per causa vostra.

Arlecchino. Cossa mai porla dir?

Carlotto. E mi par di conoscerla; e ci scommetto la testa ch’è quella che dico io.

Arlecchino. Chi credeu che la sia?

Carlotto. A chi avete dato il vostro ritratto?

Arlecchino. A nissun.

Carlotto. Ma se ora ve lo rimandano, qualcheduno l’ha avuto.

Arlecchino. Ve dirò. L’ha avudo in te le man Camilla; ma non credo mai...

Carlotto. Ah sì, l’orgogliosa, la superba! Che si burla di tutti, che sprezza tutti: pretende che tutti l’adorino; e odia quelli che non sanno spasimare per lei. Dite la verità: le avete fatto la corte? L’avete lodata, esaltata? Vi siete dichiarato ammirator del suo merito, incantato delle sue bellezze, spasimante dell’amor suo? [p. 54 modifica]

Arlecchino. Mai nissuna de ste cosse.

Carlotto. Ora capisco da che procede la sua animosità; intendo ora il fondamento di questa lettera indegna.

Arlecchino. Indegna?

Carlotto. Ha fatto lo stesso con me. Pretendeva ch’io la servissi, ch’io l’adorassi. Ha veduto ch’io non mi curava di lei; mi ha perseguitato alla morte.

Arlecchino. Camilla?

Carlotto. La signora Camilla.

Arlecchino. Ma cossa disela in quella lettera?

Carlotto. Dispensatemi...

Arlecchino. No; ve prego, disème.

Carlotto. Sentite le belle cose che dice... Già avete inteso che vi rimanda il ritratto, perchè non sa cosa farne.

Arlecchino. Ho capìo.

Carlotto. Seguita dicendo: (finge di leggere) Vi consiglio di darlo a chi fa galleria di cose ridicole...

Arlecchino. El mio ritratto?

Carlotto. Il vostro ritratto. (seguita a fingere di leggere) Io ne faccio quella stima che faccio dell’originale...

Arlecchino. Dell’original!

Carlotto. Ecco qui. De-l’o-ri-gi-na-le. (compitando)

Arlecchino. Capisso benissimo.

Carlotto. Sentite. (come sopra) E se mai aveste la pazzia di credere ch’io avessi della stima e dell’amore per voi, siate sicuro che si burlerà sempre di Voi l’Incognita che vi scrive.

Arlecchino. Cussì la dise? (agitato)

Carlotto. Leggete. (gli offre la lettera. Arlecchino vorrebbe prenderla, e Carlotto con arte la ritira, come se fosse in collera per amor di Arlecchino) Cospetto! Si può scrivere una lettera più indegna, più temeraria di questa?

Arlecchino. E credeu che sia Camilla, che l’abbia scritta?

Carlotto. Non lo so di certo; ma ci giocherei quanto ho al mondo. E poi ella ha avuto il vostro ritratto nelle mani, e non può venir che da lei. [p. 55 modifica]

Arlecchino. Ghe l’ho esibìo, e no la l’ha volesto8.

Carlotto. Perch’è superba.

Arlecchino. E la me scrive ste impertinenze?

Carlotto. Perch’è prosontuosa.

Arlecchino. Deme quella lettera. (rissoluto)

Carlotto. Cosa volete farne?

Arlecchino. Avanti che vaga via, avanti che vegna a casa el patron, ho ancora tempo de veder ste impertinenze, e de buttarghe in fazza sta lettera stomegosa.

Carlotto. E un uomo come voi, darebbe in simile debolezza? Non sapete voi che colle donne si ha sempre torto? Non prevedete ch’ella negherà di averla scritta; e che un uomo per offeso che sia, non può gettar una lettera in faccia di una donna, benchè lo meriti?

Arlecchino. Xe vero; ma podere almanco mortificarla...

Carlotto. Eh! via, usate in questo caso la prudenza, e la non curanza. Questa sorta di lettere si disprezzano, si scordano, e per non ricordarsene più, si fa così, si stracciano... (comincia a stracciare)

Arlecchino. No, fermève. (vuol trattenerlo)

Carlotto. Si fanno in pezzi. (seguita)

Arlecchino. Ma no, ve digo...

Carlotto. Si mandano al diavolo, e si sbandiscono dalla memoria. (finisce di stracciare, e getta i pezzi per terra)

Arlecchino. Ma per cossa seu cussì infurià?

Carlotto. Perchè? Per l’amicizia che ho per voi; per l’ira che ho contro simili soverchierie;9 perchè mi spiacerebbe vedervi esposto a novelli insulti, e per insegnarvi come si trattano le lettere di questa specie. Amico, l’avete voluto; vi ho servito secondo la mia intenzione. (parte) [p. 56 modifica]

SCENA V.

Arlecchino solo.

Gran amor, gran amicizia ch’el gh’ha per mi! Mi non l’avaria mai credest0. Me10 par però ch’el sia scaldà un poco troppo, e ch’el me podeva dar la mia lettera... ma no; l’ha fatto ben. Che utile ghe n’averavio cavà, se l’avesse fatta veder a Camilla? O che l’averia negà, o che l’averave ridesto de mi. Ma podeva tegnirla... e per cossa? Per farla lezer a qualcun altro, e un’altra volta rabbiarme11 e renderme un’altra volta ridicolo? Pazienza. Dise ben el proverbio: No te conosso, se no te pratico. Chi mai averia credesto quella zovene cussì modesta12 in apparenza, cussì bona, cussì cortese... Eh! certo, certo l’ha recusà el ritratto per superbia, e po la me l’ha tolto per malignità. Ecco qua la causa del mio deliro, dei mi affani, dei mi malani. (tira fuori di tasca il ritratto) No lo voggio più; ch’el vaga al diavolo; lo butterò... Sì, lo butterò in t’un pozzo, (agitando la mano colla quale tiene il ritratto, sente dentro muoversi qualche cosa, e per assicurarsi lo accosta all’orecchio, e lo scuote) Coss’è sto negozio? (torna a scuotere) Anca sì, che per farme despetto la l’ha anca rotto? No gh’ho abadà... Vedemo. (apre) No, el ritratto xe intiero. (scuote) Ghe xe qualcossa sotto l’avorio. (leva la figura) Oè!13 bezzi. Sie zecchini! La me manda el ritratto, perchè no la sa cossa farghene; la me dise in te la lettera centomile insolenze, e la me dona dei bezzi? Ste do cosse no le se accorda. Ho paura che Carlotto m’abbia ingannà; che savendo la mia ignoranza el m’abbia burlà, o per malignità, o fursi fursi per zelosia de Camilla. Chi sa che nol sia innamora de ella? Camilla lo merita, el xe servitor de casa; ma che allocco che son! A sta cossa no gh’ho mai pensa, e ’l doveva preveder, e ghe doveva pensar assolutamente; costù m’ha fatto la baronada. [p. 57 modifica] Se podesse... sti pezzi de carta... se i se podesse unir!... Li faria lezer a qualcun altro. Vedemo un poco, se se podesse vegnir in chiaro, (va raccogliendo i pezzi di cada che sono sparsi qua e là per la scena.)

SCENA VI.

Anselmo ed il suddetto.

Anselmo. Dov’è il vostro padrone?

Arlecchino. No so gnente. (raccogliendo i pezzi)

Anselmo. Andate a vedere, se fosse nell’altra camera.

Arlecchino. El xe fora de casa. (raccogliendo)

Anselmo. Quando torna, mi preme parlargli. (cammina, e monta sopra i pezzi.)

Arlecchino. La prego. (impedisce che non calpesti i pezzi di carta)

Anselmo. Subito che viene, ditegli che favorisca venir da me. (cammina sopra i pezzi di carta)

Arlecchino. La supplico... (lo trattiene come sopra)

Anselmo. Ma che diavolo avete? Non mi abbadate? (dà una gran camminata sopra i pezzi di carta)

Arlecchino. Ma la se ferma per carità. (gridando forte)

Anselmo. Che cosa raccogliete?

Arlecchino. Ho bisogno de sti pezzi de carta. (raccoglie)

Anselmo. Via spicciatevi, e poi ascoltatemi, (si ritira un poco; ma ha un pezzo di carta attaccato ad una scarpa.)

Arlecchino. Con so permission.

Anselmo. Cosa c’è?

Arlecchino. Quel pezzo...

Anselmo. Qual pezzo?

Arlecchino. Sotto la so scarpa.

Anselmo. Sotto la scarpa? (striscia il piede)

Arlecchino. Ma no la me l’insporca, no la me lo ruvina14 (gli fa levar il piede pian piano, e raccoglie il pezzo) [p. 58 modifica]

Anselmo. (Uh che sofferenza è la mia!) (da sè) Quando viene il vostro padrone, ditegli che non sia in collera meco, che voglio che siamo buoni amici.

Arlecchino. Sior sì. (ha tutti ì pezzi dì carta in una mano; e tiene la mano aperta.)

Anselmo. Ditegli che so tutto, che mia figlia mi ha confidato ogni cosa, e che se suo zio è contento...

Arlecchino. Vorria pregarla de una grazia.

Anselmo. E di che?

Arlecchino. Che la me disesse, se se pol unir sti pezzi de carta, e lezer una lettera che s’ha strazza...

Anselmo. Eh giuro a Bacco Baccone! (dà colla sua mano sotto la mano di Arlecchino, e tutti i pezzi tornano a cader per terra.) Li calpesta irato, e parte.

SCENA VII.

Arlecchino solo.

Oh vecchio del diavolo! Se pol dar? Tanta fadiga che ho fatto, e tutta la fattura è buttada via. Pazenzia!15 Ecco qua i pezzi de carta calpestai, malmenai: ghe ne xe ancora però qualchedun, che sarave ancora lezibile. Se se podesse rilevar qualcossa, che mettesse in chiaro la bricconeria de Carlotto... Vedemo un poco16 za che gh’ho un momento de tempo. (raccoglie qualche pezzo di carta)

SCENA VIII.

Camilla ed il suddetto.

Camilla. (Ah! i cavalli sono alla porta; Adecchino or ora se n’anderà. Povera me! Non lo vedrò più. Eccolo; ma che fa? che raccoglie?) (da se)

Arlecchino. Ah Camilla, Camilla! (da sè forte, senza vederla)

Camilla. Signore, mi chiamate? (corre avanti) [p. 59 modifica]

Arlecchino. Oh! (resta sorpreso e confuso) la perdona.

Camilla. Vi occorre qualche cosa? (confusa)

Arlecchino. Gnente.

Camilla. Mi ha parso che abbiate pronunciato il mio nome.

Arlecchino. Può esser, perchè el xe17 un bel nome.

Camilla. (Eppure mi lusingo ancora, che s’io mi spiegassi... ma è tardi, non è più tempo). (da sè)

Arlecchino. (Xe impussibile che la sia capace de aver scritto una lettera cussì cattiva... ma se non fusse cussì18, Carlotto saria un gran galiotto). (raccoglie un altro pezzo di carta)

Camilla. E che cosa raccogliete di terra?

Arlecchino. I avanzi de certa lettera.

Camilla. Di una lettera? E di chi era questa lettera?

Arlecchino. No so chi l’abbia scritta; ma so che la vegniva a mi.

Camilla. Era una lettera di qualche donna? (agitata)

Arlecchino. Siora sì, de una donna.

Camilla. Di una donna! (prende un pezzetto di terra) (Ah! sì, è la mia lettera, la conosco). (da sè) Fate dunque sì poco conto delle finezze e delle lettere delle donne? Le stracciate, le disprezzate, le calpestate in tal modo? (sdegnata)

Arlecchino. No son sta mi veramente che l’ha strazzada.

Camilla. E chi dunque?

Arlecchino. Un mio amigo... (ironico)

Camilla. E voi avete la debolezza di confidare agli amici le cose vostre? Di confidare una lettera di una donna? Siete un indiscreto, un imprudente; non conoscete i favori, e mostrate non meritarli. (con caldo)

Arlecchino. Siora Camilla, ve scaldè tanto per sta lettera... Disème per grazia, per finezza: saressi vu quella che l’ha scritta?

Camilla. Io?... no, non l’ho scritta io sicuramente... no, non l’ho scritta io.

Arlecchino. Ma per cossa dunque ve scaldeu in sta maniera?

Camilla. Perchè so chi l’ha scritta; perchè conosco la giovane [p. 60 modifica] che ha della stima e dell’amore per voi, perch’ella è mia amica, e mi riscaldo e vi rimprovero per parte sua.

Arlecchino. Cara siora Camilla, ve domando perdon, permettème de dirve che sta vostra amiga xe un pochettin stravagante. La me manda el mio ritratto... Ma prima de tutto, come sta vostra amiga ala podesto aver el mio ritratto in te le so man?

Camilla. Non lo so; non me l’ha detto, e non gliel’ho domandato. (Ho paura di confondermi e di scoprirmi). (da sè)

Arlecchino. (Capisso a poco presso; ma vorria saver, se ’l xe amor, bizzaria, o desprezzo). (da sè) E cussì, come che ve diseva, sta vostra amiga la me manda el ritratto, e la dise per no saver cossa farghene.

Camilla. Per non saper cosa farne? La mia amica m’ha detto che voleva rimandare il vostro ritratto, perchè non si credeva degna di possederlo.

Arlecchino. Sia in t’una maniera, o in t’un’altra, l’espression xe un poco più modesta; ma la vol dir squasi l’istesso. Quel che me fa maraveggiar, xe questo: la me manda el mio ritratto, la fa la generosità de metterghe sotto sie zecchini, e pò l’accompagna el regalo con una lettera piena de desprezzi e de villanie?

Camilla. Come questa lettera conteneva ingiurie e disprezzi?

Arlecchino. Siora sì, e me recordo che la feniva cussì: Siate sicuro che si burla e si burlerà di voi l’Incognita che vi scrive. (con forza)

Camilla. Come, come! Io ho veduto la lettera, io l’ho letta; vediamo se si può raccapezzar qualche cosa. Questo pezzo è del fine; ma non è intiero. Lasciate vedere. (si fa dare i pezzi che Arlecchino ha in mano) Eccolo, eccolo l’altro pezzo. Ecco qui cosa dice: Siate sicuro, che vi ama e che vi amerà sempre l’Incognita che vi scrive. Ah! che ne dite? Sono falsità, sono imposture le vostre? Vergognatevi della più nera ingratitudine di questo mondo.

Arlecchino. Siora Camilla, vu ave scritto cussì? (con affanno)

Camilla. Io? l’amica. [p. 61 modifica]

Arlecchino. Veggio dir... l’amiga ha scritto cussì? (con affanno)

Camilla. Questi sono i suoi caratteri e i suoi sentimenti.

Arlecchino. Ah indegno! Ah baron de Carlotto!

Camilla. Cosa c’entra Carlotto?

Arlecchino. Ve dirò... Sappiè che mi so poco lezer le carte scritte. Ho pregà Carlotto, e quel furbo m’averà letto la lettera a modo suo.

Camilla. Come! Avete dato a leggere quella lettera a Carlotto? A Carlotto? Ma che testa! Che giudizio! Ma che imprudenza! A Carlotto che può essere vostro nemico? A Carlotto che può essere vostro rivale?

Arlecchino. Mio rival Carlotto? Ah! sì; l’ho sospettà anca mi un poco19 tardi. Sì; ho sospettà che Carlotto fusse innamorà de vu...

Camilla. Di me! Di me! Cosa c’entro io? Carlotto conosce l’amica mia; e potrebbe essere innamorato di lei. (con un poco di trasporto)

Arlecchino. Ma se sta vostra amiga, se sta vostra amiga20 ha tanta bontà per mi, anderò via da Bologna senza conosserla?

Camilla. Siete vicino a dover partire, ed è superfluo che ci pensiate.

Arlecchino. E perchè mai in quattro mesi che son qua, sta vostra amiga non m’ala mai dà un qualche segno d’amor, de bontà, de compatimento?

Camilla. Oh! signor mio, una giovane savia, onesta e dabbene non deve esser la prima. Mi ha detto la mia amica che toccava a voi a dimostrarle qualche parzialità, qualche inclinazione.

Arlecchino. Xe vero; ma son timido de natura, e no gh’ho coraggio. Son sta cento volte sul ponto de dichiararme, e la vergogna m’ha trattegnù.

Camilla. Dal modo vostro di parlare, pare che la conosciate questa giovane che vi ama.

Arlecchino. Sì, me par de conosserla; credo de no m’ingannar. (pateticamente, e con lazzo) (1) (2) [p. 62 modifica]

SCENA IX.

Federico in abito da viaggio, e detti.

Federico. Ben trovato, Arlecchino.

Arlecchino. Bon zorno, Federigo, ben tornado. Vegnìu da Roma? (con premura)

Federico. Sì, vengo da Roma.

Arlecchino. Cossa fa el barba del nostro patron?

Federico. Il zio del padrone è morto.

Camilla. È morto il zio del signor Roberto? (a Federico)

Federico. È morto, ed ha lasciato il nipote erede di tutto il suo.

Arlecchino. S’alo recordà de mi? (a Federico)

Federico. Sì, di voi, e di me:21 mille scudi per ciascheduno.

Arlecchino. No vago più a Roma. (a Camilla con un poco di gioia)

Camilla. (Lo volesse il cielo!) (da sè)

Arlecchino. Lo salo el patron? (a Federico)

Federico. Lo sa; l’ho trovato alla Posta, gliel’ho detto, e siamo venuti qua insieme.

Arlecchino. Vodo più andar via?

Federico. A quel che dice, andrà a vedere gl’interessi suoi; ma non partirà così presto.

Arlecchino. Allegramente. Dov’èlo el patron? (a Federico)

Federico. È in camera del signor Anselmo. Credo che vi sia qualche altra cosa di nuovo.

Arlecchino. Disè, disè...

Federico. Non posso trattenermi. Il padrone mi aspetta; son venuto a vedervi. Addio. (parte)

SCENA X.

Arlecchino e Camilla.

Arlecchino. Bone nove per mi. (a Camilla)

Camilla. (E per me ancora, se potessi sormontare questa indegna timidità). (da sè) [p. 63 modifica]

Arlecchino. No la me dise gnente? Crédala che la so amiga sarà contenta, che no vaga via?

Camilla. Crederei di sì.

Arlecchino. Mo cara! mo benedetta quella so amiga! (allegro)

Camilla. Ma se non partite oggi, partirete da qui a pochi giorni. La consolazione dell’amica non durerà lungo tempo.

Arlecchino. Ma intanto se poderia...

Camilla. Giacchè presto o tardi dovrete partire, lasciate almeno una memoria di voi alla mia cara amica.

Arlecchino. Lo faria volentiera; ma no saveria cossa darghe, che la podesse gradir.

Camilla. Lasciatele il vostro ritratto. Datelo a me, che lo darò all’amica.

Arlecchino. Ma se l’amìga no la lo vol, se la me l’ha mandà indrio?

Camilla. Vi dirò: ella è assai delicata. Non ha voluto ritenere un ritratto che aveva avuto per accidente; ma so che lo riceverà volentieri dalle vostre mani.

Arlecchino. Se la xe cussì, velo qua. (tira fuori il ritratto) Tolè, deghe el mio ritratto,22 e assicurèla de tutto l’amor dell’original.

Camilla. L’amate senza conoscerla?

Arlecchino. Ah! me par de conosserla. (con tenerezza) Credo de no m’ingannar. (guardandola con passione) Diseghe a sta cara amiga, diseghe che l’amo con tutto el cuor.

Camilla. Ed io vi assicuro, che io... che ella... che l’amica... (Non posso più). (da sè)

Arlecchino. Per pietà, per compassion, no me tegnì più in pena, ve supplico, ve sconzuro. Disème la verità: vu se quella, vu se l’amiga.

Camilla. No, no, non sono io. (con estrema passione)

Arlecchino. Ma sì, per pietà, per compassion. (si getta in ginocchio)

Camilla. No, l’amante... l’amica... Vien gente. (con timore)

Arlecchino. Poveretto mi. (balza in piedi) [p. 64 modifica]

SCENA ULTIMA.

Roberto, Dorotea, Anselmo, Carlotto, ed i suddetti.

Roberto. La morte del mio povero zio mi rende padron23 di me stesso, e mi procura l’onore e la felicità di offerirvi la mano ed il cuore. (a Dorotea)

Dorotea. Poichè mio padre il consente, mi abbandono alla più tenera inclinazione.

Anselmo. Ci ho gusto, giuro a Bacco, a Baccone,24 ci ho gusto.

Arlecchino. Me rallegro col mio patron.

Roberto. Il povero zio è morto. (ad Arlecchino)

Arlecchino. Me despiase infinitamente. Anderemio a Roma?

Roberto. Ci anderemo da qui a qualche giorno, se la signora Dorotea lo permette.

Anselmo. Signor sì, andate a vedere gli affari vostri.

Roberto. E al mio ritorno...

Anselmo. E al vostro ritorno si faranno le nozze.

Camilla. (Povera me! S’egli parte, ho paura che non torni più). (da sè)

Arlecchino. Sior padron. La vorria pregar d’una grazia.

Roberto. Che cosa vuoi?

Arlecchino. Avanti de andar a Roma, me vorria maridar anca mi, se la se contenta.

Roberto. Per me non ho niente in contrario; e con chi vorresti tu maritarti?

Arlecchino. Coll’amiga de Camilla. (guardando Camilla)

Camilla. (Ah furbo, furbo! Mi vengono i sudori freddi). (da sè)

Roberto. E chi è questa amica di Camilla? (ad Arlecchino)

Arlecchino. Domandèghelo a ela.

Roberto. Ebbene: chi è questa giovane? (a Camilla)

Camilla. Signore... Io non so niente. (Non so cosa dire). (da sè)

Roberto. È sua amica, e non la conosce: tu la conoscerai. (ad Arlecchino)

Arlecchino. La cognosso, e non la cognosso. (I) (2) [p. 65 modifica]

Roberto. Ma chi è? Che cos’è? Vediamo, se merita che un servitore onorato e fedele, come tu sei...

Arlecchino. Oh! per meritar, la merita molto più. Camilla sa chi la xe; ma Camilla no lo vol dir. Sior patron, sior Anselmo, siora Dorotea, ve prego tutti per carità, fe che Camilla parla, che la diga chi xe sta persona, chi xe st’amiga che voi el mio ritratto, che m’ha scritto una lettera, che m’ha fatto un presente, che me vol ben...

Dorotea. Oh! come Camilla vien rossa. (a tutti)

Anselmo. Ci scommetterei ch’è Camilla.

Dorotea. È Camilla senz’altro.

Camilla. (Povera me! Non so in che mondo mi sia). (da sè)

Roberto. Ma perchè non dirlo? Perchè non parla?

Dorotea. È timida, è modesta.

Anselmo. Fa la vergognosa.

Roberto. Animo, animo, figliuola. Arlecchino è un uomo dabbene, è un servitore onorato. (a Camilla) Ma via, parla, prega, accostati. (ad Arlecchino)

Arlecchino. Me vergogno.

Roberto. Sono cose da morir di ridere.

Anselmo. Orsù, finiamola. Vuoi tu maritarti, o restar fanciulla? (a Camilla, con calore)

Camilla. Maritarmi. (modestamente cogli occhi bassi e voce tremante)

Anselmo. Hai qualche genio per qualcheduno?

Camilla. Non lo so.

Anselmo. Ti vuoi maritare in questa casa, o fuori di questa casa?

Camilla. In questa casa. (come sopra)

Anselmo. Vuoi tu Carlotto?

Camilla. Signor no. (con più spirito)

Anselmo. Ma chi vuoi dunque?

Camilla. Vorrei... (modestamente, come sopra)

Anselmo. Ma parla.

Camilla. Eccolo qui. (fa vedere il ritratto d’Arlecchino, e si copre il viso)

Arlecchino. (Son mi, son mi. Camilla xe l’amiga, e mi son mi). (da sè, giubilando, e tutti applaudiscono) [p. 66 modifica]

Roberto. Animo, promettetevi tutti due; e al ritorno nostro da Roma vi sposerete. Sei contento? (ad Arlecchino)

Arlecchino. Sior sì. (modestamente)

Roberto. E voi siete contenta? (a Camilla)

Camilla. Signor sì. (con una riverenza modesta)

Anselmo. Bravi, evviva; e che vivan gli sposi.

Carlotto. Cos’è quest’allegria, signori? Chi si marita?

Arlecchino. Mi, per servirla. (a Carlotta)

Carlotto. E chi prende il signor Arlecchino? (ironico)

Arlecchino. L’incognita che se burla de mi. (sorridendo)

Carlotto. (Ah! pazienza; me l’ho meritata). (da sè, mortificato)

Roberto. Solleciterò la mia partenza per sollecitare il ritorno, e giugnere25 più presto al possedimento della vostra mano, (a Dorotea) E voi altri, in cui l’amore ha combattuto colla timidezza, soffrite la dilazione con eguale modestia, e siate sempre teneri sposi, e servitori fedeli.

Fine della Commedia.


Note

  1. Ed. Zatta: soggezion.
  2. Pasquali e Zatta: de'.
  3. Così Zatta. Nell’ed. Pasquali: come e dove xe andà.
  4. Pasquali e Zatta stampano: e ’l xe.
  5. Zatta: avisina.
  6. Pasquali e Zatta: e ’l.
  7. Pasquali e Zatta: me ne direè ’l contenuto.
  8. Zatta: e no l’ha volesto.
  9. Così Zatta. Nell’ed. Pasquali qui c’è il punto fermo.
  10. Pasquali e Zatta: mi.
  11. Pasquali: rabbiarmi. In questa edizione del Pasquali sono sfuggiti parecchi errori nelle righe precedenti: bene, vedere, lezere.
  12. Nell’ed. Zatta le parole in apparenza non sono fra parentesi.
  13. Così Pasquali e Zatta, invece di oe!
  14. Zatta: rovina.
  15. Zatta: pazienza.
  16. Pasquali e Zatta hanno qui il punto fermo.
  17. Pasquali: perchè xe ecc.
  18. Pasquali e Zatta: così.
  19. Così correggo il testo del Pasquali e dello Zatta, dove ti legge po.
  20. Nell’ed. Pasquali qui per errore è stampato amica. Lo Zatta stampa qui amica tutte due le volte, e più sotto amiga.
  21. Nell’ed. Pasquali c’è punto fermo.
  22. Pasquali ha il punto.
  23. Zatta: padrone.
  24. Zatta: giuro a bacco baccone.
  25. Così Pasquali e Zatta.