I Mille/Capitolo XXV

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Capitolo XXV. Melazzo

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CAPITOLO XXV.

MELAZZO.

 Il navigante
Che veleggiò quel mar sotto i vulcani1
Vedea nell’ampia oscurità scintille
Balenar d’elmi e di cozzanti brandi.
 (Foscolo).



Fu ben maliziosamente ingiusto colui, che trattò le vittorie del 60 di facili vittorie, vinte dai liberi italiani sulle truppe borboniche indigene e straniere!

Io vidi alcune pugne nella mia vita, e devo confessare che le battaglie di Calatafimi, Palermo, Melazzo, e primo ottobre, fanno onore ai militi che vi presero parte, e furon disputate con molto valore.

Quando su cinque o sei mila uomini nostri che pugnarono a Melazzo, circa un migliaio furon posti fuori di combattimento, ciò prova che non fu tanto facile vittoria. E le odierne battaglie ove s’azzuffano centinaia di mila uomini delle


[p. 117 modifica] prime truppe del mondo non presentano perdite più considerevoli in proporzione.

Il generale Medici, come abbiam detto, avea marciato per la costa settentrionale della Sicilia, da Palermo verso lo stretto di Messina, colla sua divisione, ed il generale borbonico Bosco con uno scelto corpo delle tre armi, superiore al nostro per le posizioni ed il numero, intercettava la strada principale appoggiandosi alla fortezza e città di Melazzo.

Già alcuni piccoli scontri erano accaduti nelle vicinanze di detta città. I nostri vi si eran condotti colla solita bravura, ed i cacciatori di Bosco non avean mancato alla loro riputazione.

Informato dal generale Medici della situazione, io profittai dell’arrivo a Palermo d’un corpo di volontari giunti in quel giorno dal continente e condotti dal generale Corte. Non permisi lo sbarco di quel corpo, e dalla capitale lo feci dirigere subito verso Melazzo.

M’imbarcai io stesso, e giunto al campo del generale Medici a Barcellona (mi sembra), si combinò di attaccare i nemici all’alba del giorno seguente.

L’alba del 20 luglio trovò i figli della libertà italiana impegnati coi Borbonici a mezzogiorno di Melazzo, ed impegnati in modo molto favorevole pei mercenari.

Praticissimi del terreno, i nemici aveano con molta sagacia profittato di qualunque accidentalità di quei ricchissimi campi. La loro destra [p. 118 modifica] scaglionata davanti alla formidabile fortezza di Melazzo, era protetta da quelle grosse artiglierie, ed aveva la sua fronte coperta da varie siepi di fichi d’India — trincee non indifferenti per chi deve assalirle e superarle.

Il centro delle rispettive riserve, sullo stradale che conduce in Melazzo, era coperto da un muro di cinta fortissimo, a cui s’eran praticate molte feritoie, e lo stesso muro coperto da folti canneti che ne rendevano l’assalto pericolosissimo. Dimodochè il nemico, ben riparato, con armi buone, osservava, scopriva e fucilava i nostri poveri militi armati d’armi pessime, e fallacemente coperti dai suaccennati canneti — impiccio per noi, trattenendo lo slancio dei nostri senza ripararli assolutamente.

La sua sinistra in possesso d’una linea di case a levante di Melazzo formava martello, e quindi fiancheggiava con un fuoco micidiale i nostri all’assalto del centro.

L’ignoranza del terreno, su cui si pugnava, fu la causa principale di perdite considerevoli per parte nostra, e molte cariche che si fecero sul centro nemico, quasi inespugnabile, potevano risparmiarsi.

Invano io era salito sul tetto di una casa per poter scoprire qualche cosa — invano avevo fatto caricare sullo stradale per lo stesso motivo.

Molti morti e molti feriti erano il risultato delle nostre cariche sul centro, ed i nostri poveri giovani erano respinti, senza aver potuto scoprire [p. 119 modifica] il nemico che di dietro il terribile muro dalle feritoie li fulminava.

Si durò così in una pugna ineguale ed accanita sin dopo il meriggio. A quell’ora la nostra sinistra avea ripiegato alcune miglia indietro e si rimaneva così scoperti da quella parte.

La nostra destra e centro, che si erano riuniti al comune pericolo, tenevano, ma con molte difficoltà e con perdite ben considerevoli.

Bisognava però vincere — e tale era il fatale animatore di quella stupenda campagna. — Bisognava vincere! e di ciò si persuada l’italiana gioventù.

Si tenti la vittoria cento volte, e se le cento volte manca al desiderato effetto, si provi la centunesima. — Pertinacia, tenacità, costanza vi vogliono nella guerra.

Le nostre perdite eran maggiori, quali non lo furono in qualunque pugna del mezzogiorno. La gente era stanca, il nemico avea comparativamente perduto pochissimo. Le sue genti fresche, intatte, e le sue posizioni formidabili. Eppure bisogna vincere! E lo ripeto! lo rammentino bene i nostri giovani concittadini — assuefatti a stancarsi con campagne di quindici giorni, — rammentino che noi, d’una generazione che passa, tanto lasciam da fare a loro, perchè non avemmo costanza, e che la redenzione di questa patria infelice dipende dal volerla tutti, e tutti contribuirvi, e sopratutto aver fiducia in noi stessi e nella vittoria quando sapremo farla piegare ad una volontà di ferro. [p. 120 modifica]

I Macedoni, gl’Inglesi, i Francesi, i Germani, gli Svedesi, gli Spagnuoli ebbero i loro periodi di supremazia militare. — Ricordiamo però che nessuno fece più dei Romani antichi, e che se i preti giunsero alla corruzione della nostra razza, noi nascemmo sulla terra ove nacquero i Romani, e che lavati dalla bruttura dei preti, torneremo a valer qualche cosa.

Io ho sorriso di disprezzo alle meraviglie dei chassepot2 con cui Bonaparte voleva spaventare tutto il mondo, ed il valore tedesco ha ben provato la millanteria dei servi della menzogna e della tirannide.

Ciò ci serva, e ci serva l’odierno esempio della Germania, il di cui entusiastico patriottismo caccia in questi giorni davanti a sé il creduto primo esercito del mondo.

Con dei conigli ladri come coloro che reggono oggi le sorti dell’Italia, ogni esercito può comparire il primo del mondo, giacchè essi non li vogliono i due milioni di militi che può dar la nostra Penisola; — a loro bastano pochi preposti, pubbliche sicurezze, benemeriti, ecc., per guardar loro la pancia.

Ripeto: gl’Italiani devono vincere finché sotto il calcagno straniero gemono i popoli che diedero vita ai Bronzetti ed ai Monti3. Ed il giorno in cui vi sia un uomo a reggerla — questa Italia — [p. 121 modifica] milite sarà ogni uomo capace di portare le armi; non più volontari, ma la patria servita da chi vuole e da chi non vuole. — Ed i mercenarii stranieri debbono trattarsi quali assassini, non coi guanti bianchi, come si trattarono sinora.

Or son pochi giorni, il Re di Prussia rifiutò di ascoltare le insolenti proposte del tiranno della Francia e cacciò il suo inviato. Ciò, ed altri pretesti dell’imperatore francese, sono il motivo della guerra. - E se l’Italia avesse un uomo che tenesse alla dignità nazionale, egli dovrebbe, per cominciare a lavare tanti oltraggi di quel masnadiero, dovrebbe mandar in galera il suo rappresentante Malaret, che la fa da padrone a Firenze, ed accoppiarlo con uno dei primi malfattori.

Dunque, bisognava vincere a Melazzo — e sin dopo il meriggio, tutte le condizioni della battaglia erano in favore del nemico, ed i figli della libertà italiana, non solo non avevano avanzato un passo, ma avean perduto terreno all’ala sinistra.

«Procura di sostenerti come puoi» diceva uno al generale Medici che comandava nel centro «io raccolgo alcune frazioni dei nostri e cercherò di portarle sul fianco sinistro del nemico, per girarlo».

Quella risoluzione decise della giornata. — Il nemico, incalzato di fianco dietro ai suoi ripari, cominciò a piegare, si caricò e gli si tolse un cannone che ci aveva fatto molto danno. — Esso [p. 122 modifica] reagì con una brillante carica di cavalleria, che il colonnello Missori respinse alla testa dei distaccamenti suddetti.

Piegando il nemico attaccato di fianco, il nostro centro potè superare i ripari, e la vittoria fu completa.

Invano la ritirata dei Borbonici era protetta dalle grosse artiglierie della piazza, e dai pezzi volanti di fuori — i nostri militi, disprezzando il grandinare dei moschetti e delle mitraglie, assaltarono Melazzo, e prima di notte erano padroni della città, avevano circondato il forte da tutti i lati ed innalzato barricate nelle strade esposte ai tiri della fortezza.

Il trionfo di Melazzo fu comprato a caro prezzo; il numero dei morti e dei feriti nostri fu immensamente superiore a quello del nemico. — I generali Cosenz, Corte e Corrao — allora colonnelli — furono tra i feriti. — E qui giova ricordare le armi pessime di cui han dovuto sempre servirsi i nostri poveri volontarii. — Colpa principale, il Governo Sardo.

Il destino del Borbone però era segnato, e perciò la capitolazione di Melazzo dopo quella di Palermo — Melazzo, che sostenuta dalla flotta nemica, poteva valere una Gibilterra.

Tale è il destino della tirannide boriosissima, quando potente, ed il popolo, cammello inginocchiato; — ma codarda, tremante quando il popolo leone invia i suoi ruggiti.

Bosco capitolava (mi pare il 23 luglio) rendendo [p. 123 modifica] la fortezza, artiglieria, munizioni, ecc.; e la divisione Medici marciava su Messina, di cui s’impadronì, ritirandosi la guarnigione borbonica nella cittadella.

A poco a poco comparivano all’appuntamento dello Stretto le altre divisioni Bixio e Türr4 venute dall’interno, e si formava una quarta divisione, Cosenz.

Tra i valorosi caduti a Melazzo, noi perdemmo i valorosissimi Poggi, genovese, ed il milanese Migliavacca.



  1. L’Etna ed i vulcani di Lipari e Stromboli.
  2. Prima della guerra, cioè prima dell’ottobre 1870.
  3. Bronzetti, trentino - Monti, romano.
  4. Il generale Türr, assente per malattia, aveva lasciato temporariamente il comando al colonnello Eber, altro pregiato ufficiale ungherese, corrispondente del Times.