I morbinosi/Nota storica

Da Wikisource.
Nota storica

../Atto V IncludiIntestazione 30 maggio 2020 100% Da definire

Atto V
[p. 433 modifica]

NOTA STORICA

Recarsi alla Giudecca per «vivere e morirvi» fu malinconico desiderio di poeti romantici, ispirato da chi sa quali rimpianti (Musset, A Saint-Blaise, à la Zuecca). Ma in pieno settecento i gaudenti veneziani cercavano colà solo i piaceri della tavola e della compagnia, meritandosi così dall’arguta bonomia del Goldoni l’appellativo di «morbinosi».

Già nel Servitore di due Padroni Pantalone si commove, si esalta al ricordo di liete ore godute anche alla Giudecca «con certi galantomini, de quei della bona stampa». «Se la savesse - racconta a Beatrice - che compagnia, che xe quella! Se la savesse che cuori tanto fatti! Che sincerità! Che schiettezza! Che belle conversazion che s’ha fatto... Sette o otto galantomeni che no ghe xe i so compagni a sto mondo». E a Beatrice che gli chiede: «Avete dunque goduto molto con questi?» - Pantalone risponde: «L’è che spero de goder ancora». - Per bocca del vecchio mercante si sente parlare l’autore. Vi torna infatti altre volte e un giorno i «sette o otto galantomeni» diventano cento e più e dalla visione del lieto festino, descritto con tanto calda simpatia nella dedicatoria, nella premessa e nelle Memorie, nasce una commedia.

La quale del lieto simposio sembra però un riflesso alquanto pallido. Vi si sente poco, troppo poco, del simpatico venezianissimo «morbin», signore assoluto alla tavola di quei centoventi bontemponi. Il banchetto stesso che doveva occupare un atto almeno dei cinque, poichè era ed è il pernio, intorno a cui il lavoro s’aggira, non ha per sè che due brevi scene; lo spettatore assiste solo al levar delle mense.

La commedia, fuori del suo vero ambiente, è tutta in pochi episodi. Certo il Goldoni non s’illuse di darle vita col vieto e abusato ripiego della curiosità e gelosia femminile o con la scialba figira di Lelio Toscano, personaggio già apparso in assai più felice rilievo nel Campiello e nelle Morbinose; nè, in linea artistica, si può dire concezione indovinata Brigida contatrice, intorno alla quale si svolge il più dell’azione. Le sue incresciose peripezie s’impongono all’attenzione di chi indaga il costume: meno a quella dell’uditorio. La grazia del dialetto contrabbilancia sì, non poco, la mancanza d’una vera favola, avviva il dialogo spesso arido e stanco e crea alcune ottime scene, come, per concitazione e verità un piccolo capolavoro, quella dello schiaffo (III, 3).

Nel 1763 l’autore confessa in tutta sincerità a chi legge che la commedia é andata male e mostra d’attribuire le ragioni dell’insuccesso all’insufficienza dell’apparato scenico. Ventiquattr’anni dopo invece, stando alle Memorie, la buona accoglienza fatta a questi Morbinosi lo ripagano del fiasco della Donna di governo.

«L’argomento di questo lavoro non era che un festino; ma bisognava allietarlo con degli aneddoti interessanti e de’ caratteri comici. Ne trovai nella nostra compagnia, e, senza offendere nessuno, cercai di giovarmene. La com[p. 434 modifica]media fu gustata immensamente: avevo, alla prima recita, due o trecento persone interessate ad applaudirla; il successo non poteva mancare» (Memorie, P. II, cap. 25).

Se ne’ frequenti aperti contrasti fra la tarda Vita e le testimonianze autobiografiche sincrone, le ultime trovano di necessità maggior fede, di fronte ad asserzioni recise e particolareggiate, come la presente, l’incredulità par quasi irriverenza. Ma come respingere il sospetto che nelle linee citate il pensiero nostalgico di Venezia e della sua gente, a tanta distanza di tempo e di luoghi, trasfiguri quasi la commedia, al Goldoni ricordo sensibile e presente della giocondissima festa, e ne accresca al di là del vero il valore e la fortuna?

Se non il plauso del pubblico, la garbata veste dialettale bastò a procacciar ai Morbinosi il favore dei critici. Misurato e giusto l’apprezzamento del Royer: «Tout le mérite de cette bagatelle consistait naturellement dans le sel des détails locaux et dans la gàité du dialecte» (Hist. univ. du Théâtre, Paris, 1870, vol. IV, p. 298). Perchè forse troppo fedele alle Memorie, ne esalta invece il merito il Calanti, mentre condanna la Donna di governo (op. cit., pag. 245). E addirittura tra «le migliori» commedie del Veneziano, secondo L. Brosch (C. G. Beilage z. Allg. Zeitung, München, 23 febbr. 1907). «Leggere e graziosissime» questa e le Morbinose qualifica il Nocchi (Comm. scelte di C. G., Fir., 1895, p. XXI). Della nostra tien assai conto pur l’autorevolissimo Ortolani che per entro alle sue scene cerca testimonianze alla vita settecentesca veneziana, della quale è così perfetto conoscitore. La sua analisi s’indugia intorno alla figura di Brigida, la virtuosa, che con preoccupazioni più economiche che amorose mette una nota malinconica nel mondo dei «morbinosi». Di fronte al realismo del Goldoni, le donne di teatro, frequenti nelle sue commedie, perdono quel fascino che l’illusione scenica conferisce loro. Quasi sempre agisce in esse apertamente e solo l’interesse. Ma non senza qualche pietà il malizioso commediografo descrive la loro calcolata civetteria. «Il habitue les spectateurs - avverte il Dejob - à voir en elles de pauvres diablesses, si l’on me passe cette expression, toutes préoccupées de leur pain quotidien et pour qui l’on serait bien fou de se tuer ou simplement de se ruiner» (Les femmes dans la comédie, ecc., Paris, 1899, p. 225). Questa Brigida merita poi più indulgenza ancora delle altre. Le parole con le quali accenna alla madre, causa della sua sciaguratissima esistenza, «rivelano - nota l’Ortolani - troppa infamia sociale per dover fare a lei accusa delle sue colpe» (Della vita e dell’arte di C. G., Venezia, MCMVII, p. 91).

Non si conoscono traduzioni di questo lavoro e la completa mancanza di testimonianze lascia credere che la sua vita scenica sia stata brevissima.

E. M.


I Morbinosi furono stampati la prima volta nel 1763, a Venezia, nel t. IX del Nuovo Teatro Comico dell’Avv. C. Goldoni edito dal Pitteri: uscirono l’anno stesso nuovamente impressi a Bologna (a S. Tomaso d’Aquino, t. IX), e più tardi a Torino (Guiberl e Orgeas VI, 1775) a Livorno (Masi XXVIII, 1792) a Venezia ancora (Zatta cl. 3, X, 1793) a Lucca (Bonsignori XXXI. 1793) e forse altrove, nel Settecento. - La presente ristampa seguì con maggior diligenza l’ed. Pitteri, anche per la grafia che in questa composizione mostrasi più conforme alla pronuncia veneziana, secondo l’uso moderno.