I mercatanti/Atto I

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Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Stanza di negozio in casa di Pancrazio, con suoi banchi e scritture; e vari giovani che stanno scrivendo.

Pancrazio e Giovani.

Pancrazio. (Tre lettere di cambio oggi scadono, e conviene pagarle. Ma pagarle con che? Denari nello scrigno non ce ne sono. La roba conviene sostenerla per riputazione. Oh povero Pancrazio! siamo in rovina, siamo in precipizio; e perchè? Per cagione di quello sciagurato di mio figliuolo). (da sè) Avete estratto il conto corrente con i corrispondenti di Livorno? (ad un giovine)

Primo Giovine. Sì signore, l’ho estratto.

Pancrazio. Come stiamo? [p. 20 modifica]

Primo Giovine. Ella deve1 quattromila pezze.

Pancrazio. (Una bagattella!) E voi avete fatto il conto con quelli di Lione? (ad altro giovine)

Secondo Giovine. L’ho fatto; e siamo in debito di seimila lire tornesi2.

Pancrazio. (Meglio!) E con la Germania, voi, come stiamo? (ad altro giovine)

Terzo Giovine. Con tremila fiorini si pareggia il conto.

Pancrazio. (Va benissimo!) Ho capito tutto: non occorr’altro. I conti di Costantinopoli e di tutto il Levante li ho fatti. In quelle piazze son creditore di molto, e con un giro saldo facilmente gli altri conti. (Conviene dir così per riputazione, acciò3 i giovani non mi credan fallito. Pur troppo ho de’ debiti per ogni luogo, e non so come tirar innanzi). (da sè)

SCENA II.

Faccenda e detti.

Faccenda. Signore, vi son due giovani che dimandarlo di lei.

Pancrazio. Chi sono?

Faccenda. Uno è il primo giovine del negozio Lanzman; l’altro il cassiere di monsieur Saisson.

Pancrazio. (Saranno venuti per riscuotere le lettere di cambio). (da sè) V’hanno detto che cosa vogliono?

Faccenda. A me non han detto nulla. Ma ho sentito da loro stessi, mentre parlavano, certe cose che.... non vorrei che questi giovani mi sentissero.

Pancrazio. Andate tutti tre al Banco giro45, fatevi vedere. Se alcuno cerca di me, ditegli che fra poco vi sarò anch’io. Se vi sono persone che abbiano da riscuotere, dite loro che alla mia venuta soddisfarò tutti, e se vi sono di quelli che abbiano [p. 21 modifica] da pagare, riscuotete il denaro. Ho un piccolo affare, mi spiccio, e vengo subito.

Primo Giovine. (Ho paura che il nostro principale, in vece di venire al Banco, voglia andare a Ferrara). (piano al secondo giovine)

Secondo Giovine. (Eppure è un uomo di garbo; ma suo figlio l’ha rovinato). (piano all' altro giovine)

Terzo Giovine. (Quanti padri per voler troppo bene ai figliuoli rovinano la famiglia!) (partono li tre giovani)

SCENA III.

Faccenda e Pancrazio.

Pancrazio. Ora dite quello che volevate dirmi.

Faccenda. Ho sentito, come diceva, quei due giovani parlar sotto voce, e dire che dubitano del pagamento; che la ragione di vossignoria è in pericolo, e che tengono ordine, non ricevendo il denaro, di protestare6.

Pancrazio. Ah Faccenda, son rovinato!

Faccenda. Che mi tocca a sentire! Sento gelarmi7 il sangue nell’udir tai parole. Ma come mai, caro signor padrone, come ridursi in questo stato?

Pancrazio. Causa8 quello sciaurato di Giacinto mio figlio. L’ho messo in piazza, gli ho fatto credito, gli ho dato denari da trafficare, ha fatto cento spropositi, e per coprir lui, ho dovuto andar io in rovina.

Faccenda. Ma perchè dar a lui il maneggio? Perchè fidarsi tanto di un giovinotto?

Pancrazio. Sperava che vedendosi in mezzo a tanti onorati9 mercanti, impegnato in negozi, in traffichi, con lettere, con affari, si assodasse, badasse al serio, e lasciando le male pratiche, si mettesse al punto di fare onor alla casa e a lui medesimo. Mi sono ingannato, confesso di aver male pensato; ha fatto [p. 22 modifica] peggio, si è rovinato del tutto, ed ha seco precipitato il suo povero genitore.

Faccenda. Qui conviene pensare al rimedio.

Pancrazio. Non saprei dove gettarmi; son fuori di me medesimo.

Faccenda. Mi scusi: ha mai confidato nulla a monsieur Rainmere, a questo Olandese che si ritrova alloggiato in casa sua?

Pancrazio. Vi dirò, voleva dirgli qualche cosa, ma per tre ragioni mi sono trattenuto. Per la prima, sono a lui debitore di sette in ottocento ducati; per la seconda, voi sapete che madamigella Giannina, sua nipote, ha qualche inclinazione per mio figlio, e avendo ella di dote seimila lire sterline, che poco più, poco meno, fanno la somma di quarantamila ducati, se a me riuscisse di fare un tal matrimonio, spererei di rimettermi in piedi. Per questo procuro di tenermi in riputazione coll’amico; ma se sono costretto a render pubbliche le mie indigenze, ho perduto, posso dire, ogni speranza di risorgimento, ho perduto ogni cosa.

Faccenda. Dunque per queste ragioni...

Pancrazio. Ve n’è un’altra. Monsieur Rainmere ha qualche premura per Beatrice mia figlia. A un uomo ricco come lui, potrei sperar di darla con poca dote. Ma se a lui scopro le mie piaghe, tutte le mie speranze svaniscono, perdo il credito, e precipito i miei figliuoli.

Faccenda. Mi perdoni, il credito lo perde se in oggi non paga le cambiali, e se i creditori principiano a sequestrare gli effetti.

Pancrazio. Pur troppo è vero. Penso, rifletto e non so a qual partito appigliarmi.

Faccenda. Quei giovani aspettano; che cosa ho loro da dire?

Pancrazio. Se sono venuti per riscuotere le lettere, dite loro che questa mattina li vedrò a Rialto, che m’attendano al Banco, che farò loro un giro, oppure li pagherò in contanti, come vorranno.

Faccenda. Sì, signore, e dirò che dicano in che monete li [p. 23 modifica] vogliono. Ungheri, zecchini, doppie, quel che vogliono.10 Quando si è in pericolo di fallire, si procura sostenersi11; e se non crede uno, crede l’altro, e si acquista tempo sinchè si può. (parte)

SCENA IV.

Pancrazio, poi Faccenda.

Pancrazio.12Io sono stato sempre un uomo onorato, e tale sarò fino che viverò. Ho de’ debiti non pochi, ma13 ho de’ crediti e de’ capitali. Se le cose anderanno male, cederò ogni cosa, resterò in camicia, ma non sarò capace di un impostura.

Faccenda. Sono andati via.

Pancrazio. Che hanno detto?

Faccenda. Che l’attenderanno al Banco giro.

Pancrazio. Voglia il cielo, che vi possa andare.

Faccenda. Signor padrone, spero che la sorte questa mattina lo voglia consolare.

Pancrazio. In qual maniera?

Faccenda. Si ricorda vossignoria, che ieri le feci un piccolo discorso di quel medico, che aveva14 desiderio d’impiegare duemila ducati al sette per cento?

Pancrazio. Me ne ricordo, e mi sovviene ancora di avervi risposto, che il sette per cento non si poteva dare, che il sei alla mercantile si lascia correre, ma non più.

Faccenda. Eh, caro signor padrone, quando si ha bisogno, si paga anche l’otto, e anche il dieci.

Pancrazio. E così si va in rovina più presto, e così ha fatto mio figlio; ed io per liberarlo da simili aggravi, ho pagato in contanti, e son rimasto scoperto. Ma se non avessi fatto così, non avrei nemmeno cenere sul focolare.

Faccenda. Egli è qui in sala il signor Dottore; è venuto in persona a offerirglieli; l’ascolti, guardi se per il sei per cento [p. 24 modifica] vuol lasciare il denaro, e se può, si approfitti di questa occasione, che nel suo caso non può essere più necessaria.

Pancrazio. Faccenda caro, a prender questi denari ho le mie difficoltà. Se per mia disgrazia i miei creditori mi stringessero per li pagamenti, e dimani fossi costretto a ritirarmi15, questo povero galantuomo, che ora mi dà il suo denaro, domani lo avrebbe perduto, ed io avendolo in tal guisa tradito, diverrebbe il mio fallimento criminale, ed oltre le mie sostanze, perderei anche la riputazione. Fallire per disgrazia, merita compatimento; fallire per malizia, è un delitto da assassini di strada.

Faccenda. Non vuole nemmeno udirlo?

Pancrazio. Fate che venga, gli parlerò. Se si contenterà dell’onesto, supplicherò monsieur Rainmere che li prenda per me. Così il Dottore non li perderà, ed io me ne varrò, se vedrò che possano servirmi a rimaner in piedi, con la speranza di rimettermi e di rimediare al disordine in cui ora sono.

Faccenda. Ma come mai un uomo di tanta onestà, di tanta prudenza, si è ridotto in istato di dover fallire?

Pancrazio. Disgrazie sopra disgrazie. Fallimenti de’ corrispondenti, perdita di roba in mare; e poi mio figlio, quello sciagurato di mio figlio, senza amore, senza riputazione16.

Faccenda. (Povero mio padrone! è veramente degno di compassione) (da sè; parte)

SCENA V.

Pancrazio, poi il Dottor Malazucca.

Pancrazio. Tremo, quando penso che ho da parlare di queste cose a monsieur Rainmere. L’uomo più onorato di questo mondo, il più buon Olandese ch’io abbia mai conosciuto: uomo sincero, di un ottimo cuore. Ho timore che si scandalezzi di me, che mi perda la stima e che mi abbandoni. Anderò con delicatezza, e se vedrò in lui qualche mutazione, mi regolerò con prudenza. [p. 25 modifica]

Dottore. Servitor di vossignoria, signor Pancrazio.

Pancrazio. Fo riverenza al signor dottor Malazucca.

Dottore. Son venuto a incomodarvi.

Pancrazio. Mi comandi: in che posso servirla?

Dottore. Il vostro servitore Faccenda vi ha detto nulla?

Pancrazio. Mi ha detto che vossignoria vorrebbe impiegare duemila ducati: è egli vero?

Dottore. È verissimo. In tanti anni che faccio la professione faticosa del medico, ecco quanto ho avanzato, e l’ho avanzato a forza di risparmiare. Son ormai vecchio, e in vece che l’età mi faccia moltiplicar le faccende, queste mi vanno anzi mancando, perchè il mondo è pieno d’impostori; e chi opera secondo le buone regole di Galeno, non è più stimato. Pazienza! Ho questi duemila ducati, vorrei impiegarli, e vorrei che la rendita mi bastasse per vivere.

Pancrazio. Vuol far un vitalizio?

Dottore. No, non voglio perdere il capitale.

Pancrazio. Dunque come vorrebbe fare? Duemila ducati, se gl’investe in depositi, o in censi, le renderanno il quattro o il cinque per cento.

Dottore. Eh, i censi non son sicuri. Vorrei impiegarli senza pericolo, e vorrei il sette per cento.

Pancrazio. Sarà difficile che ritrovi il sette con la sicurezza.

Dottore. Mi hanno detto che i mercanti li prendono al sette e anche all’otto per cento.

Pancrazio. Quando ne hanno bisogno, può darsi.

Dottore. Voi non ne avete bisogno?

Pancrazio. Non ne ho bisogno, ma per servirla, al sei per cento potrebbe17 darsi che li prendessi.

Dottore. Il sei è poco, almeno il sei e mezzo.

Pancrazio. Basta, si trattenga qui un momento, se non ha premura, tanto che vada a fare certi conti con uno de’ miei corrispondenti, e torno da lei. [p. 26 modifica]

Dottore. Son qui: non parto, se non tornate.

Pancrazio. Vengo subito. (Voglio prima parlare coll’Olandese, e poi qualche cosa risolverò). (da sè) Il denaro lo ha seco?

Dottore. Sì, l’ho qui in tanto oro. Lo porto sempre meco, per paura che non me lo rubino.

Pancrazio. Stimo assai che porti indosso quel peso.

Dottore. Lo porto volentieri. L’oro è un peso che non incomoda niente affatto.

Pancrazio. (Povero Dottore! mi fa compassione. Se fossi un uomo senza coscienza, gli farei perdere in un momento quello che per tanti anni ha procurato avanzare18. (da sè; parte)

SCENA VI.

I Dottor Malazucca.

Glieli darò al sei e mezzo, per non tenerli più in tasca19. Ma quando troverò di darli al sette, li leverò al signor Pancrazio, e li darò a chi ne avrà più bisogno. Intanto ch’egli torna, voglio contarli. Iersera mi parve che ci fossero due zecchini di più. Non vorrei perderli, se fosse la verità. (tira fuori la borsa, versa il denaro sul tavolino, e si pone a contare) Oh che bell’oro! oh che bei zecchini! E pure li ho fatti tutti a tre o quattro lire alla volta. Tanti medici, che ne sanno meno di me, hanno per paga zecchini e doppie; ed io, povero sfortunato, non ho mai potuto avere più di un ducato, e ho dovuto contentarmi sino di trenta soldi. Eppure ho fatto duemila ducati a forza di mangiar poco, bevere acqua, e tirar qualche incerto20 dagli speziali.

SCENA VII.

Giacinto, Lelio e detto.

Giacinto. Venite qui, amico, che vedremo se v’è il cassiere.

Dottore. (Copre col mantello i denari sul tavolino.) [p. 27 modifica]

Lelio. In ogni maniera bisogna ritrovare questi trenta zecchini. Caro Giacinto, siete nell’impegno.

Giacinto. Li troveremo senz’altro. Mi dispiace che non vi sia il cassiere. Chi diavolo è colui? (a Lelio)

Lelio. Quegli è un medico. Lo conosco.

Giacinto. Fo riverenza a vossignoria. (al Dottore)

Dottore. Servitor suo.

Giacinto. Mi dica, signore, ha ella nessun rimedio per i calli? (scherzando)

Dottore. Perchè no? Se diceste davvero, ho un segreto mirabile.

Giacinto. Sentite che pezzo di uomo! Ha il secreto per i calli. (a Lelio, deridendolo)

Lelio. Caro amico, non ci perdiamo in barzellette. Pensate a trovare trenta zecchini, che vi vogliono per l’abito che avete promesso alla Virtuosa.

Giacinto. Se avessi la chiave dello scrigno, li troverei subito. Aspettiamo che venga il cassiere.

Lelio. Basta; pensate a mantenere la vostra parola.

Giacinto. Son curioso di sapere che cosa fa quel Dottore appoggiato sopra del tavolino. (a Lelio)

Dottore. (Vorrei che venisse il signor Pancrazio). (da sè)

Giacinto. Mi dica, signore, comanda nulla? (al Dottore)

Dottore. Sto aspettando il suo signor padre.

Giacinto. Se vuole alcuna cosa dal negozio, posso servirla ancor io.

Dottore. L’interesse per cui son qui, ho da trattarlo col principale.

Giacinto. Ed io chi sono? Non sono principale quanto lo è mio padre? Non sa vossignoria che in piazza Giacinto Aretusi ha la sua ragione cantante, e che faccio i primi negozi di questa città? Se ella è qui per affari di negozio, può parlare con me.

Dottore. Vi dirò, signore, ho questi duemila ducati da impiegare, e trattava di farlo col vostro signor padre.

Giacinto. (Ehi, guarda: zecchini!) (a Lelio, piano)

Lelio. (Verrebbero a tempo). [p. 28 modifica]

Giacinto. Che dice mio padre? (al Dottore)

Dottore. Non mi vorrebbe dar altro che il sei per cento, ma io per meno del sette non glieli posso fidare.

Giacinto. Se vuole il sette per cento, lo darò io.

Dottore. Ma voi, signore, siete figlio di famiglia?

Giacinto. Figlio di famiglia? Un mercante che traffica del suo, indipendente dal padre, se gli dice figlio di famiglia? Che dite, signor Lelio? Sentite che sorta di bestialità.

Lelio. Quel signore è compatibile. Un medico non ha obbligo di sapere le regole mercantili, e molto meno di conoscere tutti i mercanti.

Dottore. È verissimo; io non so più di così. Conosco il signor Pancrazio, e non conosco altri.

Giacinto. E me non mi conosce?

Dottore. So che siete suo figlio.

Giacinto. E non sa niente di più?

Dottore. Non so di più.

Giacinto. Caro amico, informatelo voi. (a Lelio)

Lelio. Vossignoria sappia che il signor Giacinto negozia del suo...

Giacinto. Che ha nel Banco trentamila ducati. Ditegli tutto.

Lelio. IL signor Giacinto non è figlio di famiglia...

Giacinto. Perchè tiene la sua firma a parte, e che sia il vero, prendete, fategli vedere queste lettere di cambio, queste accettazioni.

Lelio. Ecco qui, guardate: Al signor Giacinto Aretusi di Venezia. Vedete? Accetto ad uso ecc., Giacinto Aretusi. Lettere da lui pagate.

Dottore. È verissimo, ma...

Giacinto. E poi, resti servita, signore. Questo è il mio banco, e quello è di mio padre. Osservi come sono intitolati questi libri: Cassa Giacinto Aretusi, Giornale, Libro Mastro, Salda conti, Registro, Copialettere. Non gli faccio vedere tutte queste cose per volere i suoi denari; non ne ho bisogno, e non ne so che farne. Faccio per giustificare quel che ho detto, e per farle vedere che sono un uomo, e che non sono un ragazzo.

Dottore. Signore, vi prego, non vi riscaldate. Ho piacere di [p. 29 modifica] essere illuminato, e conoscere in voi un mercante di credito, indipendente dal padre. Anzi, se mai...

Giacinto. Non mi parlate di denaro, che non ne voglio.

Lelio. (Non ve li lasciate scappare). (a Giacinto, piano)

Giacinto. (Lasciatemi fare la mia professione, come va fatta). (piano a Lelio)

Dottore. Mi dispiace che il signor Pancrazio non viene, ed io ho una visita che mi preme.

Giacinto. Quanto gli voleva dar mio padre di frutto?

Dottore. Il sei per cento.

Giacinto. Eh, lo compatisco. Quando trova i merlotti, li prende. Non dico per dir male di mio padre, ma tutti questi mercanti vecchi fanno così; stanno sul piede antico. Tanto vogliono pagare sopra il denaro che prendono adesso che gli effetti mercantili si vendono di più, quanto pagavano già trenta o quarant’anni, che si vendevamo meno.

Dottore. Oggi potrebbero dare qualche cosa di più.

Giacinto. A me quando mi è premuto, per fare qualche buon negozio, ho pagato sino l’otto per cento.

Lelio. E anche il dieci.

Giacinto. No, no, amico. Non sono mai stato in questo caso. L’otto sì, ma il dieci mai.

Dottore. Dunque vossignoria non avrebbe difficoltà di pagare l’otto per cento?

Giacinto. Se ne avessi bisogno, ma non ne ho bisogno.

Lelio. Ma i denari ai mercanti profittano sempre il doppio.

Giacinto. Se ho lo scrigno pieno, che non ne so che fare!

Dottore. Caro signore, potrebbe da un momento all’altro venirgli l’occasione di servirsene.

Lelio. Quante volte arrivano dei casi che non si prevedono?

Dottore. La prego, signore, metta ella una buona parola per me. (a Lelio)

Lelio. Via, finalmente è un medico, di cui potreste21 un giorno avere anche bisogno. (a Giacinto) [p. 30 modifica]

Dottore. In verità, la servirò con tutto il cuore.

Giacinto. Di doppie e di filippi son pieno da per tutto. Se vi fosse una partita di zecchini, forse forse la prenderei, per ispedirli in Costantinopoli.

Dottore. Per l’appunto sono tanti zecchini. Tutti di Venezia. Due mila ducati in tanti zecchini.

Lelio. Volete di più? Ecco il vostro caso. (a Giacinto)

Giacinto. A quanto per cento? (a/ Dottore)

Dottore. Almeno almeno all’otto.

Giacinto. All’otto poi...

Lelio. Via, vorrete far torto a questo galantuomo? Vorrete profittare per il bisogno ch’egli ha di impiegare il di lui denaro? Fate con lui quello che avete fatto cogli altri. Dategli l’otto per cento, e facciamo la cosa finita.

Giacinto. Non so che dire. Siete tanto mio amico, che non posso dirvi di no. Li prenderò all’otto per cento.

Dottore. Sia ringraziato il cielo.

Giacinto. Il denaro dove lo ha?

Dottore. Eccolo qui. Se vuole che lo contiamo.

Giacinto. A contarlo si sta molto. Venga qui, pesiamolo a marco.

Dottore. Che è questo marco?

Giacinto. Pesiamolo tutto ad un tratto, che tornerà il conto anche a lei.

Dottore. Se mi tornerà il conto, lo vedremo.

Giacinto. Lasci fare a me. Due mila ducati hanno ad essere cinquecento e sessantaquattro zecchini.

Dottore. Meno sei lire.

Giacinto. E vero, cinquecento sessantatrè e quattordici. Sa fare i conti bene vossignoria.

Dottore. Li ho contati tante volte.

Giacinto. Subito li peso. (va al banco a pesare li zecchini)

Lelio. (Se fossi in voi, li prenderei senza pesare), (piano a Giacinto)

Giacinto. (Queste sono cose che vi vogliono per colorir la faccenda), (piano a Lelio)

Dottore. (La sorte mi ha voluto aiutare. Ho guadagnato, dal sei [p. 31 modifica] all’otto per cento, quaranta ducati all’anno. In cento visite non guadagno tanto). (da sè)

Giacinto. Prenda, signore, quattro zecchini di più.

Dottore. Di più? Che abbia fallato a contare?

Giacinto. Il peso porta così. Questo è denaro suo. Son un galantuomo. Non voglio quel che non è mio.

Dottore. Oh onoratissimo signor Giacinto. Voi siete il primo galantuomo del mondo.

Giacinto. Ora gli faccio il suo riscontro. E quanto più presto verrà a prendere i suoi denari, mi farà più piacere.

Dottore. Sì, signore, da qui a qualche anno.

Lelio. Oh via, ora non è tempo di discorrere di queste cose. Fategli la sua cauzione. (a Giacinto)

Giacinto. Presto gliela faccio. (va a scrivere al banco)

Lelio. Non potevate capitare in mani migliori. (al Dottore)

Dottore. È verissimo. La sorte mi ha favorito.

Lelio. Vi consiglierei partire, prima che venisse il signor Pancrazio. (al Dottore)

Dottore. Perchè? Anzi vorrei dirgli, che non mi occone altro da lui.

Lelio. Se quel vecchio avaro sa che suo figliuolo ha preso denari all’otto per cento, è capace di sconsigliarlo. (al Dottore)

Dottore. Il signor Giacinto negozia del suo.

Lelio. È vero, ma alle volte si lascia consigliar da suo padre.

Dottore. Presto dunque. Avete finito, signore? (a Giacinto)

Giacinto. Ho finito. Legga, se va bene.

Dottore. (Legge borbottando) Va benissimo.

Giacinto. Venga ogni sei mesi, che avrà i suoi frutti puntuali.

Dottore. Non occorr’altro. Signore, la riverisco e la ringrazio.

Giacinto. Ringrazi il signor Lelio.

Dottore. Vi sono tanto obbligato. (a Lelio)

Lelio. Quando posso far del bene agli amici, lo faccio volentieri.

Dottore. Che siate tutti due benedetti. (Fortuna, ti ringrazio: ho impiegati bene li miei denari. Son contentissimo). (da sè; parte) [p. 32 modifica]

SCENA VIII.

Giacinto e Lelio.

Giacinto. Questo dottore è il più bravo medico del mondo.

Lelio. Perchè?

Giacinto. Perchè con questo recipe ha rimediato alle mie piaghe.

Lelio. Io vi ho fatto il mezzano. Voglio la senseria.

Giacinto. Tutto quel che volete. Siete padrone di tutto.

Lelio. Prestatemi venti zecchini.

Giacinto. Volentieri. Sapete chi sono. Per gli amici darei anche la camicia. Prendete, questi sono venti zecchini.

Lelio. E i trenta per l’abito da dare alla Virtuosa?

Giacinto. Volete li dia a voi? Volete andar voi a fare la spesa?

Lelio. Sì, se volete, vi servirò io. Comprerò quel drappo che avete scelto, e lo porterò a madama in nome vostro.

Giacinto. Bravissimo; mi farete piacere, prendete: questi sono li trenta zecchini, e ditele che mi voglia bene.

Lelio. E obbligata a volervene. Voi l’avete levata dalle miserie, ed avete fatta la sua fortuna.

Giacinto. E farò ancor di più, se avrà giudizio.

Lelio. La sposerete?

Giacinto. Sposarla poi no.

Lelio. V’aspetto al caffè.

Giacinto. Sì, ci rivedremo.

Lelio. (Povero gonzo! Egli spende, ed io mi diverto alle di lui spalle). (da sè; parte)

SCENA IX.

Giacinto solo.

Questi denari son venuti a tempo! Finalmente non glieli ho già truffati: li ho presi all’otto per cento, e se non pagherò io, pagherà mio padre. Non posso stare io senza denari, e quando sono pochi, non mi bastano. Cogli amici sono di buon cuore; con le donne son generoso; mi piace un poco giuocare; la [p. 33 modifica] sera non posso star senza un poco di conversazione. Casino a Venezia, casino in campagna, gondola, palchi, osteria, tutte cose necessarie per far quel che fanno tanti altri. Oh, mi dirà alcuno, fallirai, sarai cagione che fallirà anche tuo padre; e per questo? Ci aggiusteremo, e torneremo in piazza.

SCENA X.

Corallina e detto.

Corallina. Signor padroncino, ho piacere di trovarvi solo; ho bisogno assai di parlarvi.

Giacinto. Son qui, parlate. Avete bisogno di nulla?

Corallina. Avrei bisogno che mi restituiste quei cento e cinquanta ducati, che vi ho prestati.

Giacinto. Non me li avete dati a cambio? Non vi pago il dieci per cento?

Corallina. Sono due anni che non mi date un soldo. Ho bisogno di valermene, e voglio i miei denari.

Giacinto. Volete i vostri denari?

Corallina. Certamente. E se non me li darete, lo dirò a vostro padre, e sarà finita.

Giacinto. E avreste tanto cuore di tradire il vostro Giacinto?

Corallina. Io non ho bisogno delle vostre parole. Voglio i miei denari.

Giacinto. So pure che una volta avevate22 dell’amore per me.

Corallina. Bella maniera per farsi amare! Nemmeno darmi il frutto de’ poveri miei denari.

Giacinto. Via, siate buona, e ve li darò.

Corallina. È un pezzo che mi dite, ve li darò, ma non si vedono venir avanti.

Giacinto. Volete il frutto, o volete il capitale?

Corallina. Voglio tutto quel che mi viene.

Giacinto. Via, che cosa vi viene? [p. 34 modifica]

Corallina. Cento e cinquanta ducati di capitale, e trenta de’ frutti.

Giacinto. Non volete altro?

Corallina. Questo, e non altro.

Giacinto. Certo, certo, non volete altro?

Corallina. Signor no, non voglio altro.

Giacinto. Eh furba, furba.

Corallina. Perchè mi dite così?

Giacinto. Perchè m’hai rapito il cuore.

Corallina. Eh, che non ho bisogno di zannate. Voglio i miei denari.

Giacinto. Sì, cara, ve li darò.

Corallina. Tanti anni che servo in questa casa, mi sono avanzata cento cinquanta ducati a forza di stenti e di fatiche, e con tante belle promesse me li levate dalle mani, e mi assassinate così? Sono una povera donna, li voglio; lo dirò al padrone, ricorrerò alla Giustizia. Sia maladetto quando vi ho creduto, quando ve li ho dati, quando vi ho conosciuto.

Giacinto. Corallina. (con vezzo)

Corallina. Il diavolo che vi porti.23

Giacinto. Sentite questo suono? (fa suonar le monete nella borsa)

Corallina. Oh quanti zecchini, signor padrone! Quanti denari!

Giacinto. Credete che v’abbia mangiato i vostri quattrini? Sono qui in questa borsa, e ogni anno col frutto de’ frutti si aumenterebbe il capitale, e adesso vi è di capitale cento e ottanta ducati, e questi ve ne frutterebbero diciotto, e l’anno venturo di più, ed ogni anno sempre crescerebbe la somma; cosicchè, in pochi anni, con cento e cinquanta ducati si duplicherebbe il capitale, e vi formereste la dote. Ma già che volete li vostri denari, ve li sborso, ve li do. Non ne vo’ più saper nulla. (mostra di voler levar i denari dalla borsa)

Corallina. Fermate un poco, fermate. Non siate così furioso. [p. 35 modifica] Ho detto che voleva i miei denari, supposto che non mi voleste pagar i frutti.

Giacinto. Non so niente. Vedo che non vi fidate, ed io vi voglio soddisfare. (come sopra)

Corallina. Ditemi, in grazia, in quanti anni diverrebbero quattrocento?

Giacinto. Nelle mie mani, m’impegno in pochissimo tempo.

Corallina. Ma pure?

Giacinto. In tre o quattro anni al più.

Corallina. Ditemi: e se fossero adesso trecento, nel medesimo tempo diverrebbero seicento.

Giacinto. Con la stessa regola, non v’è dubbio.

Corallina. Sentite, in confidenza. Ho prestati cento e cinquanta ducati anche al vostro signor padre, ma non mi paga altro che il sei per cento.

Giacinto. Fate una cosa. Procurate che ve li renda, e venite da me, che vi darò il dieci.

Corallina. Son quasi in istato di farlo.

Giacinto. Ma poi un giorno o l’altro tornerete da capo con volere i vostri denari, non vi fiderete, mi farete andar in collera, onde è meglio ch’io ve li dia adesso.

Corallina. No, caro signor Giacinto, li tenga. Mi faccia questa carità.

Giacinto. Via, per farvi piacere, li terrò.

Corallina. E gli porterò quegli altri, quando il signor Pancrazio me li avrà restituiti.

Giacinto. Ma sopra tutto badate che non si sappia; non parlate con nessuno, non lo dite nemmeno ai vostri congiunti. Neppure al vostro amoroso.

Corallina. Oh, io amanti non ne ho.

Giacinto. Eh, ti conosco.

Corallina. No, davvero.

Giacinto. Vuoi far all’amore con me?

Corallina. Oh, col padrone non m’impiccio.

Giacinto. Vien qui, fammi una finezza. [p. 36 modifica]

Corallina. Oh certo! Chi vi pensate ch’io sia? Non fo finezze a nessuno io.

Giacinto. Dammi solamente la mano in segno d’amicizia.

Corallina. Nemmeno, nemmeno. Le mani ognuno le tenga a sè.

Giacinto. Siete molto delicata. La mano si porge senza malizia.

Corallina. Io sono così. Neppure un dito24.

Giacinto. Nemmeno un dito? Se tu mi porgi25 un dito, ti regalo due zecchini.

Corallina. Oh sì, mi darete due zecchini per porgervi un dito!

Giacinto. Te li do da galantuomo.

Corallina. Mi fate venir da ridere.

Giacinto. Eccoli qui: due zecchini per un dito, (li leva dalla borsa)

Corallina. Qual dito vorreste?

Giacinto. Mi basta anche il dito mignolo.

Corallina. Due zecchini li buttate via.

Giacinto. Basta, mi rimetterò alla vostra discretezza.

Corallina. Che zecchini sono?

Giacinto. Di Venezia. (glieli fa vedere)

Corallina. Oh come son belli! (prendendolo per la mano)

Giacinto. Volete che vi porga il dito?

Corallina. Se mi avete data la mano.

Giacinto. È vero, e non me n’era accorto.

Corallina. Via, datemi li zecchini.

Giacinto. Volentieri. Sono qui. Questi due zecchini son vostri. Li metto nella borsa, e vi frutteranno ancor essi il dieci per cento, e anderà il frutto sopra il capitale. Animo, Corallina, allegramente, e quando avete bisogno di denaro, venite da me. (parte)

SCENA XI.

Corallina, poi Pasquino.

Corallina. Questi due zecchini mi dispiace che vadano in quella borsa; ma pazienza, in pochi anni avrò fatto un bel capitale. Se posso aver i denari dal signor Pancrazio, felice me! Mi [p. 37 modifica] deve anche non so quanti mesi di salario; voglio unirli tutti, e tutti darli al signor Giacinto, al dieci per cento.

Pasquino. Corallina, ti vorrei dire due parole.

Corallina. Sì, il mio caro Pasquino, son qui che ti ascolto.

Pasquino. Quando pensi che facciamo questo matrimonio?

Corallina. Presto.

Pasquino. Ma quando?

Corallina. Da qui a tre o quattro anni.

Pasquino. Sei matta? Perchè vuoi aspettar tanto?

Corallina. Per cagion della dote!

Pasquino. Non l’hai la tua dote?

Corallina. L’ho, è vero; ma intanto si va aumentando.

Pasquino. S’aumenterà dopo il matrimonio.

Corallina. No, allora quel ch’è fatto, è fatto.

Pasquino. Ma dov’è la tua dote?

Corallina. Zitto, non si ha da sapere.

Pasquino. Nemmen io l’ho da sapere?

Corallina. Signor no.

Pasquino. Ma se ho da essere tuo marito.

Corallina. Ma non lo sei ancora.

Pasquino. Corallina, ho paura che vi sia dell’imbroglio.

Corallina. Che imbroglio?

Pasquino. Voglio sapere dove è la tua dote.

Corallina. Te lo dirò, ma non lo dir a nessuno.

Pasquino. Non dubitare, che non parlo.

Corallina. È nelle mani del signor Giacinto.

Pasquino. E si va aumentando?

Corallina. Sì, mi paga il dieci per cento, e va il frutto sopra il capitale; in poco tempo si raddoppierà; ma guarda26 non lo dir a nessuno.

Pasquino. Non v’è pericolo. Ma non si potrebbe maritarsi, e lasciar che la dote crescesse?

Corallina. Certamente che si potrebbe. [p. 38 modifica]

Pasquino. Pensa, e risolvi.27

Corallina. Ma di quel che t’ho detto, zitto.

Pasquino. Zitto.

Corallina. (Se sapessi come far entrar in quella borsa degli altri zecchini! Basta, m’ingegnerò). (da sè; parte)

SCENA XII.

Pasquino, poi Faccenda.

Pasquino. Per altro, se ha da accrescersi la dote di mia moglie, l’ho da sapere ancor io.

Faccenda. Amico, ho veduto che parlavi con Corallina; va innanzi questo matrimonio?

Pasquino. Il matrimonio rimane indietro per cagione della dote.

Faccenda. Come della dote? Non ti capisco.

Pasquino. Ti dirò in confidenza, ma non dir niente a nessuno.

Faccenda. Oh, non v’è dubbio.

Pasquino. Corallina ha dato dei denari al signor Giacinto, ed egli le paga il dieci per cento, e va il capitale sopra il frutto della dote.

Faccenda. (Ho inteso, stanno freschi). (da sè) E non seguirà questo matrimonio, se il signor Giacinto non rende questi denari a Corallina?

Pasquino. Tu vedi bene: è la dote.

Faccenda. Amico, t’auguro buona fortuna.

Pasquino. Obbligato. Siamo tutti in casa, staremo allegri. Caro Faccenda, ti prego, non lo dire a nessuno.

Faccenda. Non parlo, non dubitare.

Pasquino. È una gran bella cosa la segretezza. (parte)

Faccenda. (Vado a dirlo al signor Pancrazio). (da sè; parte) [p. 39 modifica]

SCENA XIII.

Camera in casa di Pancrazio.

Pancrazio ed un Giovine.

Pancrazio. Dite a monsieur Rainmere, se vuol favorire di venire a bevere il tè; e poi guardate se vi fosse più quel medico; se vi è, che aspetti un poco, o che ritorni dopo pranzo.

Giovine. Sarà servita. (parte)

Pancrazio. Non sono mai stato in tanti impicci, in tanti affanni: si tratta del mio stato, della mia riputazione. Il bilancio che presto presto ho fatto28 sopra i conti correnti, mi fa scoperto di diecimila ducati. Finalmente non è una gran somma: ma ciò non ostante, se non pago queste lettere, vanno in protesto, mi manca il credito, e per poco dovrò fallire. Conviene rimediarvi, se si può. Ecco qui l’Olandese: egli mi può aiutare, ma egli è uomo delicato, ne so come contenermi.

SCENA XIV.

Monsieur Rainmere e detto; poi un Giovine.

Rainmere. Buon giorno, signor Pancrazio.

Pancrazio. Buon giorno, monsieur Rainmere. Perchè col cappello e col bastone?

Rainmere. Andava fuori di casa.

Pancrazio. Così a buon’ora? A che fare?

Rainmere. A fumare una pipa col capitano Corbrech.

Pancrazio. Non volete prima bever il tè?

Rainmere. Sì, beviamo il tè.

Pancrazio. Chi è di là?

Giovine. Signore.

Pancrazio. Dite che portino il tè.

Giovine. Il medico, signore, è andato via.

Pancrazio. Buon viaggio. Che portino il tè. [p. 40 modifica]

Giovine. Sarà servita. (parte)

Pancrazio. Monsieur Rainmere, sediamo un poco.

Rainmere. Obbligato. (sedano)

Pancrazio. Per quel che sento, spero che non anderete via così presto.

Rainmere. Anderò col capitano Corbrech il mese venturo.

Pancrazio. Non vorrei che venisse quel giorno. La vostra compagnia mi è carissima.

Rainmere. Bene obbligato.

Pancrazio. Questi tre mesi che vi siete degnato di stare in mia casa, mi sono sembrati tre giorni.

Rainmere. Bene obbligato.

Pancrazio. Dovreste star qui tutto questo inverno.

Rainmere. Non posso.

Pancrazio. Madamigella Giannina vostra nipote ci sta volentieri a Venezia.

Rainmere. Mia nipote è più italiana che olandese.

Pancrazio. È nata in Olanda, ma da fanciulla l’hanno condotta in Italia. Però conserva un certo non so che, un certo serio nobile e grazioso, che non è carattere così ordinario in queste nostre parti.

Rainmere. Mia nipote studia volentieri.

Pancrazio. So che a Milano, dove è stata quindici anni, era l’idolo del paese; e a Venezia, in questi pochi mesi, si è fatta adorare.

Rainmere. Bene obbligato.

Pancrazio. La volete condurre in Olanda?

Rainmere. Farò tutto quello che piace a lei.

Pancrazio. La dovreste maritare in Venezia.

Rainmere. La mariterò dove a lei piacerà di essere maritata.

Pancrazio. Volete che le troviamo un partito a proposito?

Rainmere. Bisognerebbe trovare un marito che piacesse a lei, d’una famiglia che piacesse a me.

Pancrazio. Caro amico, datemi licenza che vi parli con libertà. La mia casa vi dispiacerebbe? [p. 41 modifica]

Rainmere. Oh, signor29 Pancrazio!

Pancrazio. Vi degnereste di casa mia?

Rainmere. Mi fate30 onore.

Pancrazio. Mio figlio vi piacerebbe?

Rainmere. Questo ha da piacere a mia nipote.

Pancrazio. E se piacesse a lei, voi sareste contento?

Rainmere. Perdonate.... non sarei contento.

Pancrazio. No? Per qual cagione?

Rainmere. Perdonate.

Pancrazio. Dunque non istimate la mia casa?

Rainmere. Mi maraviglio. La darei a voi.

Pancrazio. E a mio figlio no?

Rainmere. No.

Pancrazio. Ma perchè a me sì, e a lui no?

Rainmere. Perdonate.

Pancrazio. Ditemi almeno il perchè.

Rainmere. Voi siete onest’uomo.

Pancrazio. E mio figlio?...

Rainmere. Perdonate, non è puntuale.

Pancrazio. Come lo potete dire?

Rainmere. Ho prestato a lui cento zecchini, e non me li ha restituiti.

Pancrazio. (Ah disgraziato!) (da sè) Se egli non ve li ha restituiti, ve li restituirò io. Vi fidate di me?

Rainmere. Sì31.

Pancrazio. E se vi risolvete di concedere vostra nipote a mio figlio, la dote la riceverei io, e ne sarei il debitore.

Rainmere. Certamente.

Pancrazio. Dunque volete che facciamo questo matrimonio?

Rainmere. Perdonate.

Pancrazio. Ho capito. Non avete di me quella fede che dite d’avere. Non mi credete quell’uomo onesto che sono. Voi mi adulate.

Rainmere. Signore, voi non mi conoscete. [p. 42 modifica]

SCENA XV.

Servitore con il tè, e detti.

Pancrazio. Beviamo il tè.

Rainmere. Ben obbligato. (bevono il tè)

Pancrazio. Non avrei mai creduto, che32 aveste di me così poco concetto.

Rainmere. Sì, anzi tutto. (bevendo)

Pancrazio. La vostra dote sarebbe sicura.

Rainmere. Sicurissima.

Pancrazio. E la giovane non istarebbe bene?

Rainmere. No; perdonate.

Pancrazio. Ma perchè no?

Rainmere. Vostro figlio non è puntuale.

Pancrazio. È giovine, il matrimonio lo assoderà.

Rainmere. Prima si assodi; poi si mariti.

Pancrazio. Finalmente son io che la chiede.

Rainmere. Per chi?

Pancrazio. Per mio figlio.

Rainmere. Perdonate.

Pancrazio. E se la chiedessi per me, me la dareste?

Rainmere. Sì, con tutto il cuore.

Pancrazio. Bisognerebbe poi vedere se ella fosse contenta.

Rainmere. Lo sposo ha da piacere a lei.

Pancrazio. Dunque non faremo niente.

Rainmere. Buon tè, buon tè. (bevendo)

Pancrazio. Ho capito, monsieur, voi mi burlate.

Rainmere. Io? Mi maraviglio.

Pancrazio. Compatitemi, non mi pare di ritrovare in voi quella amicizia che mi avete protestata.

Rainmere. Provatemi.

Pancrazio. Io son un uomo, che per gli amici darei il sangue. Voi non credo fareste lo stesso per me. [p. 43 modifica]

Rainmere. Provatemi.

Pancrazio. Se vi metterò alla prova, troverete de’ pretesti per disimpegnarvi.

Rainmere. Voi mi offendete. Non conoscete la mia sincerità.

Pancrazio. Per istabilire un negozio mi preme di trovare diecimila ducati. Avreste difficoltà di farmi l’imprestito?33

Rainmere. Quando li vorreste?

Pancrazio. Questa mattina a mezzogiorno.

Rainmere. Disponetene.

Pancrazio. Mi darete diecimila ducati in prestito, e negherete di dare vostra nipote per moglie al mio figlio?

Rainmere. Voi siete onesto, voi siete puntuale, voi siete onorato.

Pancrazio. E mio figlio?...

Rainmere. Perdonatemi.

Pancrazio. (Ah, pur troppo ha ragione, pur troppo dice la verità), (da sè)

Rainmere. I diecimila ducati ve li scriverò in Banco giro.

Pancrazio. Sentite: non vorrei che lo faceste per puntiglio; e poi...

Rainmere. Voi non mi conoscete.

Pancrazio. Più tosto...

Rainmere. Non altro. Ve li scriverò in Banco. (s’alza)

Pancrazio. Vi pagherò il sei per cento; siete contento? (si alza)

Rainmere. Non parlo.

Pancrazio. Monsieur Rsùnmere, voi siete un galantuomo, voi siete un vero amico.

Rainmere. Per farmi credere buon amico, non sapeva che vi bisognasse una prova di diecimila ducati.

Pancrazio. Come? Siete forse pentito?

Rainmere. Ve li34 scriverò in Banco. (parte) [p. 44 modifica]

SCENA XVI.

Pancrazio solo.

Non so che dire, son confuso, son stordito, son fuori di me medesimo. Non sapeva come introdurmi a chiedergli questo denaro, e casualmente l’ho preso in parola, e mi girerà i diecimila ducati. Con questi salderò le mie piaghe, e per l’avvenire leverò il maneggio a mio figlio, e le cose anderanno con più regola, con più direzione. Ah, se mio figlio si mutasse, se mio figlio si assodasse, se potessi ridurre l’Olandese a questo matrimonio, felice me! felice la nostra casa! Voglio andar da mio figlio, e voglio fino pregarlo, che procuri di mettersi in grazia della giovane, e farsi ben volere da suo zio. Eccolo mio figlio: Giacinto, ascolta, vien qui, t’ho da parlare. Bravo, invece di venire, mi volta le spalle... Ti troverò, ti arriverò. (parte)

SCENA XVII.

Madamigella Giannina con un libro in mano, e Beatrice.

Beatrice. Voi, madamigella, studiate sempre.

Madamigella. Leggo assai volentieri.

Beatrice. Che libro è quello?

Madamigella. La Spettatrice.

Beatrice. Che cosa vuol dire l’aspettatrice? Una donna che aspetta?

Madamigella. Oh, perdonatemi; non vonei sentirvi parlar così. La Spettatrice, l’Osservatrice. Una filosofessa che osserva le azioni umane, esamina le passioni, e ragiona con buon criterio sopra vari sistemi del nostro secolo.

Beatrice. Come volete ch’io intenda certe parole, che hanno per me dell’arabico? Criterio! Che vuol dire criterio?

Madamigella. Vuol dire discernimento per distinguere il falso dal vero, il buono dal cattivo, il bene dal male.

Beatrice. Criterio sarà parola olandese. [p. 45 modifica]

Madamigella. No, amica, è parola di cui si servono gl’Italiani.

Beatrice. Non l’ho mai sentita in vita mia.

Madamigella. Vi compatisco, vostro padre non vi avrà permesso studiare.

Beatrice. Lo studio che mi ha fatto fare, consiste nella rocca, nell’ago e nel ricamo.

Madamigella. Povere donne! Ci tradiscono i nostri padri medesimi; essi e’ impediscono di studiare, fondati sulla falsissima prevenzione che lo studio non sia per noi. Credono che l’intelletto delle fanciulle non sia disposto alle scienze, e talora violentano allo studio un maschio, che inclinerebbe al lavoro, e condannano alla rocca una figlia, che avrebbe tutta l’abilità per diventare sapiente.

Beatrice. Dite la verità, cara amica: se mio padre mi avesse fatto studiare, sarei riuscita assai meglio di mio fratello.

Madamigella. Il signor Giacinto35 ha sortito bellissimi doni dalla natura.

Beatrice. E quali son questi doni?

Madamigella. Quelli che cogli occhi si veggono. Un bell’aspetto, un’aria brillante, un primo abbordo che ferma.

Beatrice. Vi piace dunque mio fratello? Che sì, che ne siete innamorata?

Madamigella. Forse ne sarei innamorata, se a fronte di quelle cose che in lui mi piacciono, non ne avesse altrettante che mi dispiacciono.

Beatrice. E quali sono le cose che in lui vi dispiacciono?

Madamigella. Quelle che da una mala educazione derivano.

Beatrice. Nostro padre lo ha sempre bene educato.

Madamigella. Mentre il padre lo educava bene, le male pratiche lo educavano male.

Beatrice. Eccolo ch’egli viene.

Madamigella. Peccato! Un giovine di quella sorta senza una dramma di buona filosofia. [p. 46 modifica]

SCENA XVIII.

Giacinto e dette.

Giacinto. Padronissima, le sono servidoretto.

Madamigella. Padronissima e servidoretto! Queste sono caricature.

Giacinto. Oh, in quanto alle caricature ciascheduno36 ne ha la sua parte.

Beatrice. (Abbiate giudizio). (piano a Giacinto)

Madamigella. Spiegatevi: mi credete37 voi caricata?

Giacinto. Una donna tutto il giorno coi libri in mano38...

Madamigella. È peggio assai veder un giovine colle carte in mano da giuoco.

Beatrice. Sentite? Vostro danno.39 (a Giacinto)

Giacinto. Vossignoria parla con una gran libertà.

Madamigella. Parlo come mi avete insegnato voi.

Giacinto. È molto che una sapiente della sua sorte si degni d’imparare da me.

Madamigella. Da’ cattivi maestri s’impara il male per forza.

Giacinto. Eppure, con tutto che mi disprezza, mi dà piacere.

Madamigella. Né voi mi dispiacereste, se foste un poco più ragionevole.

Beatrice. Via, siate buoni tutti due. Si vede che avete del genio, ma non vi sapete far intendere. (Volesse il cielo, che seguisse un tal matrimonio). (da sè

Madamigella. Sapete voi che cosa sia amore? (a Giacinto)

Giacinto. Non so se m’inganni; ma mi pare di saperlo.

Madamigella. Come lo sapete?

Giacinto. Perchè ho fatto all’amore tutto il tempo della vita mia.

Madamigella. Voi non sapete nulla. Amore nasce dall’intelletto.

Giacinto. Ed io dico che amore nasce dalla volontà. [p. 47 modifica]

Madamigella. Prima di amare, bisogna conoscere se la persona merita di essere amata.

Giacinto. Per me, quando mi corrisponde, merita sempre.

Madamigella. Questo è l’amor delle bestie.

Giacinto. Io vado alle corte. Se mi vuole, son qui.

Madamigella. Non so che fare di voi. Non posso amare un irragionevole, uno che non distingue le finezze del vero amore da quelle della vilissima compiacenza. (parte)

Beatrice. Vostro danno. Per causa della vostra insolenza perderete quarantamila ducati di dote, ed una sposa bella, giovane e virtuosa. (parte)

Giacinto. Della bellezza e della virtù non m’importa, mi dispiace per li quarantamila ducati: ma sono così di natura. Non posso dissimulare. Stimo più una giovane, che mi dica ti voglio bene, che non è una di queste sputa sentenze. Che importa a me che la donna sappia parlare latino? A me basta che abbia imparato a compitare queste due lettere, s, i, sì. Per me allora è la maggior filosofessa del mondo. (parte)

Fine dell’Atto Primo.



Note

  1. Ed. Paperini: La ragione Bisognosi deve ecc.
  2. Pap.: seimila scudi di Francia.
  3. Pap.: acciò che.
  4. Luogo in Venezia, situato in Rialto, dove i mercanti si radunano ecc. [nota originale]
  5. Pap.: Banco del Giro.
  6. Pap.: di far sequestrare.
  7. Pap.: gelarmisi.
  8. Pap.: Causa n’è ecc.
  9. Pap.: onoratissimi.
  10. Pap. aggiunge: Questa è la solita regola che si pratica in tali occasioni.
  11. Pap. aggiunge: a forza di chiacchiere, grandezze, imposture.
  12. Pap. premette: Io non sono di questo cuore. Sono stato ecc.
  13. Pap.: ma tengo anche.
  14. Pap.: teneva.
  15. Pap. aggiunge: in sicuro.
  16. Pap. aggiunge: senza carità.
  17. Pap.: potrà.
  18. Pap. aggiunge: sono un mercante onorato.
  19. Pap. aggiunge: perchè mi pesano; e in casa non mi fido.
  20. Pap.: mancia.
  21. Pap.: potrete voi.
  22. Pap.: avevi.
  23. Segue nell’ed. Pap.: «Giac. Volete i vostri denari? Cor. Voglio il mio sangue. Giac. Volete il frutto o volete il capitale? con caricatura. Cor. Tutto voglio, tutto. Giac. Tutto? Cor. Sì, tutto. Giac. Ah strega! Cor. Non mi fate montare in bestia. Giac. Sentite questo suono? ecc.».
  24. Pap.: Non porgerei neppure un dito.
  25. Zatta: Se mi porgete ecc.
  26. Pap.: Guarda, veh ecc.
  27. Segue nell’ed. Pap.: «Cor. Ci penserò. Pasq. Eh, avverti ben sopra tutto: fedeltà e onoratezza. Cor. Sai chi sono, non v’è pericolo. Pasq. Con gli uomini non ti domesticare. Cor. Non presenterei ne pure un dito, se mi dessero due zecchini. Pasq. Eh, per due zecchini... un dito... Cor. Basta, son donna che mi saprei regolare. Pasq. Ed io son uomo che sa adattarsi alle congiunture. Cor. Ma di quel ecc.».
  28. Pap.: ho fatto da me.
  29. Pap.: monsieur.
  30. Pap.: Monsieur, mi fate ecc.
  31. Pap.: Sì, monsieur Pancrazio.
  32. Pap.: che dopo tre mesi ecc
  33. Segue nell’ed. Pap.: «Rain. Niente affatto. Siete padrone. Pancr. Vi prendo in parola. Rain. Quando li vorreste? ecc.».
  34. Pap.: Monsieur, ve gli ecc.
  35. Pap. aggiunge: vostro fratello
  36. Pap.: In quanto alla caricatura, ella ecc.
  37. Pap.: in che mi credete.
  38. Pap. aggiunge: non è una caricatura?
  39. Segue nell’ed. Pap.: «Giac. Non posso soffrire le giovani dottoresse. Mad. Nè io i giovinotti balordi. Giac. Vossignoria ecc.».