I Marmi/Parte terza/Ragionamento di diversi affanni umani con alcune poesie degli academici Peregrini/Pedone sensale, Santi Buglioni e Giomo pollaiuolo

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Pedone sensale, Santi Buglioni e Giomo pollaiuolo

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Pedone sensale, Santi Buglioni e Giomo pollaiuolo
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Pedone sensale, Santi Buglioni e Giomo pollaiuolo.

Pedone. Chi direbbe mai ch’io avesse imparato tanta dottrina e virtú in sí poco tempo?

Santi. Io non credo che sia possibile, se voi non me ne mostrate qualche saggio.

Pedone. La grammatica fia buon testimonio del mio sapere, perché so metter ben le parole ch’io scrivo, so dir benissimo la mia ragione.

Santi. La non è nulla, se la non sa dire i termini de’ versi, la nobiltá dell’istorie e non tiene a mente le favole, la misura delle sillabe: ma questo aver grammatica assai non la chiamo virtú.

Pedone. O che chiameresti tu virtú?

Santi. Saper rifrenar la lussuria, esser spogliato dalle paure umane, e simil cose.

Pedone. Tu non potrai mai pervenire a cotesta cima di scala, se tu non vai salendo questi gradi.

Giomo. Se voi fate pensiero che io stia a’ Marmi in vostra compagnia, accordatevi.

Pedone. Io intendo l’intenzion tua, come sarebbe a dire: se io sarò un valente uomo nella musica, non troverrò che quella scienza mi lievi il timor dell’animo né che mi raffreni i desiderii, perché come una cosa non insegna virtú, non la può fare, e, se la ce la insegna, la viene a esser filosofia. Egli è certissimo che la virtú va unita e non si confonde mai; ma chi la insegna, non è unito, anzi discorda, perché ciascuno è diverso e vario nell’amaestrare. Tu vorresti che la virtú fosse insegnata unita.

Santi. Si io, e che, acquistandola, io ne cavassi frutto e non fiore. [p. 61 modifica]

Pedone. Non so s’io ti debbo metter nel numero degli stoici, che tu apròvi solo la virtú e che non ti discosti dall’onesto, o pur d’Epicuro che lodava lo stato della vita quieta e viversene fra i piaceri dilettevoli, o veramente ti fo academico, che tu abbi una certa opinione nel capo che tutte le cose sieno incerte; perché una gran parte di costoro, che fanno fantocci di terra, si sogliono lambiccare spesso spesso il cervello nelle cose alte, come può essere, come è stato e come fia.

Giomo. Odila grossa!

Santi. Io non credo se non quello che io debbo credere e vi dico, per tirar gli orecchi alla vostra dottrina, che alla mia salute non apartiene di essere o stuoia o tappeto: academici cristiani sono quegli che io desidero d’udire e non epicurei. Che mi fa egli che Eccuba fusse da manco che Elena o se Achille aveva tanti anni quanti Patroclo? Io per me ebbi sempre poca voglia d’imparare su le sètte fatte dagli uomini; e se pur leggo le loro fazioni, guardo in quello che fallasse Ulisse e considero bene in qual cosa egli errò, solamente per guardarmi di non errare.

Giomo. E’ favella come un santo.

Santi. Io mi rido talvolta, quando leggo certi libri, che le brigate s’affoltano a scrivere le tempeste che Ulisse ebbe in mare e vogliono che tu le vegga. Vedete che umore è il mio, che io credo che a scriver le tempeste e a provarle vi sia una gran differenza; e chi l’ha lette e poi le prova, dice che lo scritto non insegna sí bene a mille miglia. «Il fuoco cuoce», trovo scritto: s’io non lo tócco, mai vi saprò dire che cosa sia fuoco; ma quando mi sentirò quell’incendio, allora non lo saprò insegnare ancóra, perché colui non saprá mai, a chi l’insegnerò, che cosa è fuoco, se non è tócco alquanto da esso.

Pedone. Che vorresti voi sapere o che avresti caro che vi fosse insegnato?

Santi. Io vi dirò, la mia cosa fia difficilissima. Io mi sento in un giorno fare di molti assalti: prima, la tempesta dell’animo malcondizionato è una mala cosa; la spinta che mi [p. 62 modifica] da l’iniquitá di tutti i mali è bestialissima; la bellezza (qual costoro desiderano e credano averne piacere) m’offende gli occhi e ne resto offeso molto tempo, e piú offeso quando conseguisco l’intento dell’animo mio, che gli altri par loro d’esser migliorati; i brutti vizii degli uomini m’affannano e le lusinghe degli orecchi mi fastidiscano, oltre al pelago dei mali che ho attorno: vorrei imparare a schermirmi da questa pèste, vorrei poter difendermi da questi lacci.

Pedone. Voi vorreste che vi fosse insegnato con le parole e con gli effetti la patria amare, la donna e i figliuoli, senza lo stimolo del dolore e del danno: oh le son gran cose, a insegnarle!

Santi. Che volete voi adunque che io facci, se Penelope fu pudica o no, o se Ulisse l’amava o odiava? Vorrei imparare che cosa è pudicizia e quanto bene si ritrovi in quella e se la sta nel corpo solo o nell’animo o veramente nell’uno e nell’altro, e poter, quando io la so, osservarla.

Giomo. L’impossibilitá va cercando quest’uomo.

Santi. Io dico il vero: uno m’insegnerá come consuonino fra loro le voci gravi e l’acute e farammi vedere che, essendo le corde di suono inequale, le si accordano; e io vorrei piú tosto imparare ad accordare il mio animo che non discordasse dalla concordia delle cose di Dio. Quando andava alla scuola, molti anni sono, che io imparava a sonar di flauto e di viola, il maestro mi mostrava quali erano i tasti flebili e qual piú gagliardi di tuono. Una volta io trassi via il flauto e non ci volli mai piú tornare, dicendo fra me stesso: — Quando saprò zuffolare, che avrò imparato? Io vorrei piú tosto, quando il fiato delle tribulazioni mi assalta, non dar fuori voci dolenti o, quando la prosperitá (se però al mondo ci son prosperitá) m’inalza, non fischiar sí forte con la pazzia del parermi d’esser contento.

Pedone. Per questi mezzi si sale al grado che desiderate.

Giomo. Si, ma la strada è troppo lunga.

Pedone. Non giá, chi si mette per il buon camino.

Santi. La geometria è buona via a misurare la grandezza [p. 63 modifica] de’ fondi, ma non so se la sia ottima mezzana a misurare quanto basti all’uomo. O Pedone, e’ c’è che fare e che dire in questo leccieto umano! L’aritmetica mi insegna contare e m’accomoda le dita; la non mi fa altro servizio che conoscere che chi ha assai è felice, e io vorrei che la mostrasse all’uomo che ha tanto e possiede tanto e spende tanto quanto egli ha di superchio, e, quanto manco, gli sarebbe piú utile, forse tanto utile quanto il piú gli è dannoso. Che giova saper partire i conti e raccòrgli delle migliaia, de’ milioni de’ fiorini, de’ campi delle possessioni, se io non so partire con il bisognoso i miei beni superflui? La vera geometria sarebbe misurar sé e il prossimo con la misura della pietá e con il braccio della misericordia. O stolti uomini che dicono: — Io godo le possessioni che son mie: che ne hai tu da fare? — Oh, veramente l’uomo stolto si duole d’esser cacciato delle possessioni che furon insino del bisavol suo e gli son pervenute giuridicamente. Dimmi: chi ha posseduto quei campi mille anni sono? — Io non te ’l so dire — (sta bene) — né so di che nazione si fosse il possessore sessanta anni sono, non che cento. — O stolto uomo, non ti accorgi tu che tu non sei il padrone né lor furono i padroni? Eglino entrarono come lavoratori e non come signori.

Giomo. Questa cosa non si può negare.

Santi. Di chi sei stato tu lavoratore? Del tuo erede, e l’erede di quell’altro erede, e quell’altro di quell’altro. io non credo che una cosa comune, s’io non fallo per ignoranza, si possi appropriar sua per uso privato: questa possessione è cosa publica; onde la viene a esser come il mondo, tutta della generazione umana. La cognizione di queste cose vorrei che si misurasse. — Oh io so misurar le stelle, ridur le cose tonde in quadro! — Misurami l’animo dell’uomo e allora dirò che tu sappi assai. — Io so che cosa è linea retta. E io vorrei sapere quel che bisogna e saperlo fare, a far che un uomo sia retto e io esser retto rettamente e reggermi.

Pedone. Queste cose, che voi dite, son tutte strade intese e imparate per salute dell’uomo: è ben vero che non le vogliano sapere. [p. 64 modifica]

Giomo. Che accade rompersi adunque la testa su’ libri?

Pedone. Per aver notizia delle cose celesti, che sopra di noi son poste.

Santi. Che giova saper dove la gelata stella di Saturno alberghi o in che cerchio Mercurio corra? che mi giova saper questo? Farammi star mal contento quando Saturno e Marte saranno oppositi o vero quando Mercurio fará il suo tardo pesamento che ’l vegga Saturno? Piú presto imparerò queste cose che imparare che questi ci sono propizi dovunque si siano e non si posson mutare. Il continuo ordine de’ fati mena quelli, ed essendo d’immutabil corso, ritornano per li loro assegnati viaggi e gli effetti di tutte le cose o muovano o notano o veramente fanno ciò che accade. — A che ti giova — direbbe un galante uomo — aver notizia d’una cosa mutabile? — O vero ti significano l’avenire. — Sí risponderla: — Mi rileva a provedere a quella cosa che, volendo, si può fuggire? O sappi le tali cose o non le sappi, a ogni modo si faranno. Forse che noi facciamo gran provedimenti alla morte, che l’abbiamo certa inanzi agli occhi ogn’ora? La notte che ha da venire, o il giorno, non m’inganna mai per portar nuove cose; inganna certamente quello che interviene a chi no ’l sa: non so quello che avenir si debba, ma so quello che può intervenire. L’ora m’inganna se mi perdona, ma non mi perdona se m’inganna; imperò che, sí come so che tutte le cose possono accadere, certamente io aspetto le cose prospere e alle avverse sono apparecchiato.

Pedone. Santi, tu mi riesci per le mani un soffiziente bacalare: io non avrei credulo che tu sapessi la mitá del mezzo di ciò che tu di’; poi conosco la tua intenzione, perché tu penetri piú alto che non pare.

Santi. Verrò piú basso. Che mi gioverá egli saper reggere un cavallo e temprare con il freno il suo corso, e io esser di disiderii insaziabili sfrenatissimo? Io per me terrei per nulla vincere un uomo a combattere e essere vinto poi dalla collera. S’io avessi figliuoli, non farei imparar loro le virtú, acciò che si dicesse, ma acciò che loro disponessino l’animo a viver [p. 65 modifica] virtuosamente: il saper fare tutte l’arti vulgari l’ho per nulla; l’esser maestro di quelle che danno spasso agli occhi, me ne fo beffe, se non in tutto, per la maggior parte: solo gli farei attendere a quelle arti liberali che hanno cura della virtú.

Pedone. Quasi che voi v’accostate al mio animo, a quella parte dove io voleva ultimamente cadere con la mia dottrina: attendere a una parte di filosofia naturale, di alcuna morale e alcuna ragionevole.

Giomo. Or, cosí, entratemi nelle arti liberali, acciò che io guadagni di cotesto ragionamento qualche frutto.

Pedone. Quando si viene alle quistioni naturali, si sta al testimonio del geometra.

Santi. Lasciate dire a me circa a tutte l’arti liberali. Adunque potren dire che quello che l’aiuta è parte di sé.

Pedone. Molte cose ci aiutano, ma non per questo son nostre parti; anzi, se fossero parti, non ci aiutarebbono.

Santi. Ora che noi ci cominciamo ad intendere, il cibo è del corpo aiutorio, non di meno non è parte di quello. Il mestieri della geometria ci dá pur qualche cosa: cosí ella è necessaria alla filosofia come il fabro a lei; ma né ancóra il fabro è parte della geometria né lei è parte della filosofia; oltra di questo l’una e l’altra ha i suoi fini.

Giomo. Potens per terra, voi favellate alla sottile! Io perdo il filo, io son come insensato; egli mi pare intendere un poco, poi un altro pezzo non vo né in cielo né in terra.

Santi. Guarda se tu attignessi questa, per sorte: il savio cerca e sa le cagioni delle cose naturale, i numeri e misure delle quali il geometra perseguita, e fa conto di che materia sieno le cose celesti, che forza abbino e di che natura siano; il savio fa il corso e ricorso e alcune osservazioni per le quali salgano e scendono e alcuna volta mostrano di fermarsi, conciosia che alle cose celesti non è lecito fermarsi; il matematico raccoglie qual cagione mostri nel specchio le imagini; l’uomo savio lo sa; il geometra ti potrá dir questo, quanto debba esser discosto il corpo dalla imagine e qual debba esser la forma dello specchio e che imagine rappresenti; il filosofo ti proverá [p. 66 modifica] che ’l sole è grande; quanto egli sia grande te ’l dirá il matematico, il qual procede per un certo uso ed esercitazione, ma, acciò che egli proceda, gli conviene ottenere alcuni principii: ma l’arte non è in arbitrio di colui che da un’altra cerca il fondamento.

Giomo. Ci son certe cose che guastano i miei disegni.

Santi. Che son eglino quelle cose?

Pedone. Di grazia, non entriate in dispute, e non rompete il discorso, ché egli è bello.

Santi. La filosofia niente da nessuna altra arte dimanda, ma da terra inalza tutto il suo teatro; la matematica, per favellare e lasciarsi intendere, è una cosa che sta sopra, ciò è fabrica sopra gli altrui fondamenti, piglia i primi, per benificio de’ quali pervenghi a cose piú alte; se da se stessa andassi alla veritá e si potesse comprendere la natura di tutto il mondo, direi che fosse di grande utilitá alle nostre menti, le qual, trattando le cose celesti, crescono e traggono alcuna cosa dall’altro. Con una cosa sola, s’io non m’inganno, si fa perfetto l’animo e perito, per la scienzia immutabile del bene e del male, la quale solo alla filosofia si conviene; ma nessuna altra arte cerca alcuna cosa de’ beni e de’ mali: la filosofia circunda ciascuna virtú; la fortezza è disprezzatrice di tutte le cose che si temono, disprezza, provoca e spezza tutte le cose terribili le quali mettono sotto al giogo la nostra libertá. Dimmi: gli studi liberali fortificano la fortezza? La fede è bene santissimo del petto nostro; da nessuna necessitá ad ingannare è costretta, per nessun premio si corrompe; abruciami, dice ella, battimi, amazzami, mai ingannerò; ma quanto piú il dolore cercherá i secreti, ella piú profondamente gli nasconderá. Possono gli studi liberali far questi animi? La temperanza signoreggia alli piaceri e alcuni ne ha in odio e scacciali da sé, alcuni altri ne dispensa e a misura utile riduce né mai viene a quegli per essi proprio: sa che è ottima misura delle cose desiderabili, non quanto vuoi, ma quanto debbi pigliarne. La umanitá ti vieta che tu sia superbo alli tuoi compagni; viètati che tu sia avaro di parole, di cose, di affetti; ella è comune e facile a tutti, nessun male stima essere [p. 67 modifica] alieno, e il suo bene però grandemente ama, perché sa che deve esser bene per qualche uno altro. I liberali studi t’amaestrano in questi costumi? Non piú ti amaestrano in questo che nella semplicitá, nella modestia, nella temperanza la quale cosí perdona all’altrui sangue come al suo e sa che l’uomo non debbe usar l’uomo piú che non si conviene.

Pedone. Qui accaderebbe allegare le sètte degli stoici e de’ peripatetici.

Giomo. Che sa Santi di stuoie o pan pepati?

Pedone. Egli è forza che ne sappi, a come egli favella con fondamento.

Santi. Son contento d’allegare, e non vi maravigliate, ché io ebbi giá mio fratello mastro Cosimo, dotto in teologia, che mi fece studiare: però vi dico, che ’l peripatetico dice che voi stoici diciate cosí, dicendo che non si può pervenire alla virtú senza gli studii liberali. Come negate voi che quelli niente giovino alla virtú? Perché né senza il cibo si perviene alla virtú; non dimeno il cibo non si apartiene alla virtú.

Giomo. Io comincio a venirmi a noia da me medesimo.

Santi. Il legname niente giova alla nave, benché la nave non si faccia d’altro che di legname. Non ti bisogna adunque credere che una cosa si faccia per aiutorio di quello senza il che non si può fare.

Pedone. Si può ancóra dir questo, che senza gli studi liberali si può pervenire alla sapienza, imperoché, benché sia necessario imparare la virtú, non di meno non s’impara per gli studi liberali.

Santi. Perché non posso io credere che un uomo diventi savio, il quale non sappia lettere?

Giomo. (Ora mi viene egli voglia di partirmi, che voi cominciate a ribeccarvi insieme).

Santi. Conciosia che la sapienza non consista nelle lettere.

Giomo. Io sarò savissimo.

Santi. Gli effetti fanno l’uomo savio e non le parole.

Giomo. Tenetemela costí, non passate piú inanzi.

Pedone. Tu non ci lasci far bene stasera. [p. 68 modifica]

Giomo. Volete voi star qua su questi Marmi tutta la notte?

Santi. Orsú, contentianlo, andiancene a casa.

Pedone. Voleva pur finire il ragionamento.

Giomo. Un’altra volta: troppo è stato questo; ma io vi giuro che poche parole ne riporto a casa. Or non piú, andate lá, che veder vi poss’io duca ciascun di voi.