I Marmi/Parte seconda/Ragionamento della stampa/Alberto Lollio, Francesco Coccio e Paol Crivello

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Alberto Lollio, Francesco Coccio e Paol Crivello

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Alberto Lollio, Francesco Coccio e Paol Crivello
Parte seconda - Ragionamento della stampa Parte seconda - Academici Fiorentini e Peregrini
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Alberto Lollio, Francesco Coccio
e Paol Crivello.

Crivello. Noi siamo veramente d’infinito obligo tenuti, messer Francesco, con quel felice ingegno che primo ritrovò la bellissima invenzione delle stampe da imprimer libri; e certo grandissimo benefizio fece l’industria sua agli uomini dotti del nostro tempo.

Coccio. Chi credesse altramente sarebbe, a mio giudizio, tenuto piú tosto maligno che ignorante; perché io non reputo uomo chi non conosce tanta grazia, e chi non la riconosce è anzi ingrato che no. Ma chi volesse anco confessare il vero, non sarebbe però peccato in Spirito santo se si dicesse che molti begli ingegni n’hanno per ciò riportato di grandissimo danno; tanto che, chi ben misurasse l’uno e l’altro, la bilancia starebbe pari.

Lollio. Io non so, Coccio, se voi vi crediate questo per vero o se pur lo diciate per modo di contradire e per avere materia da ragionare; né posso credere, per la buona opinione che non pure io, ma ogni uomo di giudizio ha del giudizio vostro, che vi dia il cuore di sostenere sí strano paradosso, quanto sarebbe provarmi che la stampa avesse fatto danno a uomini virtuosi. E certo che non mi sará discaro udire come vi fondiate a cosí credere; ché non son però tanto ostinato che io non ascoltassi ragioni o vere o simili al vero e non credessi cosa che mi fosse sofficientemente provata e difesa. [p. 174 modifica]

Coccio. Io tôrrei troppo difficile impresa a sostenere, s’io volessi disputar probabilmente questa opinione, e maggiormente contra voi, il quale sète troppo affezionato a questo esercizio; né vorrei mostrarmi a voi tanto nemico delle stampe che io fossi giudicato dir contra me stesso, avendo io buon tempo praticato con esse.

Lollio. E chi ne può meglio ragionar di voi, se pochi altri, e forse nessuno, maggior cognizione non ne ha di voi?

Coccio. Certo, s’io volessi dire di non intendermene, mi farei assai poco onore. Ma messer Paolo che è qui, e si crede forse che gli sia lecito starsi in ozio quando gli altri travagliano, non debbe anch’egli entrare con esso noi a parte di questa fatica?

Crivello. Essendo io uomo piú tosto atto a imparare tacendo e ascoltando che ad insegnare ragionando e disputando, non è lecito che temerariamente io m’interponga fra due qual sète voi: e’ non è dubbio ch’io ne sarei tenuto, per ciò, non meno ignorante che ardito. Continovate dunque i vostri piacevoli ragionamenti e non mi vogliate invidiare cosí grato e utile riposo.

Coccio. Voi non dovete rimanere d’entrare in questa battaglia, perché temiate di perdere, opponendovi, solo, a due né, per vergogna, accostandovi all’uno di noi, ché giá potete vederci di maniera inimici e avversari che speranza alcuna non c’è rimasa piú di pace né d’accordo; anzi securamente potete e sète tenuto entrare, appigliandovi a qual di noi vi pare che difenda la ragione, sí per difender la parte della giustizia e anco per terminar piú tosto le nostre liti col vostro aiuto; e messer Alberto qui non avrá per male che voi m’aiutiate contra lui.

Lollio. Anzi me lo reputerò a gran ventura, e io di giá lo prego ch’egli s’unisca con esso voi, perché maggior gloria mi sará vincer due sí valorosi campioni; e non dubito punto che la vittoria sará mia.

Crivello. Messer Alberto, assai debil gloria sará la vostra, quando pur m’avrete vinto; il che non so come vi sia facile, [p. 175 modifica] quando anco vi fosse possibile. Ma io credo ben che il Coccio non sia cosí di leggiero per lasciarsi abattere, e giá me lo par vedere tutto pronto al contrasto.

Coccio. Certo che l’intenzion mia non è di contendere con messer Alberto, ma sí bene di trarlo forse d’alcuno errore, nel quale per aventura si ritrova, tiratovi dalla dolcezza della gloria e dell’immortalitá; la quale, non so come, i fumi delle stampe sogliono vanamente promettere altrui.

Lollio. L’eternitá del nome è cosa che si può conservare ancóra in materia piú soda che le carte non sono. Ma voi non mi negherete giá che le carte e le scritture non abbiano fatto alcuno piú famoso che i metalli e i marmi non hanno fatto; e voi l’avete potuto ben comprendere nelle statove e nelle opere degli antichi; perciò che quelle o poco tempo si son conservate o monche o rotte sono giunte a’ nostri tempi; la qual cosa non so vedere come abbia tenuto l’intento loro. Ma queste, con maraviglia di chi è venuto dopo, hanno fatte apparer vive e intiere le immagini

di tai che non saranno senza fama,
se l’universo pria non si dissolve.

Coccio. Se egli è vero che le scritture abbiano avuto possanza di fare arrivare dopo tanti secoli fino a’ giorni nostri la memoria degli uomini valorosi giá spenti e ridotti in poca polve, io non so vedere questo sí grande obligo che noi abbiamo avere a Giovanni Cutembergo da Magonzia, inventore delle stampe l’anno mccccxi, poi che il mondo sí lungo tempo s’è valuto della penna in perpetuare i nomi e in conservare l’eternitá delle cose scritte.

Crivello. Se al tempo che la lingua latina fioriva ed erano in colmo le scienze e l’arti fosse stata in uso l’invenzione d’imprimere i libri, noi di molte belle cose siamo spogliati e cassi, le quali si sono sepolte nelle infinite distruzioni di Roma e d’Italia, che ora non desideraremmo né sospiraremmo invano. [p. 176 modifica]

Lollio. Dice il vero messer Paolo.

Crivello. E qual danno si potrebbe aguagliare alla perdita della Republica di Cicerone, della Economica di Senofonte da lui fatta latina, dei xxxv libri delle Istorie di Polibio, delle Deche di Tito Livio, della Medea tragedia e dei sei libri dei Fasti d’Ovidio, della maggior parte delle Comedie di Terenzio (le quali andarono in visibilio insieme con la sua riverenza) e d’infinite altre dignissime opere che si sono smarrite? Le quali opere, quando la stampa fosse stata al suo tempo, come ora è al nostro, sarebbonsi conservate, mal grado dei barbari che l’hanno spente col fuoco o portatele insieme con l’altra preda fuor della misera Italia nelle provincie loro.

Coccio. Ora avete móstro, o Crivello, con le parole vostre da qual parte pendete; e certo mi piace che mi vi siate dichiarato nimico, acciò che io sappia ben da voi guardarmi e non abbiate modo, come amico finto o nimico coperto, di nocermi di nascoso. Farete dunque buon senno a difendere e rilevare chi ha bisogno di difesa e di sostegno; ché veramente la parte vostra sta per cadere e opprimersi da se medesima, si è ella debile e mal fondata.

Crivello. Io non mi son posto a ragionar perché il Lollio avesse mistiero di difesa (ché io non voglio cosí manifestamente ingiuriarlo, stimandolo mal atto a difendersi da se stesso, e tale non è egli), ma perché non m’abbiate piú a provocare nelle vostre mischie e a ciò che io non mi stia con le mani a cintola quando voi guerreggiate insieme; senza che mi pare di favorire la ragione.

Lollio. Né io tanto son arrogante che presuma da me stesso potermi difendere dalle vostre calunnie; però confesso d’avere obligo a messer Paolo e lo prego che me aiuti contra voi.

Coccio. Se ben mi ricordo, io credo assai sufficientemente avervi mostrato che ’l mondo comodamente ha potuto fare tante migliaia d’anni senza l’arte della stampa.

Lollio. Quella parola «comodamente» a me pare che importa troppo piú che voi non stimate: assai era dire che ’l mondo [p. 177 modifica] sí lungo spazio di tempo si fosse servito delle scritture, senza passar piú oltra; e io forse v’avrei concesso parte di quel che dite.

Coccio. Giá non mi potete negar questo.

Lollio. Né voi potrete dire che questo esercizio non abbia scemato altrui quella sí lunga, intolerabile e continua fatica dello scrivere; oltra che, un uomo solo stampa piú carte in un dí che molti non scriverebbono in molti.

Coccio. Io non v’ho anco detto l’uno è esercizio mecanico e sordido e l’altro scienza nobile e gentile.

Lollio. Voi inferite che lo imprimere libri è plebeo e lo scriver carte nobile e onorato?

Coccio. Questo appunto voglio dir io.

Crivello. Egli si pare bene che non vi ricordiate d’aver letto una lettera di non so chi che tanto biasima lo scrivere.

Coccio. L’ho letta e troppo bene me ne ricorda: ma quel galantuomo non biasima l’arte, ma la fatica, sí come quello che era amico dell’agio e delle comoditá.

Lollio. S’io volessi, avrei potuto anch’io dir mal dello scrivere e aggiungere alcune cose a quella epistola.

Coccio. Quando voi lo biasimaste, direste contra voi medesimo, ché, per quello che ne mostrano i bei caratteri di vostra mano, fate fede d’esservene dilettato piú che mezzanamente e d’avervi speso tempo a impararlo; oltra che lo scrivere non vi devrebbe esser in odio per molte cagioni, ma piú per esser padre della stampa.

Lollio. L’intenzione mia non fu di vituperare quei che scrivono, ma io volsi ben farvi conoscere la grande utilitá che vien dallo imprimere.

Coccio. Deh, messer Alberto, per dio, se questa sí ingegnosa arte vada ogni giorno avanzando e vincendo se stessa, non vi sia grave dirmi la tanta utilitá che ne riceve il genere umano.

Lollio. Qui vorrei vedere affaticare voi, sí come quello che molto meglio di me la sapete per lungo uso e per ciò potete mostrarla altrui; ché io, se non da pochi dí in qua che [p. 178 modifica] io sono in Vinegia, non ho avuto la pratica e conoscenza di lei, e, la sua gran mercé, mi conosco esserle molto tenuto.

Coccio. Alcun gran servigio vi debbe ella aver fatto.

Lollio. E chi ne dubita?

Coccio. Ma dite, per vostra fé!

Lollio. Il dirlo è soperchio, né altramente sarebbe che s’io volessi farvi credere che io ho obligo a chi m’ha ingenerato.

Crivello. Guardate di non dir troppo e di non mostrarvi, come si suol dire, guasto de’ fatti suoi.

Lollio. Io dico da dovero e del miglior senno che io m’abbia.

Coccio. Voi sète piú tosto acconcio a mostrarmi la grandezza del vostro ingegno, esaltando le cose piccole, che a farmi vedere il benefizio e ’l favore che vi può aver fatto questa gentil giovane. Ma il primo non m’è nuovo; ché’l mondo ha giá potuto benissimo vedere negli scritti di messer Alberto Lollio l’eloquenza vostra.

Lolljo. Voi di troppo m’onorate e lodate; benché io non posso se non apprezzar la lode che mi viene data da uomo lodato, ancóra che io la conosca avanzare il mio merito e procedere piú tosto d’amor che, gentilezza vostra, portate a me e alle cose mie.

Coccio. Lodandovi, non pure fo quello che io debbo, ma procuro il mio onore, facendomi tenére uomo di giudizio in onorarvi qual mi si conviene.

Crivello. Lasciamo le cirimonie, messer Francesco; e vegnamo all’obligo c’ha il Lollio con le stampe.

Lollio. Io v’ho giá detto che non mi reputo esser tenuto meno all’arte degli impressori di quello che a mio padre io debbo.

Coccio. Troppo promettete, secondo che mi pare.

Lollio. Anzi vi dico io di piú.

Coccio. Or questo sí che mi par nuovo in persona di tanto valore e di sí chiaro spirito.

Lollio. Io mi conosco di tanto piú essere obligato alle [p. 179 modifica] stampe ch’a mio padre non sono di quanto è da essere piú apprezzata e avuta cara la vita del nome e della fama che non è questa ond’io respiro: quella è per esser perpetua o, almeno, di lunghissimo tempo, questa è per durare pochi anni; l’una è gloria dello spirito e dell’intelletto, l’altra delle membra e del corpo; la prima è degli uomini famosi e illustri, la seconda è a noi comune con le bestie e con gli altri animali: per che potete assai manifestamente vedere che io tanto non m’inganno quanto vi davate a credere.

Coccio. Non ad ogniuno, messer Alberto, è concesso questo privilegio d’eternamente vivere, perché, come dicono i leggisti, egli è grazia speziale e non esce della persona; né tutti quegli che stampano hanno grazia di vedere conservarsi le loro opere, anzi molti sono e infiniti coloro che fanno l’esequie alla lor fama prima che ’l corpo vada sotterra, e quegli per aventura piú tosto le veggono che per alcun tempo maggior grido al mondo hanno avuto. Di quegli intendo che, senza alcuna scienza o cognizione di lettere avere, dati si sono a imbrattar carte, per dire: — Io so la lingua ebrea e la moresca — come il capriccio e la natural favella italiana dettava loro; parenti di quel gigante Malacarne che per breve spazio di tempo voleva guerreggiare con tutti i dotti e s’è azuffato con l’Ignoranza e con l’Ambizione, volendosi far tributario il mondo: i quali, non so come, in un momento fulminati dalla dottrina e dalla modestia degli uomini dotti e virtuosi, si sono ritrovati oppressi sotto le machine dei monti che essi si vantavano di porre un sopra l’altro per ascendere in cotal modo al cielo della gloria e della grandezza umana.

Crivello. Conoscerestigli voi senza fargli nome?

Lollio. A fiutargli, non che ad altro segno; perché oggimai fieramente putono a ciascuno.

Coccio. E, nel vero, questo è gran cosa a dire che l’infinita quantitá dei volumi, che altri publica al mondo, non baste per acquistare il paradiso di vita eterna alle scritture degli sciocchi; anzi è per vivere piú la leggenda di Strascino che le opere di tali c’hanno fatto alla fine la riuscita d’una girandola [p. 180 modifica] rimasa lá con un puzzo di zolfo e di polve, il quale, dopo averlo amorbato, ha sgannato il mondo.

Crivello. Maravigliato mi son sempre, e tuttavia stupisco, non come questi tali siano stati in opinione di scrittori e d’omini rari, ma che le persone di grado e di merito non pure gli abbiano degnati, ma fatti immortali ancóra negli scritti loro; perché, se di qui a una etá o due ci fosse concesso di poter ritornare a questo mondo, vedremmo che quegli che dopo noi verranno, leggendo i nomi di questi nelle opere di molti autori, gli avranno per uomini di valore, massimamente essendosi giá spente e sepolte le gofferie di lor medesimi. Ponghiamo, per conto, che uno ne’ suoi libri buoni nomini un cattivo mirabilmente e lo lodi (dell’intenzione non si può giudicare); non credete voi che di qui a dugento anni il meccanico abbia da essere stimato come è stato scritto, come dir nobile uomo e persona d’ingegno, da chi verrá dopo noi, i quali daranno fede a quanto il valente uomo ha lasciato su’ libri?

Coccio. Messer no, che io non lo credo.

Crivello. Chi vi domandasse della ragione?

Coccio. Direi che chi leggerá e considererá diligentemente, conoscerá se le son vere lodi e vedrá che son talvolta vitupèri coperti, stati male intesi da chi gli riceve per buoni o per onori.

Lollio. Eccoci ai comenti e alle chiose.

Coccio. Direte voi che l’infamia non si possa inorpellare con una coperta di gloria sí che ella appaia e non sia?

Lollio. Dirò che l’oro e l’argento si conoscono al paragone.

Coccio. E direte il vero; perché, leggendo dove il nobile uomo loda chi n’è degno, non ritroverete parole anfibologiche né che si possano pigliare in mala parte ancóra, anzi vedrete puritá di mente, sinceritá d’animo ed esaltazione onorata.

Crivello. Non è dunque sempre onore la lode che viene da uomo lodato?

Coccio. Anzi la lode è in ogni tempo lode, sí come il biasimo in ciascuna ora è biasimo. [p. 181 modifica]

Lollio. Voi mi concedete, adunque, che la stampa possa eternare la fama degli uomini?

Coccio. Degli uomini si, ma delle bestie no.

Lollio. Ecco, se le bestie vestite da uomo avranno vita nelle opere degli intelletti chiari, però vivranno elle o vituperate o lodate.

Coccio. Il viver con infamia è poco meno che l’esser morto.

Lollio. E io ho conosciuto degli uomini grandi non curare del modo con che s’acquistino fama, pur che se l’abbino: «Sive bonum, sive malum, fama est», disse Gricca quando abruciò la lettiera. Ma scansiamo occasione di dire. Come mi farete voi probabile la proposizion vostra, cioè che la stampa abbia portato danno agli uomini studiosi?

Coccio. Io aveva questo per cosí chiaro che non mi credeva che fosse bisogno farvene fede; sí come sarebbe opra perduta chi volesse provare che ’l sole scaldasse e ’l fuoco cocesse.

Crivello. Voi fate queste vostre opinioni sí comuni che pare che abbiate in favore del parer vostro il parere di tutto il mondo.

Coccio. Il danno che n’hanno ricevuto gli uomini d’ingegno è primo degli scrittori, i quali, sí come giá dell’esercizio loro solevano avanzarsi i ducati, a pena ora ne guadagnano i soldi.

Lollio. Compensate con questo danno l’utilitá che ne traggono tante migliaia d’uomini che ci vivono dietro e la cosa andrá di pari.

Coccio. Il giovamento di molti è da essere preposto all’utile di pochi; e senza dubbio in maggior numero furon sempre, e sono tuttavia, gli scrittori che gli impressori. Or mi potreste dire che difficile era in quei tempi aver di molti libri, per la grande spesa che si faceva in essi, e cosí comodamente ogni uno non era atto a poterla fare, se non qualche ricco e gran gentiluomo; i poveri uomini erano forzati darsi all’arti mecaniche e agli esercizii vili, sí come quegli che non potevano apparare le scienze per carestia di libri. [p. 182 modifica]

Lollio. Non è egli questo verissimo?

Coccio. Certo sí. Ma ditemi: quando fu maggior copia d’uomini grandi, o in quei tempi che le stampe non erano ancóra al mondo o nella nostra etá che n’è sí gran dovizia per ogni loco?

Lollio. In ciascun tempo è stato gran numero d’uomini dotti.

Coccio. Vaglia a dire il vero, messer Alberto: non furono eglino infiniti gli uomini dotti e gli scrittori eccellenti al tempo d’Augusto?

Crivello. Il numero de’ grandi fu sempre piccolo.

Coccio. E ora è piú che mai. Ebbe quella etá Cicerone, Virgilio, Orazio, Ovidio e tanti celeberrimi oratori che bastarono ad illustrare la lingua latina.

Lollio. Ha il nostro secolo tanti poeti e tanti oratori che sono sufficienti a rendere la lingua toscana chiara e famosa e farla gir di pari con le due giá quasi spente, la greca e la latina.

Coccio. Non cosí a furia, fermatevi un poco: dei poeti ne abbiamo noi tanti che per ciascuno oratore ne potremmo annoverar cento; ma, come disse l’Ariosto,

son rari i cigni e gli poeti rari,
poeti che non sien del nome indegni.

Lollio. Io sto quasi per credere, s’io ardissi di dirlo, che al tempo di Marziale si ritrovassero stampatori di libri, e forse inanzi di lui; perché, quando egli voleva insegnare lá dove si vendevano i suoi libri degli Epigrammi, dopo alcuni versi dice:

Et faciet lucrum bibliopola Tryphon

quasi volesse dire: Aldo, che n’ha molti da vendere, fará gran guadagno d’essi; e, sendo chiaro che lo scrivere a mano è di grande spesa e di molta fatica, oltra il consumamento di tempo, certo è che un libraio di poco nome, come doveva esser questo [p. 183 modifica] tale, non ne avrebbe potuto fare scrivere gran numero da tenergli in vendita e da farne gran mercato.

Crivello. Io vi ricordo che in quei felici tempi non era la carestia che è oggi di buoni scrittori; anzi mi pare d’aver letto ne’ distichi proprii di Marziale, oltra alcuni altri autori degni di fede, che gli antichi tenevano servi spezialmente a questo esercizio; per che non sarebbe da maravigliarsi che la scrittura fosse stata allora in poco prezzo, per la gran quantitá di quei che scrivevano, e cosí vilmente si fossero vendute l’opere scritte a mano.

Coccio. Ritornando ond’io mi son partito, l’abondanza dei libri c’ha fatto venir la stampa è stata cagione di molti inconvenienti.

Lollio. E quali son questi disordini?

Coccio. Prima, molte persone nate vilmente, le quali con maggior utilitá del mondo si sarebbon date a di molti esercizi meccanici e degni degli intelletti loro, tirate dalla gran comoditá di studiare, si son poste a lèggere; onde n’è poi seguito che gli uomini nobili e dotti sono stati poco apprezzati e meno premiati, e molti, sdegnando di aver compagni nelle scienze le piú vili brigate, hanno in tutto lasciato ogni buona disciplina e cosí si sono marciti nell’ozio e nella lascivia. In questo modo è mancata la dignitá e la riputazione delle lettere, e cessati anco i premii, poi che s’è potuto vedere la gran facilitá e la poca fatica che è nel venir dotti e letterati.

Lollio. L’invidia è un pessimo veneno e nimica a fatto del ben publico; benché io non credo che si mala pèste abbia loco nell’animo vostro purgato d’ogni passione.

Crivello. Messer Francesco poco fa m’ha fatto ricordare della malignitá di coloro che, mossi da invidia e ambizione, biasimano a torto le traduzioni d’uno idioma nell’altro e specialmente di greco e di latino nella lingua nostra.

Coccio. Né anco questo esercizio mi pare molto onorevole, massimamente fatto nella maniera ch’oggi s’usa; e credo che di questa opinione sia anco il Lollio.

Lollio. Sí, son, per certo. [p. 184 modifica]

Crivello. Se voi n’aveste avuto bisogno, come molti hanno, ne ringraziereste chi vi s’è affaticato; ma, per la cognizione ch’avete della lingua latina, vi fate beffe di chi traduce e di chi legge traduzioni.

Lollio. Né di chi traduce né di chi legge semplicemente mi risi io giá mai, ma si bene di chi si mette a far cosa che non sappia m’ho io fatto beffe, e riderommi ogni volta che m’occorrerá. E voglio dirvi piú oltra che io per me, quando posso avere traduzioni fedeli e toscane (ma, ma...), lascio sempre...

Coccio. Voi dovete lègger manco ch’io non penso.

Lollio. ...gli autori proprii, sí per scemarmi fatica e avanzar tempo come per imparare in essi la lingua. Ma pochi sono questi felici ingegni che a ciò mi possano indurre; nei quali porrò sempre il Titolivio di messer Iacopo Nardi, l’Oratore del signor Dolce, Tucidide del signor Strozzi, Seneca del Doni, e qualche altro autore. Scartabello poi, ancor che sieno le traduzioni mediocri.

Coccio. Se gli uomini dotti si fossero dati a tradurre, non avreste cagione di dir cosí.

Lollio. I dotti fanno da loro, che è piú lodevole esercizio, pare a me, e spendono il tempo in altre cose gloriosamente, veggendo che la miseria de’ pedanti e la furfanteria delle dottoresse, per avarizia e per viltá d’animo piú che per giovare altrui e acquistar fama a se stessi, s’è posta a tradurre per vilissimo prezzo, facendo mercanzia delle virtú; e questa maladetta speranza di guadagno gli ha indótti a precipitare l’opere, che essi doverebbono e meglio considerare e piú lungo tempo apresso di loro ritenere. Non vedete voi che egli c’è tale che traduce a opere come fanno i manovali?

Coccio. Le virtú che sempre hanno mendicato il pane e sono ogni di piú povere, per l’avarizia di molti principi, non possono fare altro: per che i virtuosi meritano piú tosto d’essere aiutati che ripresi.

Crivello. Io che fui causa, framettendomi a’ ragionamenti vostri, di farvi far questa digressione, vorrei anco potervi ritornare sulla via. [p. 185 modifica]

Lollio. Ella non è stata fuori di proposito, e poi questo saltare di palo in frasca è ordinario dei discorsi piacevoli e fatti per piacere, non per acquistar fama.

Coccio. Se ben mi ricordo, io era entrato a dire dei danni c’ha fatto la stampa agli uomini del nostro tempo; per che, volendo seguire apresso, dirò che l’aver tante leggende fra’ piedi, ci hanno fatto salir su questi scartabelli, e, pensando d’alzarci, siamo stramazzati in terra e dato di mano in questi scritti che dell’inchiostro della stampa erano freschi e ci siamo tutti tutti imbrattati di nero il ceffo, talmente che siamo beffati bene spesso in cambio d’esser lodati.

Lollio. Come potete voi dire che il gran numero de’ libri e la lezione delle cose diverse faccia danno ai begli intelletti e non piú tosto arricchisca la mente e la riempia di bei concetti e di rare invenzioni?

Coccio. Provate a essere a una tavola dove sieno infiniti cibi diversi e la maggior parte cattivi, vedrete come voi v’acconcierete il gusto e lo stomaco: nel tórre un boccon qua e un lá, alla fine non saperete che sapore si sia il buono né allo stomaco il cibo utile. La selva de’ libri che ci si para inanzi come un giardino di molti frutti, ha pochi arbori da cavarne costrutto: chi torto, qual mezzo secco, uno marcisce e l’altro punge e puzza; onde non v’è tempo da côrre poi de’ frutti buoni, se pur se ne trovano alcuni. Ma se l’uomo pascesse il suo intelletto di ottima dottrina, che ne’ pochi libri è riposta, egli partorirebbe poi frutti degni di merito e d’onore. Questo accade forse a’ nostri tempi o no? Se non è vero ciò che io dico, guardate quanti intelletti vengano oggi a perfezione; il che non avveniva a quella veramente etá aurea d’Augusto, quando fiorirono le scienze e l’arti.

Crivello. Messer Francesco, molte altre cose e di maggior forza forse n’hanno la colpa, le quali credo che non faccia mestiero esser raccontate a voi uomini d’ingegno e di valore; per che giudico bene che ripigliate la materia della quale ragionavate.

Coccio. Il presente discorso era tuttavia nel farvi conoscere il danno che n’ha fatto la stampa; perché, continuando [p. 186 modifica] il nostro ragionamento, si vi dico che inestimabile mi pare il nocumento che la vanagloria degli uomini e ’l fumo della ragia ha fatto al mondo. Ogni pedante fa stampare una leggenda scacazzata, rappezzata, rubacchiata e strappata da mille leggendaccie goffe, e se ne va altiero per due fogliuzzi, che pare che egli abbi beuto sangue di drago o pasciutosi di camaleonti. Come egli vede qualche sua cantafavola in fiera, egli alza la coda e dice: — Fate largo; io non cedo al Bembo; l’Ariosto l’ho per sogno; il Sanazzaro e il Molza non son degni di portarmi dietro il Petrarca. — Cosí, credendosi rubar la fama altrui, acchiappa su la vergogna per sé.

Lollio. Questo non è giá danno che la stampa faccia, ma sí ben vergogna di coloro che ardiscano farlo e vitupèro di chi potrebbe impedirlo e se ’l comporta.

Coccio. Se si tagliasse la strada per un editto universale, che ogni libruzzo da tre soldi non si stampasse, e s’accordassero a questo l’universalitá de’ reggimenti, sarebbe bello e proveduto a questo danno.

Lollio. Platone ordinò che non si publicasse cosa composta e scritta da altrui, se prima non era vista e censurata da persone sopra ciò deputate. Or se questo si faceva in quel tempo, che non era cosí facile divulgare in ogni parte del mondo le scritture, che avrebbe fatto l’uomo savio in questa facilitá che abbiamo noi di mandare a processione ogni leggenda e ogni facezia goffa e disonesta?

Crivello. E’ non è dubbio alcuno che con questa legge si porrebbe freno a molti che corrono a gara a fiaccarsi il collo ne’ torchi e negli strettoi e s’aniegano nell’inchiostro.

Coccio. Non vi pare egli cosa infame e vituperosa che si leggano a stampa tante disonestá, come veggiamo?

Lollio. Parrebbemi che, non gli impressori, i quali s’affaticano per guadagnare, ma i componitori, i quali non si vergognano di ritrarre la lor viziosa vita e dar pessimo esempio al mondo con adunar facezie vituperose, e’ ne doverrebbono essere agramente gastigati. E non so se voi giudicate che sia lecito, sotto colore d’insegnare arguzie, mostrare l’eresie [p. 187 modifica] manifeste, ruffianesmi e colmare il libro delle piú disoneste e sporche parole che si possin dire; e poi questi mostri e sconciature di natura son alzati, dove doverebbono esser sepulti. Io mi rido che si son fatti una faccia invetriata e non si vergognano d’essere per eretici fatti badalucchi al popolo a onta e biasimo del secol nostro cristiano.

Crivello. Perché non è cosí concesso agli uomini del nostro tempo scrivere nella lingua che favelliamo cose lascive e disoneste, come fu lecito a Virgilio, Ovidio e Marziale scrivere nella latina, giá che disse Cicerone che ogni cosa sporca si poteva comodamente esprimere in ogni idioma con parole oneste?

Coccio. Voi mi vorreste uscire per le maglie rotte, ma e’ non vi verrá fatto. Non dobbiamo far paragone della licenzia e dell’abuso degli antichi con la modestia e con la continenza dei giorni nostri: a loro che non avevano lume alcuno della fede né conoscevano Iddio pareva che fosse lecito e concesso ogni cosa scrivere almeno, perché le leggi severamente punivano chi male operava; a noi ai quali s’è manifestata la veritá e la luce di Cristo non sta bene né si conviene che viviamo nelle lascivie e nelle disonestá, le quali parevano anco vergognose ai gentili, perché, se ben le scritture loro erano laide e infami, se ne scusavano però che la vita loro non era conforme agli scritti:

Lasciva est nobis pagina, vita proba est.

Ma i nostri scrittori si vantano e di menar vita dissoluta e di sapere insegnare i motti arguti e le sentenze (per esser dottori di legge) con favole disoneste, parte da loro trovate e parte ricolte da’ lor pari cattivi. Ma se tutto il mondo il dicesse, e’ non piace giá ad alcuno veder sí sporche cose a stampa che dicon mal di Cristo, del pontefice, della chieresia, de’ particolari nominati e degli universali mostrati a dito.

Crivello. Voi tirate ben di mira.

Coccio. Parlo per ver dire, non per odio d’altrui né per disprezzo. [p. 188 modifica]

Lollio. Non è da credere che il Coccio sia mosso d’altra passione che da pura caritá, a riprendere i vizii; e certo che in ciò molto modestamente egli favella.

Coccio. Vi ringrazio della buona opinione la quale di me avete.

Crivello. Non è egli lecito, per conto d’esercizio, scrivere ancóra cose lascive?

Coccio. Senza pensarci troppo, io direi risolutamente di no: ad uomo di buona vita ed esemplare mancano forse i modi onorevoli e onesti per i quali gloriosamente possiamo esercitare gli ingegni e inviarsi a cose grandi? Gli antichi che inalzarono e onorarono soggetti bassissimi e vilissimi, n’hanno posto l’esempio inanzi con le lodi della mosca, del calvizio e della quartana, e i moderni uomini virtuosi e gentili con tanti begli e arguti capitoli quanti si veggono raccolti e stampati.

Lollio. I moderni hanno forse passati i termini, alcuni, dico.

Coccio. Imparisi dal Lollio, che fece sí bella littera ad esaltazione della villa e dell’agricoltura.

Lollio. Io non merito loco fra le persone d’altezza; parmi assai esser numerato fra quei poveri uomini che vanno raccogliendo alcune spighe che rimangono dietro alle spalle de’ mietitori.

Coccio. Troppo umilmente, messer Alberto; e giá il mondo, c’ha gustato dei dolci frutti del bello ingegno vostro, s’ha concétto altra speranza del valore e della virtú che è in voi. Ma non piú di questo, acciò che io non paia volervi lodare in presenzia.

Crivello. Messer Francesco, molto ci avete ragionato che la stampa fa agli intelletti; e io per me parte v’ho creduto parte attribuito alla facondia vostra, che pure ci avete voluta mostrare in soggetto sí basso.

Coccio. Io non mi conosco tal Cicerone mai in cose si fatte che mi persuada di mettervi, a voi e altri, in cuore di persuadere il falso, maggiormente essendo voi tali che agevolmente sapete discernere tra il vero e il verisimile; e quello che [p. 189 modifica] pure v’ho ragionato in tal cosa, lo credo io medesimo e lo tengo per verissimo.

Crivello. Ora desidererei intender da voi se, oltra il mandare i cervelli per le poste, la stampa avesse possanza di fare apparire il diavol nelle borse.

Coccio. In molti modi può la stampa far danno alle borse; i quali crederei che vi dovessero esser chiari, senza che io v’aggiungessi altre parole.

Lollio. Io ho piú volte udito dire, da chi ha usato seco, che questa arte ha parentado con l’archimia: voi che ne dite?

Coccio. Confermo il vostro dire e ridico che sí come l’alchimia promette ai leggieri di cervello, che gli prestan fede, di far diventare il piombo oro e alla fine riempie loro di fumo e di polvere il naso, cosí questo esercizio, a chi no ’l sa fare, dá a credere che i cenci e gli inchiostri gli abbino a ritornar fiorini e poi gli pianta lá con i fondachi pieni di carte impiastrate, le quali concorrono d’eternitá con la vana speranza dei giudei nel Messia e si stanno in arbitrio della muffa.

Lollio. Io aveva pure udito dire che Ruberto Stefani in Parigi, il Griffo in Lione, il Frobernio in Basilea e molti nostri italiani in Vinegia hanno guadagnato le migliaia de’ ducati nello esercizio delle stampe.

Coccio. Voi dovete anco avere inteso d’infiniti c’hanno smaltito, con poco utile e gran danno, di gran somma di danari in far questo mestiero.

Lollio. So poco di simil trame, ma ho bene udito dire che i devoratori e gli insaziabili della gola e della coda poche imprese riescon bene alle lor mani, per non dir giocatori e uomini di poco ingegno.

Coccio. Mettete da canto la canaglia e dall’altra parte ponete tutte le persone da bene e virtuose: riescono a onore in ciascun negozio. Ecco, quei che sono uomini industri e mercanti leali hanno accumulato di gran facultá. Vedete messer Aldo, non pur litterato, ma virtuoso ancóra, che fama egli s’ha procacciato col mezzo delle sue virtú.

Crivello. Sento contar miracoli della sua liberalitá verso [p. 190 modifica] gli uomini dotti, della grandezza d’animo che egli aveva (alla barba di molti moderni stampatori che sono ignoranti e, se non veggono il grand’utile, non aiuterebbono un virtuoso o letterato se non d’una corda che l’apicchi), dell’infinita diligenzia e pazienzia in volere egli stesso sempre rivedere e correggere le proprie stampe. Odo dire dagli uomini del medesimo esercizio, fra i quali, per lo piú, suole essere sempre invidia, che, da che cominciò la stampa de’ libri, non fu mai un suo pari, e, fin che durerá il mondo, ardiscon dire che non verrá chi lo agitagli, non pur chi lo vinca.

Coccio. Egli aveva, certo, tutte quelle buone parti che si richieggono ad uomo di valore, non che ad impressor di libri.

Lollio. Lungo sarebbe, se mi voleste raccontare le qualitá convenienti a valente uomo; ma voi, per grazia, siete contento dirmi come debbe essere uno stampatore onorato? E cosí, destramente, per modo d’idea o d’esemplare, formatene uno quale devrebbe essere, non come si ritrova.

Coccio. Mal vi posso io sodisfare di questo, perché né i miei progenitori fecero mai questa arte né io l’ho giá mai imparata; e benché per alcun tempo ch’io dimorai in Vinegia abbia conversato fra’ librai e stampatori, io non ne son però tanto bene informato che io sofficientemente ne possa instruire altrui: per che vi prego ad avermi scusato.

Crivello. Se vi toglieste inanzi l’esempio di messer Aldo, che in ciò fu perfetto, sapreste a punto quel che desiderate sapere, senza affaticare il Coccio.

Coccio. Questo virtuoso uomo che s’incontrò per buona ventura nell’occasione dei buoni tempi, era, come v’ha detto dianzi messer Paolo, liberalissimo, amorevolissimo, sincero e cortesissimo lá dove vedeva il bisogno degli uomini letterati (come ha fatto e fa oggi il Marcolino) e virtuosi; tratteneva in casa sua e a sue spese molti uomini dotti, i quali son poi venuti in grandissima fama al mondo. Intendo che Leandro, in minor grado, che fu poi per merito delle sue virtú creato cardinale, si riparò buon tempo apresso di lui; Erasmo, la cui fama alcun termine non serra, fu trattenuto e acarezzato [p. 191 modifica] da messer Aldo; oltra che egli aveva conoscenza e famigliaritá di tutti gli uomini grandi che facessero professione di lettere, si valeva molto del giudizio e dell’autoritá loro in publicare buoni libri e sopra tutto diligentissimamente corretti. Stampò molte opere latine e, fra l’altre, quelle di Cicerone col giudizio e con la correzione del Navagero, uomo di grandissima speranza, cui voi molto bene dovete aver udito ricordare e forse letto delle cose sue; si serví, nelle scritture volgari dei tre migliori, Dante, Petrarca e Boccaccio, delle fatiche del Bembo, il quale con la sua pazientissima industria ha ridotto questa nostra lingua alla grandezza che si vede. Soleva messer Aldo non perdonare né a spesa né a fatica in far d’avere bonissimi testi antichi, e quegli conferendo insieme e apresso, ragunando uomini eruditissimi, col giudizio loro riformò ed emendò infiniti (errori di scritti e stampe) buoni autori latini; e se la morte importuna non si fosse interposta a’ suoi magnanimi pensieri e alla speranza che n’aveva concètta il mondo, la lingua latina non sarebbe passata, con grandissimo biasimo nostro, dico d’Italia e di coloro che vilmente l’hanno comportato, che la vadi ad albergare in altrui alloggiamenti e non nel suo proprio nido, e non pure la lingua romana, ma la greca ancóra non si sarebbe pentita degli ornamenti che le avrebbe dato la umanitá e amorevolezza di lui.

Crivello. L’occasione dei tempi importa assai, vedete.

Coccio. Quando egli cominciò ad imprimere libri, oltra il bellissimo carattere simile agli scritti a mano, ch’egli ritrovò o almeno prima s’argomentò di porre in uso, non aveva né si gran numero né di cosí valenti uomini che concorressero con lui in un medesimo esercizio; anzi solo era guardato con maraviglia e lodato da tutto il mondo, per che egli molto bene ebbe agevolissimo modo di acquistar fama e di cumular facultá. Ora che la stampa è venuta in colmo della sua grandezza e ’l numero degli stampatori è cresciuto in infinito, non è cosí facile ch’altri arricchisca, come per avventura in quei bonissimi tempi fu allora.

Lollio. Dunque credete voi che l’etá nostra abbia degli impressori che possano stare a paragone d’Aldo? [p. 192 modifica]

Coccio. Ogni comparazione è odiosa; il mondo conosce bene quello che è e che non è. Io vo’ dire de’ nostri d’oggi alcuna cosetta, per non dir miracoli: quegli caratteri di Parigi, di Lione, di Basilea, di Fiorenza e di Bologna mi paion mirabili; delle correzioni poi di quelle d’Aldo a queste, giudichilo chi sa, chi può e chi vuole.

Crivello. Il bel carattere veramente fa lèggere volentieri, ma la correzione è de’ verbi principali anch’ella; chi fa e ha l’uno e l’altro porta la corona.

Coccio. E’ ci son bene di molti ciabattini di stampe che non hanno né l’uno né l’altro, che vergognano l’arte, e, stampando ogni baia, vergognano loro e altri.

Lollio. Essendo, per passare a un altro termine, maggiore il vulgo degli ignoranti che l’academia dei dotti, crederei che costoro, i quali stampano ogni cosa, dovessero farne miglior guadagno che dei buoni libri non fanno gli uomini di giudizio.

Coccio. Alla fine, gli stampatori da dozzina vanno a monte.

Lollio. Perché i librai avanzano quel che doverebbon guadagnar loro.

Coccio. Ancóra si sono arricchiti con le cose plebee alcuni impressori e poi si son dati alle maggiori e straricchiti.

Lollio. A me pare che molti comincino a metter da parte l’onesto sempre e piglino l’utile, sí malamente e scorrettamente stampano, in cartaccie e in lettere cacciate, strette e abbreviate.

Crivello. Non entrate in satire: la stampa per ora si ponga da canto, perché, a mio giudizio, ce n’andremo al nostro alloggiamento; siamo tutti rinfrescati a questi Marmi, e, riposandoci piú tosto che ’l solito, potremo domani piú a buon’ora andare a veder il resto di questa mirabil cittá, e potren dire che non solo i fiorentini godano i lor piaceri, ma che i forestieri ne participino ancóra.

Lollio, Coccio. Andiamo, ché sará ben fatto.