I pescatori di balene/XXVI. Gli orsi delle Terre Nude

Da Wikisource.
XXVI. Gli orsi delle Terre Nude

../XXV. Il Makenzie ../XXVII. Sul Makenzie IncludiIntestazione 18 maggio 2017 75% Da definire

XXV. Il Makenzie XXVII. Sul Makenzie

XXVI


GLI ORSI DELLE TERRE NUDE


Il Makenzie, scoperto solamente verso il finire del XVIII secolo, e precisamente nel 1789, da un inglese che gli diede il proprio nome, è uno dei più grandi ma nello stesso tempo dei meno conosciuti fiumi che solcano quell'immensa estensione di terre semideserte e quasi sempre gelate, appartenenti alla Compagnia della Baia di Hudson.

Il preciso suo corso ancora oggi si ignora, ma secondo taluni sarebbe di circa 3200 chilometri. Alimentato dal Lago dello Schiavo, poi dal Lago del Grand'Orso, a cui è unito da un fiume che chiamasi pure Grand'Orso, quindi dal Porcupine, scorre con grandi serpeggiamenti attraverso a quelle terre e va a scaricarsi presso i 69° 14' di latitudine nord e i 129° 12' di longitudine ovest nell'Oceano artico, per una larga imboccatura ostruita in parte da un gruppo d'isole deserte fra cui le più notevoli sono quella della Balena, ove si fermò Makenzie, e quella di Garry, visitata dal capitano Franklin nel 1825.

La Compagnia della Baia di Hudson, che traffica cogli Indiani, ha sulle rive di questo grande fiume alcuni piccoli forti abitati da pochi cacciatori, separati gli uni dagli altri da grandi distanze.

All'infuori di questi posti, il paese bagnato è quasi deserto, poichè anche le tribù indiane vi sono poche e senza stabile dimora.

Malgrado quel repentino capitombolo da una sponda alta più di una quindicina di piedi, nelle acque del fiume, che forse da sole poche ore si erano liberate dalla crosta di ghiaccio, i due balenieri non si perdettero d'animo. Con un vigoroso colpo di tallone ritornarono subito a galla e si aggrapparono alla slitta la quale nel precipitare non aveva riportato che la rottura dell'albero, tagliato in due dall'urto di un grosso ghiaccio.

La prima cosa che fecero fu di tentare di guadagnar la riva; ma, almeno per il momento, furono costretti ad abbandonare l'idea, poichè enormi lastroni di ghiaccio, che il fiume trascinava tumultuosamente nella sua rapida corsa, li circondavano da ogni lato minacciando di schiacciarli o di tagliarli a mezzo.

— Passiamo a prua — disse il tenente. — Eviteremo almeno gli urti.

Tenendosi stretti alle traverse della slitta, si portarono entrambi sul dinanzi, cercando di tenersi più che potevano fuori dell'acqua per non gelare completamente.

— Hai nulla di guasto? — chiese poi il tenente.

— Non mi pare — rispose Koninson. — Ma, se rimaniamo qui una sola mezz'ora, mi guasterò tutto. Corpo d'una pipa rotta! Sono ben fredde queste acque.

— Le tue munizioni?

— Le ho bene assicurate e vedete che anche il fucile non l'ho abbandonato.

— Ora pensiamo a guadagnare la riva.

— Ma questi dannati ghiacci ci stritoleranno se abbandoniamo la slitta, e poi le mie vesti sono diventate così pesanti che non sarò capace di nuotare per dieci metri.

— Si tratta di spingere la slitta verso la riva. Attenzione, Koninson!

Una gran lastra di ghiaccio, un vero «stream» lungo una cinquantina di metri, muoveva dritto sulla slitta frantumando con mille scricchiolìi tutti i ghiacci minori.

— Ci schiaccerà! — disse Koninson, battendo i denti per il freddo.

— Prima romperà la slitta! — rispose il tenente. — Non perderti d'animo, amico mio, e tieni fermo finchè raggiungiamo la riva.

— Vi confesso che non ne posso più. Queste acque sono diabolicamente fredde e sento che a poco a poco i miei muscoli si irrigidiscono.

— Attenzione, Koninson.

Il lastrone non era che a pochi passi. Frantumò con un potente urto due piccoli ghiacci, poi si precipitò come un ariete sulla slitta. Si udì un lungo scricchiolìo, le traverse si spezzarono, le corde si ruppero, lasciando cadere i pochi oggetti che i naufraghi avevano salvato dalle rapaci mani dei Tanana, quindi tutto l'apparecchio si disciolse andandosene alla deriva.

Il tenente e Koninson furono travolti dalla corrente, ma ben presto, lottando con disperata energia, riuscirono ad aggrapparsi ad un banco di ghiaccio issandovisi sopra.

— Ah, mio tenente! — mormorò il povero fiociniere che non si reggeva più. — Mi pare che il mio cuore sia diventato un blocco di ghiaccio.

— Coraggio, amico. La corrente ci spinge verso la riva destra e fra pochi istanti toccheremo terra.

Koninson non rispose. Quasi completamente assiderato si era raggomitolato su sè stesso, ormai incapace di fare il più piccolo movimento.

Fortunatamente il banco urtò contro i ghiacci della riva e si incastrò fortemente dentro un largo crepaccio. Il tenente, a cui quel bagno prolungato in quelle acque così gelate non aveva completamente tolte le forze, si caricò del compagno e raggiunse la sponda arrestandosi a pochi passi da un boschetto di betulle.

Senza occuparsi di sè stesso, in pochi istanti spogliò il fiociniere, poi raccolse un pò di neve e si mise a strofinarlo vigorosamente per rimettergli in circolazione il sangue.

Dopo alcuni minuti lo vide muoversi e infine riaprire gli occhi.

— Vedo che hai la pelle dura e sono contento! — gli disse, sorridendo. — Orsù, ragazzo mio, spicca quattro salti finchè io corro al boschetto a procurare della legna.

— Grazie, signor Hostrup, ma se tardate a spogliarvi delle vesti, gelerete.

— Bah! La mia pelle sfida quella degli orsi bianchi; d'altronde non impiegherò che pochi minuti ad accendere un buon fuoco.

Impugnò la scure che aveva avuto tempo di salvare nel momento che la slitta capitombolava nel fiume, e si allontanò correndo, raccogliendo qua e là i rami morti e quelli che tagliava. Fatta un'ampia provvista ritornò presso Koninson, il quale stava facendo una ginnastica indiavolata per non tornare a gelare.

L'esca e l'acciarino, conservati dentro un astuccio impermeabile, procurarono un bel fuoco attorno al quale i due balenieri si assisero, riscaldandosi le membra ed asciugandosi le vesti.

— Ditemi, signor Hostrup, — disse il fiociniere che aveva ricuperato le forze e la favella — dove supponete che noi siamo?

— Sulle rive del Makenzie, ma in quale punto preciso non te lo saprei dire.

— Siamo molto lontani dal forte che cercate?

— Te lo dirò quando avremo raggiunto la riviera del Grand'Orso, che si scarica in questo fiume.

— A sud o a nord da noi?

— A nord no di certo, poichè ci siamo costantemente tenuti a nord del Porcupine e questo fiume sbocca nel Makenzie quasi di fronte alla riviera del Grand'Orso.

— Allora marceremo verso sud seguendo il fiume.

— È necessario, e quando avremo raggiunto la riviera piegheremo ad est finchè troveremo il forte Speranza, il quale, se la memoria non mi tradisce, deve trovarsi a circa mezza via fra il Makenzie e il lago del Grand'Orso o del Musquàsa-ky-e-gum, come lo chiamano gli indiani.

— Auff! Mi ci vorrà una settimana a pronunciare siffatto nome. Questo sforzo di lingua lo lascio a voi ed agli indiani. Ma ditemi, signor Hostrup, a cosa servono i forti piantati fra quelle deserte regioni?

— A scopo di commercio.

— E con chi commerciano?

— Cogli indiani, i quali si recano di quando in quando ai forti a vendere le pelli degli orsi, di foche, di martore, di volpi, di linci, di lupi, di castori, di ratti muschiati e di lontre, contro armi, liquori, reti, ecc. Anzi, ti dirò che tanto la Compagnia Russa che quella della Baia di Hudson, proprietarie dei forti, fanno ottimi affari.

— Ma dove sono questi indiani, che non ne abbiamo veduto che trenta o quaranta?

— Sono disseminati qua e là, ma tutti sanno dove si trovano i forti.

— Ne troveremo degli altri, dunque?

— Sì, poichè il territorio su cui ci troviamo, e che appartiene alla Compagnia della Baia di Hudson, è più popolato di quello appartenente alla Russia. Nei pressi del Makenzie e del lago del Grand'Orso si trovano numerose tribù di Jannoit della famiglia degli Eschimesi, di indiani Loschi, così chiamati perchè sono realmente loschi, di Fianchi di Cane o Liu-tcan che sono tutti balbuzienti, di Denè, di Diendije, di Fine e di Chippewyans, i quali poi per lungo tempo furono creduti forniti di coda a causa delle loro vesti che di dietro terminano in una lunga punta.

— Speriamo di trovare anche abbondante selvaggina, poichè non abbiamo un solo pezzetto di carne da porre sotto i denti.

— Ne troveremo, Koninson, anzi mi metterò oggi stesso in cerca di qualche capo di selvaggina. Puoi reggerti?

— No, tenente, ho le gambe che si rifiutano di star ritte.

— Andrò io solo a battere il paese, e se incontro un orso puoi star certo che stasera faremo un lauto pranzo.

Indossò le vesti che si erano asciugate dinanzi a quella grande fiammata, rinnovò la carica del fucile con polvere asciutta, poi, dopo aver raccomandato al fiociniere di fare altrettanto col secondo fucile, per tenersi pronto a qualunque evento, s'allontanò lentamente inoltrandosi, nel paese, un pò verso sud.

Camminava da due ore costeggiando un bosco di betulle e di pini che pareva seguisse la riva del Makenzie, quando si trovò sul limite di una palude il cui fango era tenacissimo. Dopo aver errato un pò a destra e un pò a sinistra, s'avventurò su una lingua di terra che si addentrava in quella palude, fiancheggiata da altissimi abeti neri e da folti boschetti di salici, nella speranza di incontrare qualcuna di quelle stupende lontre la cui pelliccia si paga quasi a peso d'oro.

Ad un tratto i suoi orecchi furono colpiti da una specie di grugnito, che veniva dal mezzo d'un gruppo di piante.

— In guardia! — mormorò, armando il fucile. — Qui ci sono delle bistecche.

Si gettò a terra per non farsi scoprire e si trascinò carponi e senza produrre rumore, verso il luogo d'onde venivano i grugniti.

Quando giunse in mezzo ai salici vide dinanzi a sè, a circa duecento metri, un orso di statura piuttosto piccola, somigliante agli orsi bruni d'Europa, che si avvoltolava nel fango assieme ad un orsacchiotto grosso quanto un cane di statura media.

— Oh! — esclamò egli sorpreso. — Che razza di animale è mai questo? Non può essere che un orso detto delle Terre Nude, accennato da John Richardson, il compagno dell'infelice Franklin. Stiamo in guardia, poichè si dice che sia ferocissimo.

L'orsa, poichè doveva essere una femmina, d'improvviso si alzò guardando verso il gruppo di piante. Senza dubbio aveva fiutato la presenza del cacciatore e si mostrava inquieta se non per sè stessa, certamente per l'orsacchiotto che non era in grado di difendersi.

Il tenente, che non voleva perdere una sì bella occasione, si alzò pure in piedi e puntato rapidamente i fucile fece fuoco attraverso il fogliame.

L'orsa mandò un urlo terribile, poi si diede a fuggire attraverso la palude cacciando dinanzi a sè l'orsacchiotto, che mandava lamentevoli grugniti.

Il tenente saltò nella palude risoluto a inseguirli, ma fatti pochi passi fu costretto a fermarsi poichè tanta era la tenacità di quel fango da non lasciargli alzare i piedi. Anzi s'accorse che minacciava di sprofondare.

Scaricò una seconda volta il fucile, ma con nessun frutto, poichè l'orsa che forse aveva trovato del terreno più solido, continuò a fuggire scomparendo in mezzo alle piante, sempre accompagnata dal piccino.

Uscì dalla palude dopo aver ricaricata l'arma e si slanciò sotto il bosco dirigendosi verso sud, colla speranza di raggiungere la belva che forse era stata gravemente colpita.

Percorse tre o quattro chilometri quasi sempre correndo, ma quando si fermò s'accorse di essersi allontanato assai dalla palude. Stava per tornare sui propri passi e riguadagnare l'accampamento, quando gli pervenne un lontano muggito che pareva prodotto dal rompersi d'un grosso fiume.

— Che sia il Makenzie? — si chiese. — Ciò non può essere, poichè il fragore viene da sud, mentre il fiume deve scorrere alla mia destra. Il sole è ancora alto e Koninson non diventerà inquieto se tardo a ritornare.

Proseguì il cammino verso sud, inoltrandosi in un nuovo bosco di salici, di abeti e di betulle, e dopo una mezz'ora si trovava sulla riva di un largo corso d'acqua che veniva da est.

— È il Makenzie, o la riviera del Grand'Orso? — si chiese egli, salendo su di un'alta rupe dalla quale poteva dominare un gran tratto di paese. — Sarà senza dubbio il Makenzie; poichè la riviera deve trovarsi molto più a sud. Ad ogni modo mi accerterò seguendone le rive.

Stava per mettersi in cammino quando, girando gli occhi ai piedi della rupe, scorse sulla sponda una tenda semi-atterrata e presso questa quattro lunghi oggetti che potevano fino ad un certo punto sembrare uomini giganteschi avvolti in pelliccie.

— Cosa saranno quegli oggetti là? — si domandò. — Andiamo un pò a vedere.

Scese verso la riva seguendo un sentieruzzo appena praticabile e si avvicinò a quegli strani oggetti che subito riconobbe. Erano quattro canotti eschimesi, di quelli che si chiamavano «kajacks», leggerissimi assai, essendo costruiti con pelli di foca ricucite sopra uno scheletro di ossa di balena o di legno molto sottile, lunghi tre metri, larghi non più di settanta centimetri, un pò rialzati a prua e bassi a poppa e con un'apertura nella quale si caccia il battelliere. Osservandoli attentamente li trovò in ottimo stato e dentro rinvenne alcune pagaie a doppia pala.

— Scoperta magnifica! — disse il tenente. — Se gli eschimesi, con questi canotti, ardiscono sfidare le tempeste e i ghiacci dell'Oceano artico o dei grandi laghi, noi potremo senza tema sfidare la corrente del Makenzie. Se Dio continua a proteggerci fra poche settimane potrò riposare le mie stanche membra al forte Speranza.

Si avvicinò alla tenda sollevando un lembo, ma tosto si ritrasse facendo un gesto di orrore. Colà uno scheletro, perfettamente denudato dalle sue carni, giaceva in mezzo a pochi pezzi di pelliccia che un tempo dovevano averlo ricoperto.

— Il disgraziato sarà morto di fame e i lupi avranno banchettato colle sue carni — disse il tenente. — E quanti ne muoiono in questa regione dei grandi freddi! Orsù, ritorniamo che Koninson sarà inquieto.

Risalì la rupe e si rimise in cammino costeggiando il fiume che accennava a volgersi verso nord. Dopo due buone ore si convinse che percorreva la riva sinistra del Makenzie e non già del Grand'Orso, poichè il fiume, dopo un brusco gomito, si dirigeva verso nord.

Si riposò pochi minuti su di un rialzo di terreno, indi proseguì la via a lenti passi volgendo sguardi a destra e a sinistra, sperando di scoprire qualche capo di selvaggina.

Già cominciava a distinguere il fumo che si alzava dall'accampamento, quando nello sbucare da un gruppo di pini si trovò improvvisamente dinanzi all'orsa e al suo orsacchiotto che stavano uscendo dalla palude.

Imbracciò rapidamente il fucile e fece fuoco. L'orsacchiotto, che stava dinanzi di pochi passi, colpito nella testa, rotolò due volte su di sè stesso, poi rimase immobile.

La madre, furente, si alzò sulle zampe posteriori, cacciò un urlo di rabbia e di dolore, e si slanciò verso il cacciatore il quale, non avendo tempo di ricaricare l'arma e non osando venire ad un combattimento a corpo a corpo, si slanciò verso l'accampamento gridando:

— A me, Koninson!... A me!...

Il fiociniere, messo in guardia dalla detonazione, si era già alzato col fucile in mano. Vedendo l'orsa inseguire il tenente, si slanciò innanzi e fece fuoco. La belva, ferita dalla palla, si arrestò di botto, poi tornò sui propri passi zoppicando; si fermò un momento presso il cadavere dell'orsacchiotto come per assicurarsi se era morto, e finalmente si cacciò nella palude scomparendo in mezzo alle macchie di salici.