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I poeti lirici (Romagnoli)/Vol1-integrale

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Autori vari - I poeti lirici (Antichità)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1932)
Vol1-integrale
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I POETI LIRICI

CALLINO - ARCHILOCO
SIMONIDE D' AMORGO - MIMNERMO - IPPONATTE
ANANIO - FOCILIDE - DEMODOCO - CLEOBULO
CLEOBULINA - ESOPO

CON INCISIONI DI D. PETTINELLI

Immagine dal testo cartaceo

BOLOGNA

NICOLA ZANICHELLI

1932 - X

L’EDITORE ADEMPIUTI I DOVERI ESERCITERÀ I DIRITTI SANCITI DALLE LEGGI

Copyright 1931 by Casa Ed. N. Zanichelli

No 1551

E. Romagnoli

Officina Grafica A. Cacciari Bologna, I, 1932-X[p. 1 modifica]

CALLINO

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Di Callino non possediamo che miseri frammenti; e del piú lungo, i primi quattro versi sono sicuramente autentici, ma gli altri quattro hanno un’impronta tanto simile a quelli di Tirteo, da indurre molti critici a credere che appartenessero a questo poeta, e che per qualche errore di trascrizione andassero a finire sotto i quattro di Callino nel florilegio di Stobeo che tutti li conserva. E quei quattro, poveri, mutili, di scarso valore artistico, valgono piú che altro per quel po’ di luce che gittano sull’oscurissimo periodo in cui visse il loro autore.

Il brano capitale su Callino è di Strabone (14, 1, 40). E dice, parola per parola: — Avvenne anticamente che i Magnesii, dopo un lungo periodo di benessere, furono sterminati dai Trerii, tribú cimmeria; e che poi il territorio fu occupato dagli Efesii.... Callino ricorda anche una invasione piú antica dei Cimmerii, quando dice: «Or dei Cimmerii crudeli selvaggi l’esercito avanza». E in questa poesia testifica (δηλοῖ) il sacco di Sardi. —

Ora, collocando i fatti qui esposti in ordine cronologico, abbiamo:

  1. I. - Invasione dei Trerii (Cimmerii) e distruzione di Sardi.
  2. II. - I Magnesii, fiorenti, vincono gli Efesii. [p. 6 modifica]
  1. III. - Nuova invasione dei Trerii e sconfitta dei Magnesii.
  2. IV. - Gli Efesii occupano il territorio dei Magnesii.

Questi particolari si inquadrano assai bene nella cornice storica generale che abbiamo tracciata nella introduzione.

C’è una prima invasione di Cimmerii, diretta un po’ contro tutta l’Asia Minore, ma piú particolarmente verso Sardi, la quale rimane distrutta (intorno al 657). È assai probabile che dinanzi al comune pericolo Lidii e Greci facessero causa comune; e poco mi convince l’ipotesi del Fraccaroli[1] che i Greci, essendo oppressi dai Lidii, facessero causa comune con gl’invasori.

Ritiratisi i Cimmerii, i quali, secondo le lapidarie parole di Erodoto, facevano incursioni e non già conquiste[2], e rallentata, se non scomparsa, la minaccia dei Lidii, che certo doveva servire a cementare i Greci contro il comune avversario, risorgono piú fiere le contese fra città e città, che caratterizzano, come tanti secoli dopo in Italia, tanta parte della storia greca. E Magnesia riesce a trionfare d’Efeso.

Effimero trionfo. Una nuova ondata di Cimmerii distrugge Magnesia. E quando i Cimmerii, secondo il loro costume, effettuata la razzia, si ritirano, gli Efesii riprendono il sopravvento, ed occupano il territorio dei Magnesii. Tutta questa pagina di storia non potrebbe risultare piú chiara.

Della vita di Callino non possiamo dir nulla. Visse, dunque, nella prima metà del secolo VII. E, coinvolto nelle vicende dei tempi, cercò di rendere praticamente utile la sua lira, incuorando i concittadini alla guerra. Dar giudizio della sua arte, conoscendone cosí poco, è assai difficile. Oltre alla [p. 7 modifica]elegia di cui abbiamo già parlato, non possediamo che briciole. Si può tuttavia osservare che le briciole di Saffo, per esempio, di Alceo, di Ibico, anche prese una per una, sono gemme. Queste di Callino sembrano sassolini. E siano pure levigati e arrotondati.

Omero ed Esiodo scrissero solamente esametri. Con Callino troviamo un verso nuovo: il cosí detto pentametro.

Pentametro vuol dire verso di cinque misure o piedi; ed è denominazione erronea, coniata dai tardi grammatici e metrici, che studiavano la ritmica e la metrica ad occhio, e, naturalmente, non ne capivano nulla. In realtà, il pentametro è costituito anch’esso di sei piedi, tre e tre, separati da una pausa:

Immagine dal testo cartaceo

È, come si vede, la giustaposizione di due trimetri tronchi. E poiché sappiamo che gli sviluppi ritmici avvengono per gemmazione, dal piú semplice al piú complesso[3], facile riesce arguire che il trimetro esistesse prima del pentametro.

Come già abbiamo accennato, le forme semplici di tutti i ritmi sono nate spontaneamente fra il popolo. E tuttora si ritrovano nei canti popolari, che, o risalgono a tempi antichissimi, o perpetuamente rinnovano i fenomeni d’origine.

Nella raccolta, purtroppo miserrima, degli antichi canti popolari greci, non troviamo questo trimetro; però, nelle feste d’Adone, le donne cantavano il ritornello: Ὦ τὸν Ἄδωνιν, che ha forma di dipodia dattilica. [p. 8 modifica]

\relative c'' \new Staff { \key a \minor \time 2/4 \omit Staff.TimeSignature \cadenzaOn cis4 d8 e \bar "|" d4 cis!8 \fermata r8 }
\addlyrics
{ O ton A -- do -- nin }

E, certo, accanto ai dimetri saranno presto rampollati i trimetri.

Dal raddoppio del trimetro nacque dunque il cosí detto pentametro. Se non che, tra i due trimetri accoppiati si apriva una pausa che rendeva troppo sensibile la duplicità originaria. Con processo che poi vedremo ripetuto in tutti gli altri metri, la pausa fu sostituita da materia sonora: nota o sillaba. E, per simpatia e per bisogno d’equilibrio, anche l’ultima battuta del secondo trimetro accolse un nuovo momento ritmico, una nuova sillaba: Immagine dal testo cartaceo Era cosí nato l’esametro: che, dunque, nella ideal successione dei metri, non precede il pentametro, ma lo segue, e viene da esso generato.

Ma al carattere narrativo e discorsivo dell’antichissima poesia epica e didascalica, meglio d’una sequelà di pentametri, interrotta da pause di tre in tre piedi, conveniva l’ampia fluente solennità dell’esametro. Questo cacciò di nido il suo progenitore, e si svolse glorioso, con Omero e con Esiodo. Il pentametro visse, come del resto tutti gli altri versi, durante il gran fiore dell’esametro (vedi prefazione ad Archiloco), una sua vita oscura, piú specialmente limitata dalla sua palese incapacità di vivere come verso a sé. Finché poi, esaurite con Omero tutte le possibilità dell’esametro, e sopravvenuta, anche per l’abbondanza degli epígoni, qualche sazietà delle sue sequele uniformi, il pentametro fu chiamato ad alleggerirle, intercalandosi fra gli esametri, uno ad uno. [p. 9 modifica]Ne derivò la strofe di due versi, il distico elegiaco. Che súbito ebbe, e nella Ionia e nel continente greco, una gran fioritura, e poi, nel momento alessandrino, divenne, se non l’unico, certo il predilettissimo metro di tutti i poeti di Grecia. [p. 11 modifica]

1
ESORTAZIONE ALLA PUGNA

Giovani, e sino a quando poltrir? Quando l’animo fiero
     riscuoter? Dei vicini non provate vergogna,
che vi lasciate andare cosí? Par che in pace si viva,
     mentre la guerra invade tutto quanto il paese.


     e morendo, ciascuno lanci l’ultimo strale.
Ché per un uomo è bello morir per la patria, è onorato,
     per i suoi pargoletti, per la diletta sposa,
contro i nemici. La morte verrà quando l’abbian filata
     per lui le Parche. E dunque, corra súbito ognuno,
alta levando la lancia, sottesso lo scudo eccitando
     il cuor gagliardo, come pria la zuffa si mischi.
Poi che possibil non è per un uomo schivare la morte
     predestinata, fosse pur progenie dei Numi.
Piú d’una volta, alla guerra sfuggito e alla romba dell’aste,
     in casa torna, e il fato di morte ivi lo coglie.

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Ma non bramato è costui, né diletto al suo popolo: l’altro,
     se lo coglie sventura, piangon piccoli e grandi.
Perché l’uom valoroso ciascuno rimpiange, s’ei muore,
     e, finché vive, al pari d’un Semidio l’onora.
E gli occhi tutti a lui rivolgono come a uno spaldo:
     ch’egli, da solo, compie gesta di molti degne.


Stobeo, 4, 10. — Non è possibile precisare a quale delle due invasioni si riferisca.

2.
PREGHIERA A GIOVE

Abbi degli Smirnèi pietà.

*

*  *


                                             ricorda se femori belli
arsero a te di giovenchi.


I due brani sono riferiti da Strabone (14, 1, 4). «Scritti — dice — quando Efeso si chiamava anche Smirne. E Callino cosí la denomina, chiamando Smirnei gli Efesii, nella preghiera a Giove».

3
I BARBARI

Or dei Cimmerî crudeli selvaggi l’esercito avanza.


Stando a Strabone (14, 1, 40), questo frammento si dovrebbe riferire alla prima invasione. [p. 13 modifica]

4

Uomini Trerî guidando.


Stef. Biz. a Trerii. — Parrebbe si riferisse alla seconda invasione. Parla di Trerii. Erano anch’essi Cimmerii; ma, insomma, Strabone, nel passo citato, chiama Cimmerii gl’invasori della prima ondata, Trerii quelli della seconda.

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ARCHILOCO

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La prima e piú completa notizia che l’antichità ci abbia tramandata della vita e della personalità d’Archiloco, è quella del filosofo Crizia (uno dei trenta tiranni: 404-403), riferita da Eliano (Varia Historia, X, 13): «Se egli non ne avesse sparsa fama tra i Greci, noi non sapremmo che fu figlio d’una schiava, Enipò, né che, abbandonata Paro, per la miseria e l’indigenza, venne a Taso, né che qui si inimicò con la gente del luogo, né che fu adultero, lascivo, ingiuriatore, e, cosa anche più brutta, che gittò lo scudo in battaglia. Archiloco non fu dunque testimonio benevolo verso sé stesso, quando lasciò di sé tal fama».

Da questo passo si raccolgono due fatti che documenti intorno alla vita di Archiloco non esistevano, tranne le sue poesie; e che il contenuto di queste offriva ampii tèmi da sviluppare ai pettegoli e ai maligni.

E infatti, durante l’intero svolgimento della letteratura greca, intorno alla figura d’Archiloco fu un gran frondeggiare di storielle e di favole, che lussureggiò specialmente nella commedia attica, massime nella antica, e nella tarda retorica. E dentro a questa boscaglia d’erbacce e di piante parassite, l’immagine del poeta, che certo dall’opera com[p. 20 modifica]pleta dové balzare con sommo rilievo, se tanto viva e colorita balena anche oggi dai miseri frammenti, riuscí a man a mano mortificata e ridotta a brutta caricatura. In sostanza, non rimase altro se non il violento iroso detrattore di tutto e di tutti.

Tale già lo aveva stigmatizzato Pindaro: «Il maledico Archiloco — che impingua tra l’odio e le scede». Ma il primo a darci la caricatura fu Callimaco; il quale unisce cosí anche questo ai tanti altri suoi meriti libreschi (37 edizione Schneider):

     Infusa ebbe la rabbia feroce del cane, e l’aguzzo
     pungolo della vespa: due tòschi ha la sua fauce.

Ma l’episodio che dette il tono alla tarda pettegola erudizione, fu quello che si riferiva alle figlie di Licambe. Riflesso, anche questo, nelle poesie. Come e quanto, non sappiamo bene. Ma si raccontò che Archiloco, prima accolto, e poi rifiutato per genero da Licambe, avventò contro lui e le sue tre figlie giambi cosí terribili, che li indusse ad impiccarsi tutti e quattro. E, poiché fra le esercitazioni dei rètori erano di moda le «riabilitazioni» (Gorgia per Elena: Isocrate per Elena e Busiride: se ne trova traccia anche in Euripide), le figlie di Licambe sembrarono soggetto adattissimo. E le riabilitazioni retoriche trovarono una pronta eco loquace in una frotta di galanti poeti alessandrini.

E cosí parlavano le calunniate fanciulle in un epigramma attribuito, ma a torto, a Meleagro (Antol. pal., VII, 352):

Per la man destra d’Ade signor lo giuriamo, e pel negro
talamo di Persèfone, cui nominar non lice,

vergini sotto la terra noi siamo discese; eppur, molte
calunnie quell’acerbo sparse contro la nostra

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     verginità dei canti la bella melode rivolse
     contro fanciulle, in guerra: certo non fu prodezza.

     Pièridi, perché contro pure donzelle volgeste,
     per compiacere un empio, vituperosi giambi?

E in un altro epigramma, di Dioscòride, le medesime donzelle, fatte loiche, asserivano che la prova migliore della loro innocenza consisteva nel desiderio d’Archiloco di farle sue consorti (parlano cosí al plurale; ma non risulta che Archiloco aspirasse alla trigamia (Antol., VII, 361):

     No, lo giuriam per gli estinti, santissimo giuro, noi, figlie
     di Licambe, che abbiamo tanto odïosa fama,

     mai la verginità non macchiammo, né il padre o la madre,
     né Paro, che l’eccelsa è fra l’isole sacre.

     Bensí, contro la nostra progenie l’orribile oltraggio
     e l’odïosa fama Archiloco scagliò.

     Archiloco, il giuriamo pei Numi e pei Dèmoni, mai
     né per la via vedemmo, né d’Era nel gran tempio.

     Se mai lussurïose, se fossimo state impudiche,
     non avrebbe legittimi figli da noi bramati.

E un tal Giuliano, in una epigrafe che avrebbe dovuta essere incisa sulla tomba del poeta, avverte i viandanti di tenersi alla larga (Antol., VII, 71):

     Questo, vicino al mare, d’Archiloco è il tumulo: primo
     con fiele viperino l’acerba Musa ei tinse,

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     il placido Elicona di sangue imbrattando: Licambe
     lo seppe, che tre figlie dove’ piangere appese.

     Non fare, o viandante, rumore, ma tira di lungo:
     ché, se qui siedi, stuzzichi vespe da questo avello.

E un certo Getulico, infine, ammoniva Cerbero che, se non voleva vedere spopolato l’Averno, per carità, non lasciasse entrare l’anima d’Archiloco (Antol., VII, 70):

     Or, piú che per l’innanzi, le porte dell’orrido abisso,
     can tricípite, guarda con insonni pupille.

     Ché, se, a fuggir dei giambi d’Archiloco il vampo selvaggio,
     abbandonar la luce le figlie di Licambe,

     come non lascerà le porte del buio soggiorno
     ogni uomo, per fuggire degli oltraggi il terrore?

Favole che, ad ogni modo, conviene ascoltare, perché, come tutte le favole, pure adombrano qualche aspetto del vero.

Notizie sicure intorno alla vita di Archiloco, se ne possono determinare ben poche. Nacque a Paro, intorno al 650, ai tempi, su per giú, del re di Lydia Gige (687-652), che egli ricordava in una sua poesia. Suo padre Telesicle aveva guidata una colonia da Paro a Taso. Polignoto, anch’egli di Paro, aveva posto il suo avolo nell’Ade vicino a Cleobèa, fondatrice del culto di Demetra in Taso (Pausania, X, 28, 3).

Per bisogno lasciò Paro e si trasferí a Taso. Vi giunse in un momento in cui le popolazioni barbare vicine disputavano l’isola ai coloni di Paro. Ma questi divennero presto padroni incontestati dell’isola; e di qui travalicarono alla costa vicina, e divennero padroni della regione del monte Pangèo, ricco di miniere d’oro. [p. 23 modifica]

Come s’intende, questo possesso non fu senza contrasti. Contro loro mossero continuamente, non soltanto le popolazioni tracie, bensí anche numerosi altri coloni greci, da Andro, Clazomene, Chio, Mitilene. Di qui, una serie di guerriglie, di vittorie, di sconfitte. A tutte, piú o meno, fu mescolato il figliuolo di Telèsicle: tutte diedero, se non ispirazione, almeno motivo al suo canto.

Taso non gli piaceva in un frammento ne fa una descrizione ispirata all’odio. Anche con gli abitanti se la diceva poco; e ne abbiamo un indice nella storia di Licambe. Ma particolari non ne conosciamo. Verso la fine della sua vita, lo troviamo di nuovo nel Mezzogiorno, impegnato in una guerra coi Nassi. E in questa trovò la morte.

E qui porgiamo ascolto ancora alla leggenda. Calonda di Nasso, che lo aveva ucciso, andò a Pito, a consultar l’oracolo; e la sacerdotessa lo respinse con queste parole:

     Hai delle Muse il ministro ucciso: va’ fuori dal tempio.

Ma se poco sappiamo della sua vita, assai viva possiamo ricostruire la figura dell’uomo. Archiloco è di quei poeti per cui ciascun caso della vita, grave o fatuo, triste o giocondo, è motivo d’ispirazione, argomento al canto. Per lui possiamo ripetere ciò che Orazio scrisse di Lucilio (Sat. 11, I, 30):

          Ille velut fidis arcana sodalibus olim
          credebat libris, neque si male cesserat usquam
          decurrens alio, neque si bene: quo fit ut omnis
          votiva pateat veluti descripta tabella
          vita senis.

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E cosí, l’uomo e l’artista sono assolutamente una sola cosa: intendere l’arte è intendere l’uomo; e, quasi direi, viceversa.

Archiloco ha poesie di guerra; ma la nota eroica no. Dice (Framm. 2) che la lancia è per lui pane, vino, divano di convito; ma non risulta che lo dica per entusiasmo. Sinesio, anzi, cita questi versi in un contesto che potrebbe lasciar supporre il contrario. «Ora io — egli dice — posto di guardia sotto il bastione, sto lottando col sonno; e non so se piú a ragione di me Archiloco poteva dire:

     È per me l’asta pane buffetto, vin d’Ismaro è l’asta,
     e, quando bevo, l’asta mi serve da divano».

C’è, in Sinesio, un senso di fastidio; e non parrebbe improbabile che un senso simile avesse ispirato i versi che egli cita.

E, a parte questo brano e certe altre osservazioni anodine (p. es. 57), in un altro passo ricorda le spade come ministre di gemiti e pianti altrove beffeggia la millanteria di soldati che si vantano di avere sterminati nemici neppure intravisti (61); e, infine, in un frammento celeberrimo, quasi pare si compiaccia di aver gittato lo scudo.

E neppure di quest’ultimo vanto gli faremo colpa; ma, insomma, non sono propositi da eroe. E, manifestamente, la guerra non era per lui fonte d’ispirazione: Archiloco non era un Tirteo, un Callino, un Alceo.

Il gruppo dei frammenti etici, gnomici, filosofici, serve mirabilmente a determinare l’uomo.

Archiloco ha profonda e costante coscienza della misera condizione umana. L’uomo è un giocattolo in mano dei Numi (58) tutto dipende dal fato e dal destino (8): tutto è per l’uomo fatica e travaglio di morte (14). [p. 25 modifica]

E l’uomo rende piú misere queste condizioni con la sua tristizia. Ciascuno vede il suo piccolo interesse, e, un palmo oltre, nulla lo tocca (68). E le alleanze e le amicizie durano quanto dura il tornaconto (13). E dei morti, per quanto benemeriti, nessuno si dà pensiero: tutti cercano di accaparrarsi le grazie dei vivi (68). E la gente non fa altro che sparlar di tutto e di tutti (9).

Ma a queste misere condizioni, alle sventure, alle delusioni, non bisogna opporre un cordoglio donnesco, bensí due armi virili ed efficaci: la forza d’animo e la rassegnazione (67).

E perché tutto è effimero, all’effimero non bisogna dar troppa importanza. E bisogna disprezzare le ricchezze: non prestare orecchio alle chiacchiere della gente: non deprimersi nell’avversa fortuna, non esaltarsi nella prospera.

Questa la filosofia della vita d’Archiloco. Sanissima filosofie, dobbiamo credere, fedelmente seguíta. Ma, riguardo all’arte, si rileva facilmente che questi aforismi, per quanto sinceramente, e, sia pure, profondamente sentiti, e sovente ripetuti, non sono vera fonte d’ispirazione al poeta. Appaiono, per lo piú, in forma di semplici enunciazioni. Immagini, o slanci lirici o commozione, nulla. Poco valore ha lo sviluppo plastico del concetto che i Numi atterrano e suscitano a lor capriccio (58); e perfino l’ipotiposi, evidentemente curata e prediletta, del cuore in figura d’atleta (67), non ha né il colore né l’icastica arguzia di tanti e tanti frammenti archilochei.

Altri sono i centri d’ispirazione di Archiloco. E uno dei principali, innegabilmente, l’odio. Quando Orazio disse:

          Archilocum proprio rabies armavit iambo,

disse certo bene. In Archiloco c’era proprio la vocazione giam[p. 26 modifica]bica. La rissa, che per molti è oggetto di repugnanza, o, per lo meno, di fastidio, è per lui un gaudio. «Di azzuffarmi con te — dice — quanto l’assetato di bere, tanto ho desiderio», Dice. «Una cosa so bene assai: chi mi fa del male, ripagarlo con malanni grossi».

E i frammenti che ci rimanevano fino a poco tempo fa, potevano farci credere che la tradizione avesse esagerata l’acrimonia e la ferocia di quei suoi giambi. Ma, a disingannarci, ecco, il 1899, in un papiro dell’Università di Strasburgo, l’imprecazione contro un suo nemico che si appresta ad un viaggio di mare (79). È veramente terribile. Egregiamente osservò il Piccolomini che sembra di vedere una fiera che, non contenta d’avere uccisa la preda, ne strazia e dilania il cadavere[4].

E in tutti i giambi si ammirano una vivacità, un colore, un movimento d’immagini, una ricchezza di atteggiamenti, una opulenza stilistica che sono chiari indici della ispirazione.

Qui troviamo una delle comparazioni piú argute ed efficaci di Archiloco e di tutta la poesia greca. Un nemico lo aveva stuzzicato. Ed egli pensò alla cicaletta che da mane a sera stride, anche senza provocazione. Ora, se qualcuno la stuzzica, chi si salva piú? - E disse:

                    Hai la cicala — presa per l’ala.

E connesso allo spirito giambico è lo spirito scommatico, beffeggiatore, che scopre il lato ridicolo, fisico o morale, di´ [p. 27 modifica]una persona, e ne deriva, direttamente o per via di comparazione, immagini argute.

Non è pura malignità, non è, nei riguardi etici, indignazione, come in Giovenale, né desiderio di migliorar sé stesso col rilevare i difetti degli altri, come, a dargli retta, in Orazio: è, solamente, bisogno di fissare con linee precise qualche ridicolaggine umana che abbia ferita la sua sensibilità. Estro di caricaturista.

E, infatti, da ciascuna di queste poesie scommatiche, o, meglio, dai loro miseri avanzi, balza fuori il tipo.

Ecco, indimenticabile, il capitano spaccone, tutto ricci e tutto boria, sbarbato a contropelo, che quando cammina squinterna le gambe, ma poi, se si viene al buono, gli tremano sotto (60).

Ecco, dietro a lui, i mille fanfaroncini, che, essendo, Dio sa come, caduti sette nemici, tutti si vantano di averli sterminati, e non li hanno neppur visti (61). E sembrano come un gran coro di spavalderia che faccia ala a quell’impareggiabile corifeo.

Ecco Leofilo (70), che fa alto e basso, comanda e scomanda, chiacchiera a vanvera. Il vero factotum in città. E si pensa al Cleone e ai tanti altri demagoghi di Aristofane e dei poeti comici.

E, poi, c’è lo scroccone, che, senza aver ricevuto alcun invito, e senza aver pagato alcuno scotto, si presenta ad un banchetto, e a chi lo rimprovera della sua sfacciataggine, risponde: fra amici usa cosí (78).

E il donnaiolo merlo, che, a soldo a soldo, ha messo insieme un capitaletto, e poi una baldracca gli divora tutto in un boccone (142 Bergk).

E l’effeminato elegantone, che perde il tempo a farsi la testa riccioluta. Per lui Archiloco foggia un vocabolo: ricciolifattore (59). [p. 28 modifica]

Né sono risparmiate le donne. Vediamo Pasífile, la pandemia dai mille amanti, «ficastro di roccia che offre i suoi frutti a mille cornacchie» (15).

E una vecchia pazza, con la pelle mummificata, che tuttavia persevera ad ungersi di mirra (27).

E una sua emula, che nel piacere d’amore scrutrettola come una cornacchia (47).

Non è, in un campo tanto devastato quanto l’opera poetica d’Archiloco, una piccola messe; e ancor ci sarebbe da spigolare. Ma la qualità supera la quantità. Nel testo, tutti questi tipi risultano scolpiti con arte straordinaria. Vita rubata e incisa con linee definitive. Arte, in sostanza, di poeta comico. Archiloco è il primo vero commediografo di Grecia. Ciò spiega il grandissimo influsso da lui esercitato sulla commedia attica, massime sulla antica.

Ed eccoci ad un’altra fonte d’ispirazione. C’è tutta una famiglia di frammenti dai quali trapela una viva predilezione per una vita che, con vocabolo anacronistico, direi picaresca: vita dei bassifondi, di vagabondaggio, avventuracce, malandrinerie, malefatte, millanterie, risse, bagordi, amorazzi.

Il riflesso d’una tal vita, certo non può essere puro. Ed Archiloco, anziché attenuarne i colori, palesemente li esagera. E cosí, molti dei frammenti potranno a molti ispirare disgusto.

Ma errerebbe chi li ritenesse indici di volgarità e grossolanità. In realtà, la vita dei pitocchi presenta anch’essa un lato poetico, che ha forse la sua radice nella emancipazione quasi assoluta dei poveretti dalle convenzioni sociali. Un artista non può non sentirlo alcuni ne rimangono presi, affa[p. 29 modifica]scinati[5]. E per un artista, interesse e bisogno d’espressione, non sono due cose, bensí una sola. E, d’altronde, l’artista, anche negli oggetti brutti o repugnanti, sa scorgere un aspetto mirabile, che egli, nella trasposizione artistica, saprà isolare dalle concomitanze mortificanti, e rendere mirabile anche agli altri, mercè la virtú dello stile. Cosí il gioco della luce sa convertire una pozzanghera in una miracolosa Golconda. E in Archiloco, tutte quelle immagini o equivoche o sozze, e quegli dal improperii, e quei vocaboli e quelle locuzioni tolte di peso linguaggio del volgo, compaginate e cristallizzate in ritmi perfetti, si purificano, e assurgono ad un alto clima d’arte. Lo stesso vediamo avvenire per tante parti della commedia d’Aristofane, delle satire d’Orazio, dei sonetti del Belli.

E poi, l’abbiamo veduto, nell’opera di Archiloco non è questa la nota unica, come, per esempio, in Ipponatte; e neppure ossessionante e dominante: è uno dei tanti tèmi rapito alla complessa polifonia della vita. Ma accanto alla bruttezza c’è la bellezza: accanto al sarcasmo, l’esaltazione: accanto all’odio, l’amore.

E nella poesia d’amore, Archiloco ha note profonde e [p. 30 modifica]sincere come pochi altri poeti di Grecia. Trova accenti di passione da gareggiare con quelli di Saffo. «Tale un desiderio d’amore serpendomi sotto il cuore - fitta nebbia mi versò sugli occhi rubandomi dal cuore il molle animo» (112). «Misero me, giaccio nel desiderio senza piú anima, da strazianti spasimi, mercè dei Numi trafitte l’ossa» (164). E vicino a questa passione, di tono altissimo, e di modernità stupenda, sono tocchi di delicatezza squisita: «Tenendo un rametto di mirto si allegrava, e un bel fiore di rosa; e la chioma le ombrava gli omeri e il seno». «Trepida come pernice» (Berg, 106). «Deh, mi fosse concesso di toccar la mano di Neobule!» (71). Note di gentilezza e tenerezza che l’amor d’uomo per donna non trovò piú mai nella Grecia classica.

Cosí, dal grottesco, dal deforme, dal turpe, al bello, al grazioso, quasi alla quintessenza, si svolge l’amplissima gamma degli interessi artistici di Archiloco. È sua vocazione riprodurre nella materia dell’arte tutta la meravigliosa fantasmagoria della vita. Non solamente ogni persona, bensí ogni vicenda, sia pure insignificante, purché pittoresca, ogni visione di paese, ogni fenomeno che colpisca la sua sensibilità, trova immediato riflesso in nitidi versi. L’aspetto dell’isola di Taso vista dal mare una fazione, in guerra, sui banchi della nave (uno della ciurma mesce in giro il vino da un panciuto boccale): l’addensarsi di nubi temporalesche sulle rupi del promontorio Girèo: un eclissi di sole.

E ciascuno dei varii tèmi della sua ispirazione sbocca in un accordo unico, che tutti li unifica e nobilita: la perfetta elaborazione stilistica. Trovare, per virtú d’intuizione, il vocabolo diretto, o l’immagine metaforica che meglio rappresentino alla sensibilità altrui quanto egli ha sentito. E, congiungendo un vocabolo all’altro, cercare, sin tra le pieghe delle interferenze, nuove virtú espressive; e le locuzioni e le loro [p. 31 modifica]compagini distendere su moduli ritmici che, cooperando alla creazione, e lusingando le orecchie, le imprimano nella memoria, per l’eternità. Questa la gioia suprema d’Archiloco: questo il fine della sua vita.

Onde Archiloco ci appare come il prototipo dell’avventuriero soldato, il quale non crede se non alla spada, anche se non l’ama molto, e alla poesia, che adora, pronto a seguire il proprio istinto, anche se non perfettamente collima con la legge, spregiatore delle convenzioni sociali, e beffeggiatore impenitente di tutto e di tutti, pronto ad inchinarsi solo dinanzi alla bellezza.

Tipo che si riscontra anche altre volte nella vita, e, piú, nella letteratura.

Ma Archiloco è della vita, da cima a fondo; ed è il primo, a memoria d’uomo.

In qualsiasi storia della letteratura greca si trova Archiloco opposto ad Omero. Questi campione e corifeo della poesia oggettiva, Archiloco della soggettiva: quegli epico, questi lirico.

In realtà, queste vecchie distinzioni fra soggettivo ed obbiettivo non hanno ragione d’esistere. Poesia è circonfondere con l’alone del proprio spirito la materia prescelta al canto; la quale, direttamente o indirettamente, deriva dal mondo dei fenomeni. Se quest’alone non c’è, non c’è poesia, ma fotografia. Dunque, poesia e poeti oggettivi non esistono tutti i poeti sono soggettivi, e, in certo senso, tutti lirici.

Si è detto e ripetuto a sazietà che la personalità d’Omero rimane perfettamente nascosta nei suoi poemi. E se vogliamo far consistere la personalità nelle materiali vicende della vita, va bene; ma se si crede, invece, che essa consista in un com[p. 32 modifica]plesso di attributi spirituali, allora si risponde che la figura d’Omero risulta benissimo dall’Iliade, e piú, dall’Odissea[6].

È vero, invece, che tutti i poeti si dividono in due grandi famiglie: quelli che non si pèritano di esporre a tutti le intime vicende e i misteri della loro anima direttamente, senza veli né trasposizioni ed altri che, invece, ne hanno gran pudore, e, pur costretti dal dèmone dell’arte ad esprimere il loro mondo lirico, lo fanno per mezzo di trascrizioni e di adombramenti. Per altra via, non saprebbero. Cosí i poeti drammatici, che attribuiscono, o, meglio, affidano ai vari personaggi segreti spirituali che non oserebbero confessare se dovessero attribuirli a sé stessi. Nel Capitan Fracassa di Teofilo Gautier, il barone di Sigognac, finché deve recitare a viso scoperto, non riesce a spiccicare una sillaba; ma appena si adatta una maschera, le parole e i gesti gli sgorgano spontanei, ed eccolo attore perfetto.

Ciò premesso, osserviamo che, ad ogni modo, la differenza fra Archiloco ed Omero, è realmente grande, e índice, se non di mutata sostanza della poesia, di mutato ufficio dei poeti.

Sinora il poeta era stato un po’ come un sacerdote, o, almeno, una specie di pubblico ufficiale, che alle genti ignare narrava la storia, esponeva i misteri divini, enunciava i precetti etici (vedi prefazione ad Esiodo). La sua poesia era compatibile con una impersonalità quasi assoluta. S’intende poi che, di fatto, interessavano, ed hanno varcato i secoli solamente le opere personali. Ma, insomma, ufficialmente, importavano i fatti narrati, le sentenze esposte, i precetti impartiti; e la figura del poeta poteva rimanere implicita nella poesia, senza palesemente mostrarsi. [p. 33 modifica]

Archiloco, invece, mette la propria vita al primissimo piano, presumendo che tutti debbano interessarsi ai suoi casi. E riesce ad interessare. Sia pure con la maldicenza. Sia pure esercitata alle proprie spalle.

Certo, cosí la poesia discende dal cielo sulla terra: il poeta non può piú presentarsi alle turbe come intermediario delle Muse, e, per loro interposizione, di Giove. Egli è uomo fra gli uomini. Non cerca di gabbare la gente vantando una genealogia che, in un modo o nell’altro, risalga ad un Ne; ma dice chiaro e tondo: io sono figlio d’una schiava. Dice che è povero in canna, violento, attaccabrighe, salace, adultero, che ha gittato lo scudo in battaglia. A momenti si sospetta un fanfaronismo a rovescio. È uno sfoggio di personalità esagerato e quasi scandaloso, che a volte prende un sapor di confessione.

Ed è questa una delle ragioni, non ultima, per cui anche oggi ci sembrano cosí freschi e cosí vicini a noi, sebbene tanto miseri e mutilati, i frammenti dell’antichissimo poeta di Paro.

Uno dei tratti caratteristici dell’opera di Archiloco è costituito dalla ricca polimetria.

Archiloco è fabbro perfetto dei due versi che già da molti altri poeti erano stati portati a perfezione somma: l’esametro ed il pentametro; ma, accanto a questi, ne tratta, e da maestro, altri che troviamo in lui per la prima volta.

Innanzi tutto, il tetrametro trocaico.

Il ritmo trocaico è uno dei primi, o addirittura il primo nel quale trova naturalmente sbocco il compresso impetuoso estro musicale che è tanta parte dell’animo umano. Nella forma, anch’essa elementare ed intuitiva, della tetrapodia (il nostro ottonario), lo troviamo presso tutti i popoli del mondo, [p. 34 modifica]agli albori della poesia, e non solo in brevi canzoni liriche, bensí anche in composizioni di lungo respiro, e di contenuto epico (p. es. nel Romanziero del Cid).

E cosí fu anche nel mondo greco. Lo vediamo anche dai canti popolari, che, quando posso, scelgo per esempî, perché, o sono antichissimi, o ripetono continuamente i fenomeni d’origine.

Una ronda che i bambini di Rodi cantavano quando il sole si nascondeva, diceva: «Vieni fuori, sole bello». Le parole del testo - ἔξεχ᾽ ὦ φίλ´ ἥλιε — sono sicura guida a ricostituire lo schema ritmico della cantilena:

X́ X, X́ X, X́ X, X́ 𝄐,


che nella realizzazione fonica risultava presso a poco tale[7]:


\relative c'
\new Staff { \key c \major \time 6/8
e4 f8 g4 f8 | c4 c'8 a4\fermata r8 \bar ""
}
\addlyrics
{ Ex -- ech’ o fil’ | e -- li -- e }


Immaginiamo facilmente che centinaia e centinaia di canzoncine siano state composte, sin dai tempi antichissimi, su questo schema. E da principio le sillabe delle parole si saranno congiunte allo schema con una certa libertà; ma, a mano a mano, secondo l’indole della lingua, che, via via, si andava concretando nella sensibilità del popolo, e, massime degli artisti, si formò la legge che sotto i punti percossi dall’accento ritmico si collocassero le cosí dette sillabe lunghe, e sotto i non percossi le brevi.

— ́ ⏑ , — ́ ⏑ , — ́ ⏑ , — ́ 𝄐

[p. 35 modifica]

Secondo una legge fondamentale degli sviluppi ritmici[8], ben presto questi brevi periodi si unirono a due a due, costituendo una unità superiore: l’ottapodia o tetrametro trocaico.

— ́ ⏑ , — ́ ⏑ , — ́ ⏑ , — ́ 𝄐 | — ́ ⏑ , — ́ ⏑ , — ́ ⏑ , — ́ 𝄐


Naturalmente, il legame che stringeva le due frasette, rendendole parti di una maggiore unità, era offerto dal senso della parola. Ma quanto alla forma, tra la prima e la seconda parte vaneggiava una pausa (vedi pag. 8). Fu riempita mediante una sillaba. Onde lo schema:

— ́ ⏑ , — ́ ⏑ , — ́ ⏑ , — ́ ⏑ | — ́ ⏑ , — ́ ⏑ , — ́ ⏑ , 𝄐


Questa lunga sequela uniforme di lunghe e brevi alternate (trochei puri), presto ingenerava sazietà. Per evitarla, nella tecnica fu stabilita la legge che nei piedi pari (2, 4, 6) il trocheo potesse essere sostituito da due sillabe lunghe (spondeo). Allora unità di misura del verso divenne la dipodia; e in ciascuna dipodia rimase percosso dall’accento il primo piede, e l’accento del secondo si attenuò e quasi sparí.

— ́ ⏑ — ⏒ , — ́ ⏑ — ⏒ | — ́ ⏑ — ́ ⏒ , — ́ ⏑ , — 𝄐


Il tetrametro trocaico è dunque largamente rappresentato in Archiloco. Ne riporto uno, aggiungendovi le note di una antica melodia greca[9], che per caso gli si adattano perfettamente. [p. 36 modifica]


\relative c' \new Staff { \key f \major \time 6/8 c4 f8 a4 a8 | c4 bes8 a4 a8 | g4 f8 g4 8 | g4 d8 e4\fermata r8 }
\addlyrics
{ Au -- tos ex -- ar -- | chon pros ay -- lon | les -- bi -- on pa_i | e -- o -- na }

Accanto ai ritmi trocaici si sviluppano ben presto i giambici, che da quelli differiscono perché avanti alla prima percussione presentano un momento ritmico in levare.

Si deve però intender bene che la differenza tra le due famiglie di ritmi non consiste solamente nella maggiore intensità che, per effetto dell’abbrivo impresso dal primo momento in levare, acquista la prima battuta. L’effetto di quel primo momento si propaga per tutta la serie, perché ciascuno dei momenti dispari, per simpatica attrazione del primo, acquista carattere quasi di sillaba in levare, precipitante via via sul rispettivo momento pari. Sicché, in tutta la serie giambica permane un carattere di vibrazione e di concitazione, mentre una serie trocaica serba carattere di rapida ma serena agilità. E da questo carattere dipende il fatto che i metri giambici sono fin da principio adoperati per la satira, e poi trionfano nel dialogo drammatico, sede per eccellenza della concitazione e della passione.

Una delle prime serie giambiche sarà stata la tetrapodia (dimetro). Nei simposii, al principio delle libagioni, alcuni domandavano: «Chi è qui presente?». E altri rispondevano: «Molti, e brava gente» (Scol. Arist. Pace, 968). E domanda e risposta formavano appunto un dimetro giambico. Eccolo, nella realizzazione fonica:


\relative c''
\new Staff { \key a \minor \time 6/8
r4 r8 r4 a8 | e'4 d8 b4 b8 | e4 d8 b4\fermata r8
}
\addlyrics
{ tis | tei -- de? pol -- loi | ka -- ga -- thoi }

E le fanciulle di Beozia, quando si recavano ad Atene, cantarellavano in coro (Plut., Quest. greche, 35): «Andiamo ad Atene». [p. 37 modifica]


\relative c'' \new Staff { \key a \minor \time 6/8 r4 r8 r4 b8 | a4 g8 e'4 d8 | e4. e4\fermata r8 }
\addlyrics
{ i — | o — men eis A — | the — nas }

Lo schema ritmico è il seguente:

⏑ — ́, ⏑ — ́, ⏑ — ́, ⏑

La medesima legge metrica che vedemmo stabilirsi per le serie trocaiche, valse anche per le giambiche; e fu tollerato che nelle sedi dispari al giambo puro fossero sostituite due sillabe lunghe (spondeo).

In Archiloco il dimetro giambico ricorre frequente, ma non mai come metro a sé, bensí unito con altri versi. Citiamone uno.


\relative c'' \new Staff { \key c \major \time 6/8 r4 r8 r4 g8 | g4 b8 g4 b8 | a4 g8 e'4\fermata r8 }
\addlyrics
{ pa — | el — the gen — nai — | os — gar  ei }

Leggiamolo ora all’infuori delle note, tenendo conto solo delle percussioni ritmiche, attenuando l’ultima ed accentuando l’antipenultima, come facevano anche i Greci, per una legge che si venne spontaneamente determinando nello sviluppo del verso[10]; e si vedrà che risponde perfettamente al settenario sdrucciolo italiano.

Secondo un’altra legge fondamentale degli sviluppi ritmici, questa breve serie giambica si ampliò mediante la gemmazione d’una propria metà:

⏓ — ́ ⏑ — | ⏓ — ́ ⏑ — | ⏓ — ́ ⏑ — 𝄐

È il trimetro giambico, il famosissimo verso, che, dopo aver trionfato nei drammi dei tre sommi tragici e di innume[p. 38 modifica]rabili poeti comici, doveva, attraverso la trafila di derivazioni latine, metter capo al glorioso endecasillabo di Dante[11].

Ecco un trimetro di Archiloco, quale, piú o meno, poté risultare nella realizzazione fonica.


\relative c'' { \key a \minor \time 6/8 r4 r8 r4 a8\( | e'4 d8 a4\) a8\( | a4 b8 b4\) f8\( | e4 e8 e'4\fermata\) r8 }
\addlyrics
{ e -- chu -- sa thal -- lon myr -- si -- nes e -- ter -- pe -- to }
  \layout {
    \context {
      \Lyrics
      \override LyricSpace.minimum-distance = #2.0
    }
  }

Si legga con gli accorgimenti esposti a proposito del dimetro; e si udrà il suono preciso dell’endecasillabo sdrucciolo italiano.

Ora, nulla sarebbe piú falso che immaginare Archiloco «inventore» o «creatore» di questi versi[12]. I ritmi trocaici e giambici doverono esser comunissimi già ai tempi d’Omero.

Ma furono trascurati, forse per il loro carattere popolaresco, dai poeti d’arte, che dedicavano tutto il loro studio ai solenni ritmi dattilici; e visse Omero, il Dante dell’esametro.

Per quanto possiamo dire, però, Archiloco fu l’Omero di questi metri. Raccogliendoli dalle canzoni popolari o dalle elaborazioni di poeti mediocri, egli, con le sue mirabili facoltà musicali, li portò ad una perfezione che fu poi emulata, forse raggiunta da altri, ma superata non mai.

E suoi furono probabilmente gli ulteriori intrecci di ritmi.

Primo, il trimetro giambico alternato col dimetro. [p. 39 modifica]


\relative c' \new Staff { \key a \minor \time 6/8  r4 r8 r4 e8 | a4 b8 c4 b8 | a4 b8 c4 d8 | e4 c8 b8\fermata r8 \bar "" \break
b8 | d4 d8 c4 b8 | a4 a8 d4\fermata r8  }
\addlyrics
{ pa -- | ter Ly -- cam -- be | poi -- on e -- fra -- | so to -- de? tis  | sas pa -- re -- ei -- | re fre -- nas }

Ritmi, come si vede, della stessa famiglia: come il nostro endecasillabo col settenario. Ma un passo più in là mosse il poeta, alternando il trimetro giambico con una tripodia dattilica.


\relative c'' \new Staff { \key a \minor \override Staff. TimeSignature.break-visibility = ##(#f #t #t) \time 6/8 r4 r8 r4 e8 | d4 b8 a4 e'8 | d4 b8 a4 b8 | e4 a,8 d4\fermata  r8 \bar "" \break \time 2/4 \autoBeamOff e,4 a8 d | b4 d8 b | a4 \fermata r4 }
\addlyrics
{ e -- | reo tin’ y -- min | ai -- non o ke -- | ry -- ki -- de | ach -- ny -- me -- | ne sky -- ta -- | le }

Questa combinazione di ritmi ha una grande importanza. A noi, ora, sembra nulla: la musica moderna svolge le sue frasi fondendo in esse con facile temperamento le piú numerose e varie combinazioni di elementi ritmici; e gli uditori, e, quasi, gli stessi compositori, non percepiscono piú tali elementi nelle loro individualità, come né l’oratore né gli ascoltatori si rendono piú conto della sillabazione. Ma le prime formazioni ritmiche furono certo omogenee, e le serie delle varie famiglie per lungo tempo vissero l’una accanto all’altra senza interferenze. Effettuare queste interferenze fu scoperta che nell’ordine ritmico equivaleva alla scoperta della modulazione nell’ordine armonico. E se primo le effettuò, come parrebbe, Archiloco, il suo merito non fu piccolo. Sino ad ora, la condizione ineliminabile perché le parole del discorso comune assurgessero ad una armonia emula della musica, sem[p. 40 modifica]brava fosse la loro subordinazione ad una severa uniformità ritmica. Adesso era avanzato il primo passo verso una molteplicità e una libertà, che a poco a poco doveva introdurre nella sfera della parola musicata la medesima libertà che si riscontrava nel discorso ordinario.

Né Archiloco si limita ad aprire la via: anzi vi inoltra sicuro parecchi passi.

Ecco l’esametro sposato, con bellissimo effetto, al dimetro giambico.


\relative c'' \new Staff { \key d \major \time 6/8 \override Staff. TimeSignature.break-visibility = ##(#f #t #t) \autoBeamOff r4 r8 r4 d8 | d4 d8 d4 b8 | cis4 b8 d4\fermata r8 \break
\time 2/4 b4 d | cis d8 cis | b4 cis8 b | a4 b8 a | fis4 fis8 fis | fis4 fis8\fermata \bar "" \break
fis' | \time 6/8  fis4 fis8 f8 | d4 d8 d4 r8 }
\addlyrics
{ dys -- | te -- nos en -- kei -- | mai po -- thoi |a -- psy -- | chos cha -- le -- | pei -- si the -- | on o -- dy -- | nei -- sin e -- | ke -- ti pe -- par -- me -- nos di’ os -- te -- on }

Ed ecco, a queste due famiglie, giambi e dattili, unirsi la terza dei trochei.


\relative c'' \new Staff { \key a \minor \time 2/4 \override Staff. TimeSignature.break-visibility = ##(#f #t #t) \autoBeamOff a4 b | a g8 f | g4 f8 e | f4 g8 a \bar "" \break \time 6/8 b4 a8 b4 d8 |d4. e4 \bar "" \break e8 |d4 d8 b4 b8| a4 a8 a4 a8 | f4. f4\fermata r8 \bar "" }
\addlyrics
{ toi -- os gar fi -- lo -- te -- tos e -- ros y -- pò car -- di -- en e -- lys -- theis pol -- len cat’ a -- chlyn om -- ma -- ton e -- chey -- en }

[p. 41 modifica]

Le tre famiglie fondamentali di ritmi erano cosí riunite in complessi organici. E nei residui frammenti di Archiloco se ne trovano parecchi altri intrecci, e assai di piú se ne saranno trovati nell’opera integra.

Aver dunque elevato a forma d’arte tutti i metri popolareschi, e avere aperta la via alla onniritmia ritmica furono, nell’ordine piú strettamente tecnico, i titoli della perenne gloria di Archiloco.

Archiloco ci appare dunque poeta ed artista grande; e cosí ci sembra di trovarci un po’ in contraddizione con parecchi degli scrittori antichi, i quali stigmatizzavano l’ sua con parole di fuoco[13].

Ma alle testimonianze avverse, altre se ne possono contrapporre, entusiaste, e non meno autorevoli. Lo pseudo Longino, ponendolo accanto ad Omero, rilevava come speciale caratteristica dei suoi versi uno spirito d’energia demoniaca (p. 63, 7). Sinesio (Elogio calv. 75) lo chiamava il piú bello dei poeti (κάλλιστος ποιητῶν). Ermogene (Ret. 319 R) affermava che i suoi trocaici erano i piú veementi ed espressivi della letteratura greca. Dione Crisostomo proclamava che non esistevano se non due soli poeti, Omero ed Archiloco, ai quali nessun altro poteva essere paragonato. E, per venire al [p. 42 modifica]critico piú insigne, Aristofane di Bisanzio affermava che la più bella delle poesie d’Archiloco era la piú lunga.

E concludiamo con l’immaginoso giudizio d’un poeta.

Nella prefazione alla sua «Corona» d’epigrammi greci, Meleagro paragonava le produzioni dei varî poeti a fiori ed erbe differenti (A. P., I, 137). Ànito lo faceva pensare a gigli, Saffo a rose, Melaníppide a narcisi, Simònide a palmiti di vite, Riano a maggiorana, Erinna a croco, Alceo a giacinti, Callimaco a dolce mirto pieno sempre d’aspro miele, Bacchílide a bionde spiche. E via di questo passo, in mezzo alla filastrocca che non finisce mai, c’è anche Archiloco, paragonato ad un cardo (v. 37):

          Ed anche il fiore c’è pelicurvo del cardo, reciso
          dai pascoli, d’Archiloco: d’un mare esigue stille.

Dunque, spine ce n’erano; ma l’opera d’Archiloco era un mare. Pensiamo che Archiloco morí abbastanza giovane. E questa fecondità confermerebbe, se ce ne fosse bisogno, che egli fu realmente poeta di genio. [p. 43 modifica]

POESIE IN METRO ELEGIACO

[p. 45 modifica]

1
LA LANCIA

Fido seguace io sono d’Eníalo, Nume di guerra,
né delle Muse il dolce favore è ignoto a me.


Ateneo, citando questo frammento (14, 627 c), fa rilevare che Archiloco, sebbene ottimo poeta, mette al primo posto la sua capacità di poter prendere parte alle lotte politiche, e al secondo le sue facoltà poetiche. — Eníalo era in origine un dio semibarbarico della guerra; poi fu confuso ed identificato con Ares (Marte), e divenne suo epiteto.

2

È per me l’asta pane buffetto, vin d’Ísmaro è l’asta,
e quando bevo, l’asta mi serve da divano.


Riferito da Ateneo (1, 30 f); e da Sinesio (Epist. 129 b), nel seguente contesto: «Ed io, messo a guardia sul bastione, sto lottando col sonno; e non so se piú a ragione di me Archiloco poteva dire, etc.». E noto che nei simposii i Greci bevevano sdraiati sui divani. [p. 46 modifica]

3
CORPO A CORPO

Né poi si tenderanno molti archi, né frombole molte,
quando la pugna Marte nella pianura accozzi.

Lavoreranno le spade, ministre di lagrime e pianti;
poiché di tale pugna sono maestri insigni,

sperti di lancia, i signori d’Eubèa.


Plutarco, a cui dobbiamo questo frammento (Teseo, 5), dice che gli Abanti si rasero primi le chiome, non già per imitazione degli Arabi, né dei Misii, ma perché, usi alle pugne a corpo a corpo, non volevano offrir facile presa ai nemici.

4
DONI DI GUERRA

Larghi ai nemici nostri di doni ospitali funesti.


Questi doni ospitali, secondo lo scoliaste all’Elettra di Sofocle (V. 95), che riferisce il frammentino, sarebbero le ferite.

5
FAZIONE IN MARE

Della veloce nave fra i banchi con l’orcio t’affretta,
e cava, svelto, il tappo dai panciuti boccali,

[p. 47 modifica]

e dalla feccia il vino purpureo stilla. Se dura
questa fazione, come restare a becco asciutto?

Ateneo, II, 483 d. — Questa pittura d’una fazione navale è nel testo fra le cose piú argutamente espresse, e con piú ritmica agilità. Da uno scolio ad Omero, e da un paragrafo dell’Etimologico Magno (324, 14), si raccoglie anche un altro frustolo, che probabilmente appartenne a questa poesia, e che direbbe: Dall’imbuto nel vaso.

6
LA PELLE AL NUMERO UNO

Un Saio del mio scudo s’allegra, che presso un cespuglio
lasciai: m’uscí dagli occhi: era un sí bell’arnese!

Ma io salvai la pelle. Al diavolo vada lo scudo!
Uno miglior di quello comprar me ne potrò.

Frammento famosissimo in tutta l’antichità. Plutarco, riferendolo (Istituzioni lacone, 34), dice che quando Archiloco mise piede a Sparta, gli Spartani, avendolo riconosciuto per l’autore di tanta eresia, che gittar le armi era preferibile alla morte, súbito lo bandirono dalla loro città. Bisognerebbe però sapere in che speciale frangente gittò lo scudo Archiloco, che, d’altronde, sembrerebbe fosse coraggioso. Né si deve dimenticare che il concetto di valore varia da tempo a tempo e da popolo a popolo. Viene alla mente un passo di Cesare (De Bello civili, 44): «Si premerentur (i soldati di Afranio) pedem referre et loco excedere non turpe existimabant, cum Lusitanis reliquisque barbaris genere quodam pugnae adsuefacti». Tutti ricordano le derivazioni di Anacreonte e di Orazio. [p. 48 modifica]

ELEGIA PER LA MORTE DEL COGNATO

Del contenuto e del soggetto di questa elegia dà notizia Plutarco (Come un giovane debba ascoltare i poeti, 6). Fu scritta per il marito della sorella, che trovò morte in mare, e non ebbe sepolcro.

Del principio possediamo cinque distici (framm. 7), conservati da Stobeo (4, 56). Poi ci restano altri frammenti.

Nel decimo il poeta dichiara, secondo il concetto greco, che, se avessero potuto arderlo sul rogo, e dargli sepolcro, la disgrazia sarebbe stata piú facilmente sopportabile.

Il decimosecondo apparteneva alla descrizione del naufragio, che Longino dichiarava una meraviglia. Questa pittura, secondo ogni probabilità, sarà stata nel mezzo.

E alla fine avranno appartenuto i frammenti 11 e 10. Nel primo il poeta esorta a nascondere «i funesti doni di Posídone», cioè il cordoglio. Nell’altro esprime il propositto di darsi ai piaceri per dimenticare il lutto. Plutarco, a cui lo dobbiamo, biasima il concetto.

7

Pericle, lutto ci preme funerëo; né tra i festini
dei cittadini alcuno né la città s’allegra:

tali sommerse amici del pelago il flutto mugghiante;
e per le ambasce, gonfio d’ambascia il seno abbiamo.

Ma, mio diletto, un rimedio pei morbi insanabili i Numi
diedero, assai potente: la rassegnazione.

Ché visita sciagura questo ora, poi quello. A noi tocca
adesso; il cuor ci strazia la sanguinosa piaga:

ad altri toccherà fra poco. Or mostratevi forti,
e il femmineo cordoglio presto da voi bandite.

[p. 49 modifica]

8

Pericle, tutto all’uomo compartono il Fato e il Destino.

Riferito da Stobeo (1, 6), senza nome d’autore; ma sembra sicura l’attribuzione archilochea.

9

D’Esimo figlio, chi presta orecchio alle ingiurie del volgo,
mai non avrà ragione di stare troppo allegro.

Orione, p. 55, 22. — Il figlio d’Esimo è Pericle.

10

Se travagliato Efèsto si fosse d’intorno al suo capo,
alle sue membra care, di pure vesti avvolte....
.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
Poi che non guarirò coi pianti, né grave l’affanno
piú renderò, se indugio tra feste e tra sollazzi.

Plutarco, Come si devono udire i poeti, (6, 23 b).

11

E di Posídone i doni funesti teniamo nascosti.

Scoliaste al Prometeo d’Eschilo, v. 616.

12

E molto, in mezzo ai flutti del mar da la bella cesarie,
pregavan, la dolcezza del ritorno invocando.

Scol. laurenziano ad Apollonio Rodio, 1, 824. [p. 50 modifica]

13
QUANTO DURANO LE ALLEANZE

T’è l’alleato amico finché dura, o Glauco, la pugna.

Aristotele cita questo verso come proverbio (Etica Eudem., 7, 2). E forse proverbio fu sin dai tempi d’Archiloco, e questi si limitò a dargli la forma in un tetrametro trocaico. Mi sembra che, al tempo di Archiloco, epíkuros dovesse significare, come nell’Iliade, alleato, e non già mercenario. E la verità che esprime questa sentenza pare fosse riconosciuta già sette secoli prima di Cristo.

14
PESSIMISMO

Tutto è fatica, tutto per l’uomo è travaglio di morte.

Syriano, in Ermogene, 1, 6, 12.

15
UNA CHE NON FA PIANGERE NESSUNO

Fico di roccia che dà beccare a cornacchie dimolte
è Pasífile bella, che alloggia i forestieri.

Pasífile (amica di tutti), dice Ateneo (13, 549), era il nomignolo dato a una certa Plangòn, famigeratissima cortigiana di Mileto. Secondo Ateneo, il nomignolo le sarebbe stato applicato per la sua disinteressata condotta in un’avventura d’amore. Di lei s’era follemente invaghito un giovinetto di Colofone, che intanto amava, riamato, una bellissima fanciulla, Bacchide di Samo. [p. 51 modifica]Plangona gli chiese per compenso un preziosissima collana di Bàcchide; e questa, per non far patire il suo diletto, che si era pienamente confidato con lei, la concesse. Plangona, colpita da tale mancanza di gelosia, soddisfece il giovine, e rimandò la collana a Bàcchide. E d’allora in poi divennero amiche, e il giovinotto se lo tennero a mezzo. — Mi par certo che qui abbiamo l’argomento d’uno dei tardi racconti milesii. Ma è chiaro che con ben altri titoli l’eroina di Archiloco dove’ guadagnarsi il suo nomignolo. Senza dubbio, essa fu una gloriosa antenata della celebre Santaccia di Corneto di Giovacchino Belli. E a proposito di alloggio e di forestieri, un altro sonetto del Belli s’intitola: Quinto alloggia' li pellegrini; e, ancora, in un altro (20 settembre 1831), cosí viene interpellata una moderna Pasifile: — Cristiana mia, fai bene pe’ li morti? Piji li pellegrini in dormitorio? — È metafora tuttora viva nel popolino, almeno a Roma; e in storie e storielle la vediamo largamente applicata.

15a
OPULENZA ANTICA

Ereditaria per me non è la miseria; né sono
povero in canna, da parte dei nonni.

Questo frammento, riportato nell’Etimologico Magno (566, 50) non è accolto dal Crusius. Il Bergk lo rivendicava ad Archiloco; e, mi sembra, a ragione.

15b
MISERIA PRESENTE

Tendo la mano e méndico.

Etimol. Magno, 689, 1. — Però l’attribuzione non è sicurissima. E forse sconviene ad Archiloco questa dichiarazione che invece benissimo si inquadrerebbe tra i perpetui fiotti d’Ipponatte. [p. 53 modifica]

EPIGRAMMI

[p. 55 modifica]

16
I PILASTRI DI NASSO

Sono i pilastri eccelsi Megàtimo ed Aristofónte
di Nasso; e tu su loro, terra grande, ti poggi.

Antologia Palatina, 7, 441. - Pare probabile che avessero intenzione ironica e canzonatoria.

17
OFFERTA VOTIVA A GIUNONE

La cuffia che i suoi ricci copriva, o Giunone, t'offerse
Alcibia, quando a nozze legittime passò.

Antologia Palatina, VI, 133. - Anche qui non giurerei che non ci fosse intenzione satirica. [p. 57 modifica]

GIAMBI

[p. 59 modifica]

18 (21)
TASO ISOLA BRUTTA

L’isola sta, come irta schiena d’asino,
coperta in cima di selvaggia macchia;
ché non bello è il paese, e non amabile,
né pittoresco, come quel che bagnano
le fluenti del Siri.


Taso, posta ai confini della Grecia, flagellata dai venti furiosi della Tracia barbarica, asilo prima ai Fenici, poi anche alla tribú tracia dei Sai, coi quali dovettero lottare i coloni Greci, s’intende che non dovesse molto piacere al poeta. Ma, innanzi tutto, succedendo all’incantevole soggiorno della sua fanciullezza, doveva quasi sembrargli, per sentimentale errore di logica, la causa dell’amaro distacco. I primi due versi sono citati da Plutarco (De ex., XII), il quale soggiunge che Archiloco non tenne conto dei campi feraci e dei vigneti che pure erano in Taso. E Ateneo dichiara (XII, 523 d) che supervalutò le bellezze di Siri, colonia greca della Lucania, alla foce del fiume dello stesso nome, abitata prima da Troiani, poi da Cauconi. Comunque, sta di fatto che, sin dalle prime colonizzazioni greche in Italia, la fertilità della Magna Grecia era passata in proverbio tra i Greci. L’esattezza della descrizione d’Archiloco è riconosciuta dai geografi. [p. 60 modifica]

19
TASO ISOLA DISGRAZIATA

Dei Tasî piango il mal, non dei Magnesî.

Dice Strabone (14, 1, 40, p. 647) che Callino ricorda i Magnesii ancora fortunati e vincitori nella guerra contro gli Efesii, e che Archiloco invece conosce già la loro disfatta. A me sembrerebbe poi che «le disgrazie dei Magnesii» dovessero essere divenute proverbiali: sicché Archiloco qui verrebbe a dire: non vi parlo di sciagure storiche, ma vive e presenti, nostre.

20 (22)
LE RICCHEZZE CONTANO POCO

Non m’importa del molto oro di Gige,
né voglia n’ebbi mai, né porto invidia
al ben dei Numi, né un gran regno bramo:
non sono gli occhi miei vòlti a tal mira.

Secondo Aristotele (Retor. 3, 17), erano parole che Archiloco attribuiva ad un tal Cèrone, fabbro; ma s’intende bene che il poeta partecipa tali sentimenti. Il frammento serve a provare che Archiloco visse dopo Gige. Assai nota è la storia di questo re lidio, dei suoi amori con la sposa del suo predecessore Candaule, delle sue avventure, e dell’anello che lo rendeva invisibile.

21 (20)
TRISTEZZA

Non giambi piú m’importano o sollazzi.

Secondo Tzetze (ed. Matranga, Anedd., I, 216, 125 sg.), Archiloco avrebbe risposto con questo verso a chi lo esortava a [p. 61 modifica]riprendere la interrotta attività poetica. Ma poi, visto che le lagrime non giovavano a nulla, avrebbe presa la decisione enunciata nel frammento 10.

22 (21)
TEMPESTE DELL’ANIMA

Nella stretta dei flutti abbiamo l’anima.

Dalle parole dello scoliaste d’Aristofane (Rane, 704), che riferisce questo verso, non possiamo arguire se, come potrebbe essere, appartenesse al periodo del lutto per il cognato.

23
IL CAMPIONE D’ASIA

Il campion d’Asia, di greggi altrice.

Scol. Euripide, Medea, 708.

24 (25)
LA BELLA

Un rametto di mirto avendo, e un vago
bocciuol di rosa, s’allegrava; e ombra
su le spalle e sul sen spandea la chioma.

Riferito da Ammonio (p. 123 Val.) e da Sinesio (Elogio della calvizie, 75 b c). Quest’ultimo dice: E il piú vago (ὁ κάλλιστος) dei poeti, Archiloco, lodando la chioma, elogia quella d’un’etèra, dicendo, etc.». A noi sorride piuttosto l’idea che [p. 62 modifica]l’elogio fosse diretto all’adorata figlia di Licambe: può essere che nella poesia integra non esistessero indici per una precisa attribuzione; e che perciò Sinesio equivocasse. L’iperbolico elogio dell’elegante scrittore cristiano potrebbe essere ispirato alla vaghezza della poesia, che, almeno a giudicar dal nostro breve frammento, dove’ essere, nel testo, una vera gemma.

25 (26)
DOMINATRICE DEI CUORI

Odorosa di mirra il crine e il seno,
sí, che d’amor se ne sarebbe acceso
anche un vegliardo.

Lo ricorda Ateneo, a proposito della mirra (15, 688 c). Ripeto quanto ho detto a proposito del frammento precedente.

26 (24)
LE FIGLIE DI LICAMBE

Qual di Licambe la figlia maggiore.

Scol. Omero, Iliade, 11, 786.

27
VECCHIE PAZZE

Vecchia a quel modo, o non si ungea di mirra?

Narra Plutarco (Pericle, 24) che quando Pericle, smantellata Samo, recitò in Atene l’orazione funebre pei morti in quella [p. 63 modifica]guerra, Elpinice, la sorella di Cimone, gli disse: «Grandi prodezze hai compiute, Pericle, facendo perire molti e valorosi cittadini, non già in una guerra contro i Fenici e i Medi, bensí contro una città confederata e a noi congiunta di sangue.». E Pericle, placidamente ridendo, le rispose con questo verso d’Archiloco. — Non giurerei su la veridicità dell’aneddoto, che non farebbe molto onore alla finezza di Pericle. Questo frammento, e il seguente, e, forse, anche il 114, appartennero a poesie contro vecchie. Parrebbe che per Archiloco, come per Orazio, che anche qui lo tolse a modello, fosse argomento prediletto la satira contro le belle peccatrici, che non sapevano rassegnarsi al trascorrere degli anni né rinunziare alle giostre amorose.

28
ATTEGGIAMENTI

Ingurgitava, come, a suon di flauto,
un Tracio, un Frigio, ingurgitano birra;
e, a bocca sotto, molto affaticavasi.

È citato da Ateneo (10, 447 b), a proposito del vocabolo bryton, che significherebbe vin d’orzo: insomma, la nostra birra: bevanda allora preferita dai Traci e dai Frigi. Mi pare che il frammento trovi la sua giusta interpretazione col raffronto dell’epòdo ottavo d’Orazio, verso 20. Il verbo bryzein, che io traduco ingurgitare, significa spumeggiare.

29
UN CONVITATO ASSENTE

Alle nozze non fui, Giove padre!

Citato da Efestione (6, 2, p. 18 C) come esempio di trimetro catalettico. Sarebbe stato come, su per giú, un nostro [p. 64 modifica]endecasillabo privato della prima sillaba. Fratello, dunque, del famoso scazonte.

30
PREGHIERA AD APOLLO

Signore Apollo, tu scopri i colpevoli,
e, come tu sai sterminare, stèrminali.

Macrobio, Sat., 1, 17, 9 sg. — È un esempio dei famosi giambi contro i nemici. Tralascio il frm. 31.

32
IL CHIACCHIERA

S’aggirava per casa il reo ciabone.

Orione, 37, 4. St. 6. — Questo frammento e quasi tutti gli altri giambici che seguono, appartengono a quel singolar genere che ho qualificato nella prefazione, e che, anacronisticamente, si potrebbe chiamar picaresco.

33
SPEDIZIONE AL SOLE

Vicino al muro, all’ombra si sdraiarono.

Arpocrazione, 143, 6 B. — Si intravvede una giornata di sole; e una casa, un riparo, dove la gente non può entrare. Pitocchi, al solito, avventurieri, colleghi di Archiloco. [p. 65 modifica]

34
FANTASTICHERIA D’AMORE

Si son del fungo mio sfrenati i tèndini.

Erod., Declinaz., 695, L. — Si capisce bene di che fungo si tratti. In un sonetto famoso del Belli (Er padre delli santi), è ricordata una metafora simile: brugnolo=prugnolo: che sarebbe appunto una specie di fungo. Però l’ἀπερρώγασι si potrebbe intendere anche nel senso di: si son fiaccati. E allora il verso sarebbe ispirato ad una circostanza simile a quella che ispirò ad Orazio l’epodo VIII: «Rogare longo putidam te saeculo — vires quid enervet meas?».

35 (42)
MEDICINA EROICA

Un altro so magnifico specifico
per un bubbone simile.

Scol. Teocrito, 11, 48. — Nessun dubbio che il vocabolo fytón qui vada inteso in questo senso; e che il brano abbia significato equivoco.

36 (35)
OSTACOLO

Tale intorno al cortil corre un recinto.

Scol. Omero, Ven. B. Il., 9, 90. — Non è escluso che avesse

significato equivoco. [p. 66 modifica]

37
SOVERCHIATORI PUNITI

A capo in giú la gran boria vomiscono.

Una equazione che Fozio, a cui dobbiamo questo frammento, stabilisce fra κύψαι, verbo qui adoperato, che significa «mettersi a capo sotto», e ἀπάγξασθαι, che significa «strangolarsi», allontana, mi sembra, dalla giusta interpretazione. Qui si parla di superbiosi che sono costretti a deporre la loro soperchieria. Questa azione è paragonata, con linguaggio ben degno del genere giambico, al vomito. Chi vomita sta a testa sotto. Se ci fosse alcun dubbio, sarebbe sciolto dal luogo di Apollonio Rodio, 11, 582: ὄφρ’ ἀλεγεινὴν ὕβριν ἀποφλύξωσιν, il cui significato sembra indiscutibile.

38
LA GUERRA È UGUALE PER TUTTI

.     .     .     .     .     .     .     .     .     .      farò:
E Marte imparzïal per tutti gli uomini.

Clemente Alessandrino, che lo riferisce (Strom. 6, 6, 3), dice che qui Archiloco modifica il verso d’Omero (XVIII, 309): Eníalo è incerto; e spesso chi sta per uccidere muore.

39
PETTINATURA

 Coi capelli rapati dietro agli omeri.

Etim. magno, 311, 40. — Non è improbabile che in un tempo. in cui si portavano i capelli lunghi, fosse segno di ricerca e di [p. 67 modifica]eccessiva mollezza raderseli. E il frammento apparterrebbe ad una poesia satirica, canzonatoria.

40
MERCENARII DI CARIA GENTE DA POCO

Sarò detto ausiliario, a mo’ d’un Cario.

Nell’Iliade (IX, 378) c’è l’espressione en Karòs áisei, che significa: in conto di nulla (kar da keiro: radere, quasi briciola d’una raschiatura). Ma, secondo lo scoliaste a questo brano, Archiloco, che aborriva i Carii, non avrebbe usato il vocabolo in questo senso, ma in quello, d’altronde legittimo, di Cario; e avrebbe attribuito ad Omero, o, meglio, ad una locuzione proverbiale del tempo d’Omero, la propria antipatia. Comunque, il verso è interessante per dimostrare lo spirito del mercenario Archiloco, e, probabilmente, dei suoi compagni d’arme Ellenici, verso i colleghi di Caria.

41
TANTI UOMINI TANTI GUSTI

Chi per questo s’allegra, e chi per quello.

Gli antichi (Clem. Aless. 6, 7, 3; Sesto Empir. Contro i matem., 11, 14), lo ricordano come derivazione d’un noto verso d’Omero, Odissea, XIV, 228: «brama hanno gli uomini, questo d’un’opera, e quello d’un’altra».

42 (43)
IN MARE

Stava sul taglio dell’onda e del vento.

Etimol. Magno, 424, 18. [p. 68 modifica]

43 (44)

Sperto al timone, e destro nella fiòcina.

Ammone, nel Proemio all’Isagoge di Porfirio, p. 9.

44 (45)
NEL MONDO DEMONIACO

Il dèmone qual è? Per chi s’adira?

Etimol. Magno, 752, 15 not.

45 (46)
IETTATORI

T’incontro; e il malaugurio incontro in te.

Che il frammento si debba intendere cosí, mi sembra si possa ricavare dalle parole dello scoliaste di Pindaro (Ol., XIII, 10) che lo riferisce: «Chiamiamo presagi (symbola) gli sternuti, o le voci casuali, o gl’incontri, come Archiloco, etc.». Symbolon è presagio tanto buono quanto cattivo; ma qui si tratterà certamente di uno pessimo.

46 (47)
SCROCCONI

O paghi, oppure lí con noi non c’entri.

Apoll. Disc., De Adv., p. 571 b. — Mi pare che sia rivolta a qualcuno dei tanti scrocconi che si presentavano ai banchetti senza essere invitati. Vedi il frammento 78. [p. 69 modifica]

47 (49)
EROTICA

Cornacchia che pel gusto si dimena.

Scol. Arato, 1009.

Sopra un sasso sporgente, a mo’ d’un cerilo
l’ali scrollava.

Eliano, Storia degli animali, 12, 9. — I recenti editori uniscono il frammento 49 e il 49 a. Però mi sembra poco arguto in genere, e poco archilocheo in specie, illustrare il movimento d’un uccello con quello d’un altro uccello. lo credo che si tratti di due persone distinte, un uomo e una donna: i quali, in certe loro mosse, ricordavano quella la cornacchia, questo il cèrilo. E di che genere fossero tali mosse, si raccoglie dalle parole dello scoliaste d’Arato, il quale ricorda questi versi d’Archiloco a proposito delle cornacchie che scrollano di dosso la rugiada o che dimostrano compiacimento erotico.

48
LAVORATORE

Abbiamo in casa un bove da lavoro,
di curve corna, dei lavori esperto,
né mai poltrone.

Etim. Magno, 350, 27. — Appartiene — dice Crusius — alla favola delle vespe, delle pernici e del contadino (Esopo, ed. Halm, 392). [p. 70 modifica]

49
IL TAGLIABORSE

A Felèta che a notte va girando
per la città.

Eustazio, Odiss., 1889, 1. — Accolto dal Bergk, rifiutato dal Diehl, ma, mi pare, a torto; perché Eustazio lo dichiara palesemente archilocheo. Io credo che il brano si debba ravvicinare a quelli in cui Aristofane parla di un tale Oreste, famoso ladro notturno. Anche questo Feleta dove’, credo, essere un suo collega. Uno che va in giro di notte potrebbe anche far pensare ai famosi lupi mannari, alla cui esistenza credevano anche i Greci.

50
ADATTARSI ALL’ETÀ

Convien che senza beghe i vecchi vivano,
specie se sono sempliciotti, e prossimi,
come spesso avvenir suole ai decrepiti,
a rimbambire e cicalare a vanvera.

Citati dall’Etim. Flor., p. 210, senza nome d’autore. Ma Cedreno, Hist. comp. 2, 612, 9 (Migne, gr. 122) dice che «il poeta Archiloco afferma che all’età senile conviene non occuparsi d’affari».— È dunque assai probabile che i versi siano proprio del nostro poeta. [p. 71 modifica]

I TETRAMETRI TROCAICI

[p. 73 modifica]

51
LA CRONACA DI PARO

Cento anni prima di Cristo, un tale Sostene o Sosteo, figlio di Prostene, sacerdote di Giove e di Ercole callinico, fece innalzare una statua ad Archiloco.

Sopra una parte del basamento, conservata in misere condizioni, nella corte della chiesa principale di Paro, è una iscrizione, danneggiatissima, ma di cui si può ancora raccogliere qualche brano. È un estratto d’una storia di Paro, d’uno storico sconosciuto, Demèa, del principio del secolo III a. C.

Come Aristotele per la storia d’Atene cita i frammenti di Solone, cosí questo Demèa, per l’antichissima storia di Paro, aveva adoperati e spesso riprodotti alla lettera frammenti di Archiloco; e il compositore della iscrizione cita continuamente Archiloco come documento e testimonio di ciò che dice lo storico.

L’esposizione dei fatti procedeva arconte per arconte, e prendeva le mosse da un arconte il cui nome cominciava per Eur (le altre lettere sono sparite), e durante il cui regime avvenne l’episodio di Cirano, di cui Archiloco faceva menzione in una poesia di cui ci rimane un verso (framm. 117).

Naturalmente, non c’è bisogno d’intendere che Archiloco fosse contemporaneo di Cirano, né dunque del suddetto arconte.

Dopo una lacuna di 21 righe, nella quale si contenevano nuovi episodii, e, forse, nuovi nomi d’arconti, si giunge ad un episodio che meglio merita il nome di «storico». Le condizioni della iscri[p. 74 modifica]zione non consentono di ricostruirlo con sicurezza, né giova avventurarsi fra ipotesi e controversie; ma sembra di poter ricavare quanto segue.

Siamo al tempo in cui si stabilisce in Taso Archiloco, o, meglio, la famiglia di Archiloco. Un altro elleno, dichiarato figlio di Pisistrato, arriva lí, e suborna con denaro i Traci. La trama però non riesce.

Ecco un nuovo arconte, Anfítimo: sotto di lui i Parii riportano una vittoria contro i Nassi.

Dopo una lunghissima lacuna, di piú colonne, troviamo un Glauco, ricordato nei frammenti di Archiloco, vincitore in una battaglia contro Taso. E, per quanto le righe siano mutilate, sembra si possa raccogliere che, dopo la vittoria, infierisse sui vinti, e non risparmiasse nemmeno i bambini. Anche qui sono citati versi di Archiloco.

Dopo altre diciotto righe, appare un’altra poesia, sempre in tetrametri trocaici, nella quale sembra si parli d’una vittoria dei Parii, d’un peana cantato, d’un segno d’assenso concesso da Giove.

I frammenti in sé non hanno gran valore, massime per lo stato in cui ci sono giunti, d’estrema mutilazione. Provano, però, che l’opera d’Archiloco era giudicata utile a documentare la storia, massime la contemporanea del poeta.

A
ATTACCO DI ELLENI

Ed a Taso quindi il figlio di Pisístrato venía,
che guidava molta gente di provata maestria
nel suonar la lira e il flauto; e pei Traci avea molt’oro
di coppella; e, pel suo lucro, gran malestri fe’ con loro.

Si veda l’introduzione. Probabilmente, questo «figlio di Pisistrato», che sembra si chiamasse Temistocle, offrí ai Traci denaro, per indurli ad unirsi con lui contro i Parii. Ma poi, per suo personale interesse, tradí i Traci. Ed egli e i suoi furono sterminati, parte dai Traci, e parte dai Parii. Il fatto dove’ [p. 75 modifica]accadere quando l’isola non era ancor tutta in saldo possesso dei Parii. E gli esperti suonatori di lira e di flauto» erano forse Ateniesi.

B

E la gente nella pugna stava a fronte dei nemici:
si levava alta la romba delle vampe struggitrici;
né dai colpi si cessò, sinché il giorno tramonto.

Sono versi in cui Archiloco esalta una vittoria dei Parii contro i Nassi, riportata dopo l’episodio del figlio di Pisistrato sotto l’arconte Anfitimo.

52 (53)
PARO ISOLA DI DELIZIA

Lascia i fichi, lascia Paro — lascia il viver marinaro.

Ateneo (3, 76 b) lo cita a proposito dei fichi di Paro. Probabilmente, erano parole che il poeta rivolgeva a sé stesso, per farsi animo, sul punto d’abbandonare un soggiorno gradito. Hauvette, invece, nel suo libro su Archiloco, intende che siano di spregio, per una povera vita, per un cibo meschino. Ma non direi. I Greci considerarono sempre i fichi, non già come cibo vile, bensí come una leccornia; e i fichi di Paro goderono sempre tanta reputazione quanto i suoi marmi (poco rileva che il συκοτραγίτης = mangiafichi, di Eustazio fosse sinonimo di poveraccio: certo che anche cibo della povera gente erano i fichi di scarto, come quelli che doveva rosicare il pitocco Ipponatte (vedi framm. 41). E, a parte i fichi, Paro non ebbe mai fama di soggiorno ingrato, ma grato e beato. Un personaggio dell’Archiloco, commedia di Alèsside, diceva: «O te felice, vecchio, o avventurato — ch’abiti Paro, che produce due — fra le cose più belle: il marmo, ond’hanno — pregio i Celesti, e berlingozzi agli uomini».

[p. 76 modifica]

53 (54)
TASO RIFUGIO DEI PEZZENTI

Qual cencioso veggo a Taso — di Panèlleni travaso!

Lo cita Strabone (8, 6, 6), per provare che Archiloco conosceva la denominazione di Panèlleni per tutti gli Elleni». Evidentemente, qui Archiloco parla dei coloni greci; e la poesia sarà stata ispirata a qualche nuovo sbarco. E questo semplice verso gitta un vivo sprazzo di luce sul carattere di quelle antiche colonizzazioni, che, in sostanza, erano di guitti.

54 (62)
GENTE DISGRAZIATA

Ersía, dove si raduna — quello stuol senza fortuna?

Efestione, 6. — Probabilmente, si tratterà dei coloni guitti di cui si ragiona nel frammento 54.

55
LA PIETRA DI TANTALO

E di Tantalo la pietra su quest’isola non penda.

È riferito dallo scoliaste al noto brano di Pindaro (Ol., 1, 91) in cui si ricorda una delle pene di Tantalo: «Ché Giove gli appese — sul capo un immane macigno — ond’ei, paventando che sopra gli cada, bandito è da pace». (Vedi Alceo, framm. 93, e Alcmane, framm. 87). L’isola sarà Taso; e la pietra di Tantalo, probabilmente, l’invasione dei Cimmerii o di qualche altra tribú tracia. Taso, cosí vicina alle coste, era certo anch’essa minacciata. [p. 77 modifica]

56 (52)
ARRINGA POLITICA

Date ascolto ora ai miei detti — cittadini poveretti.

Era il principio d’un’allocuzione che dove’ avere una certa celebrità nel mondo antico, perché lo vediamo imitato da Aristofane ne La Pace, 603, e da Cratino ne La Damigiana (198 K). Lo scoliaste d’Aristofane rileva esplicitamente la dipendenza; e qui vediamo Archiloco precursore dei famosi discorsi politici ed elettorali di Solone, che talvolta erano anch’essi in tetrametri trocaici.

57 (54)
SI AVVICINA LA TEMPESTA

Guarda, Glauco, già nel mare s’accavalla onda su onda,
ed un irto l’aspre cime dei Girèi nembo circonda:
s’avvicina il temporale: timor súbito ci assale.

Dice Eraclito (Allegorie omeriche, 5), che Archiloco, trovandosi in mezzo alle fiere contese dei Traci scrisse una poesia nella quale paragonava la loro guerra ad un estuar di cavalloni. In linea generale, io credo che, per le notizie materiali, si debbano accettare le testimonianze degli antichi, i quali possedevano un materiale tanto più ricco. Qui, però, c’è da osservare che ad una pittura allegorica in genere, e, in ispecie, ispirata a fatti della Tracia, meno convenga una indicazione precisa come quella dei Girèi, che erano scogli, o presso Micone, nelle Cicladi, o presso Cafarèo, promontorio dell’Eubea. Perciò non mi parrebbe impossibile che il frammentino non appartenesse ad un contesto allegorico, ma avesse un valore a sé, indipendente, di quadretto, e che Eraclito, trovando la poesia, o, chi sa?, un brano della poesia, in qualche florilegio o «corona» alessandrina, equivocasse, anche per la frequenza con cui pitture di mare erano dagli antichi assunte con valore allegorico. Certo la pittura è, nel testo, mirabile, e va annoverata tra le cose bellissime di Archiloco. [p. 78 modifica]

58 (57)
FAR CORAGGIO AI GUERRIERI NEOFITI

Ed ai giovani fa’ cuore: la vittoria è in mano ai Numi.

Clemente Alessandrino, Strom., 6, 6, 5. — La massima contenuta nel secondo emistichio è un luogo comune omerico. Qui, però, ha valore l’esortazione del primo emistichio, per la quale la composizione a cui il frammento appartenne andrebbe annoverato fra le poesie di guerra di scopo pratico, come quelle di Callino e di Tirteo.

58 a (62 Bergk)
MARTE IMPARZIALE

Ersia mio, né a questa parte — né a quell’altra bada Marte.

Clem. Aless., Strom., VI, 739. — Il Diehl lo esclude, ma, mi sembra, a torto. Questo Ersia sarà il medesimo del frammento precedente. E anche questo verso avrà appartenuto ad una poesia di guerra.

59 (59)
ONNIPOTENZA DEI NUMI

Tutto ai Numi tribuisci spesse volte essi dai mali,
mentre al suol giacean prostrati, sollevarono i mortali:
spesse volte, quei che scevri se ne andavan di malanni,
al suol gittano supini: surgon quindi molti affanni;
e la gente istupidita — gira per campar la vita.

Stobeo, Flor., 4, 41. — Il concetto doveva essere trito già ai tempi di Archiloco; ma la forma ritmica gli dà qualche rilievo. [p. 79 modifica]

60
IL CAPITANO SPACCONE

Non mi garba un capitano tutto ricci e tutto spocchia,
con le gambe squinternate, pelo a pelo raso il mento:
me ne basta uno piccino, ch’abbia ad arco le ginocchia;
ma le gambe non gli tremino, ma sia pieno d’ardimento.

Dione Prusio, 33, 17, 7. — E Galeno (in Ippocrate, De artic., III, T. XVIII, 1, 357), cita questo passo a conferma del fatto che quelli che hanno per natura le gambe storte stanno meglio diritti, e son piú difficili da abbattere di quelli che le hanno diritte. Tale principio è tuttora affermato, e ripetuto, con strano compiacimento, dal popolino di Roma. Questa pittura è il prototipo di altre, che poi seguirono numerosissime, del tipo del Capitan Fracassa. Direttamente ispirata quella che troviamo nella seconda parabasi de La Pace di Aristofane.

61 (59)
IL BELLIMBUSTO

Del tuo canto abbia l’onore — Glauco, il ricciolifattore.

Scol. Omero T. Il., XXIV, 81. Plutarco, che pure ricorda il brano, dice che questo Glauco era troppo ricercato, e troppo invaghito dei proprii riccioli. E Archiloco coniò per lui l’epiteto keroplástes, e invitò la Musa (cosí credo debba intendersi) a esaltarli nel canto.

62 (61)
TUTTI LEONI

Sette al suolo cadder morti, che fuggiano e li aggiungemmo;
e siam mille gli uccisori.

[p. 80 modifica]

Narra Plutarco (Galba, 27) che, quando furono assassinati Galba, Pisone, Vinio e Lacone, molti, che non avevano preso parte all'uccisione, insanguinate le mani e le spade, le andavano mostrando. E ricorda, per analogia, questo frammento d'Archiloco.

63
AUGURII PEI NEMICI

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .    io confido che parecchi
di costoro, la Canícola coi suoi raggi ne dissecchi.

Dal luogo di Plutarco che lo riferisce (Questioni conviviali, 3, 10, 1) si dovrebbe concludere che il poeta volesse semplicemente dichiarare la virtú essicatrice del sole. Ma parrà più probabile che il significato neutro di élpomai qui piegasse verso il valore di «sperare», e che il conseguente augurio fosse rivolto a nemici: forse a nemici di guerra.

64
CHI MUORE GIACE

In città fama non hanno, son d'onore i morti privi:
noi, che vivi siam, le grazie ricerchiamo sol dei vivi;
è del morto — sempre il torto.

Lo cita Stobeo (4, 58), per dimostrare che la fama dei piú sparisce insieme con la vita. Ed è vero. Ma non meno vera è la sentenza d'Orazio (Epist., II, I, 13): «Urit enim fulgore suo qui praegravat artes — infra se positas: exstinctus amabitur idem». [p. 81 modifica]

65
PARCE SEPULTO

Onorevol non è molto — l’imprecar contro un sepolto.

Stobeo, 4, 56. È derivato, come osserva lo scoliaste dell’Odissea (XXII, 412), dal rimbrotto che rivolge Ulisse alla vecchia Euriclea: che non è generoso imprecare contro gente caduta.

66
VOCAZIONE GIAMBICA

D’una cosa io son maestro: se mi fanno un’azionaccia,
render pane per focaccia.

Teofil. ad Autolyc., 2, 53. — È uno dei frammenti che meglio svelano il temperamento d’Archiloco.

67 (69)
ARCHILOCO ACCATTABRIGHE

Di far teco briga ho sete come d’acqua l’assetato.

Ateneo, 10, 453 e. — Anche questo, come il frammento 66, è assai caratteristico dell’umor litigioso d’Archiloco.

68 (70)
IL FACTOTUM DELLA CITTA

Or Leòfilo comanda, alto e basso Leòfilo fa,
tutto pende dalla bocca di Leòfilo,
è Leofilo il factotum in città.

[p. 82 modifica]

Erodiano (Intorno agli schemi, 57, 2) lo cita in via d’esemplificazione metrica. Parrebbe certo d’ispirazione politica; e tutti ne sentiamo il sapore fortemente aristofanesco. Ho tradotto con libertà metrica; ma mi lusingo di avere con ciò reso meglio il carattere vivace del graziosissimo frammento.

69 (70)
FORZA D’ANIMO

Cuore, cuore, sballottato da travagli senza scampo,
tienti a galla; e, a rintuzzare dei malevoli le offese,
sporgi avanti il petto. E piàntati dei nemici presso al campo,
sui pie’ saldi; né il tuo gaudio, se tu vinci, sia palese,
né ficcarti in casa, quando perdi, a fare piagnistei.
No: gioir nei lieti eventi devi, e affliggerti nei rei,
non mai troppo: ché al mortale — tocca or bene ed ora male.

Stobeo, III. — Brano famoso in tutta l’antichità. E le soverchie ripetizioni e derivazioni dànno anche a questo, di riverbero, un sapore di vecchio. Ma Archiloco, almeno per quanto sappiamo, precede tutti. Ed è poi notevole vedere come egli dà vita al precetto etico mediante una personificazione. Il cuore è immaginato in figura di guerriero; e gli si attribuisce tutto quello che ad un guerriero si potrebbe attribuire. Trascinato dalla personificazione, il poeta incappa anche in qualche bizzarro controsenso. Il cuore è invitato a star saldo sui piedi, a sporgere avanti il petto. Di simili intemperanze troviamo numerosi esempii in Pindaro (vedi prefazione alla traduzione di questo poeta). E ne Gli Acarnesi di Aristofane (485 sg.), al cuore si attribuisce addirittura la testa: «Su, vanne o pazïente cuore — offri la testa, e ciò che senti esponi». [p. 83 modifica]

Ma ti strozzano gli amici.

Aristotele (Polit. 7, 6) cita queste parole, in misura trocaica, per esemplificare la verità che il cuore umano soffre piú pei torti fatti dagli amici che non per quelli dei nemici. E soggiunge che Archiloco le rivolge al proprio cuore. Laonde si può ragionevolmente arguire che appartenessero alla poesia precedente.

70 (68)
OGNUNO CAPISCE LE COSE PROPRIE

Volto è l’animo dell’uomo, Glauco, figlio di Leptíno,
colà dove ciascun giorno segna Giove il suo cammino;
e ciascuno le faccende — fra cui vive solo intende.

Teone (Progymn. Rhet. Graec., 1, 153 W.) dice che è una parafrasi d’Omero (Odissea, 18, 136): «Tale è l’umor delle genti che vivono sopra la terra | quale lo manda giorno per giorno degli uomini il padre | e dei Celesti». Certo la sentenza d’Archiloco rassomiglia a quella d’Omero; ma Archiloco v’innesta un suo concetto, piú arguto ed originale: che ciascuno capisce le cose sue a meraviglia, e quelle degli altri neppur lo interessano. Che è verità dolorosa ed eterna.

71
AMORE CELESTE

Deh, la mano di Neòbule sol toccar mi sia concesso!

Plutarco, Dell’ei presso i Delfi, 5. — Neobule sarebbe la famosa figlia di Licambe; e la poesia sarà dunque scritta prima della rottura, nel principio dell’entusiasmo amoroso. [p. 84 modifica]

71a
FANCIULLA

Come pernice trepida.

Ateneo (9, 388 b) lo cita a proposito della quantità d’una sillaba. Probabilmente appartenne alle poesie d’amore.

72
AMORE TERRESTRE

E piombare su quell’otre bramerei sempre in funzione,
sovrapporre pancia a pancia, pettignone a pettignone.

L’otre, secondo esplicita testimonianza dello scoliaste alla Medea (674) d’Euripide, che riferisce il frammento, sarebbe il basso ventre: ὁ περὶ τὸν γαστέρα τόπος. Non c’è dunque bisogno di chiarimenti. Indispettisce veder questo frammento posto vicino al precedente. Ma non mancano filologi che li credono appartenenti alla medesima poesia. Ohibò!

73
CHI PECCA E CHI SCONTA

Ho sbagliato, e un altro il fio — lo pagò del fallo mio.

Clemente Alessandrino, che riferisce il frammento (Strom., 6, 6, 1), dice che qui Archiloco ormeggia le parole di Agamennone a Nestore (II, IX, 116): «Vecchio, gli errori miei son veri, né dici menzogna». [p. 85 modifica]

74
ECLISSI DI SOLE

Non v’è nulla d’impossibile, da negar con giuramento,
da stupire, poi che adesso Giove, re del firmamento,
buia notte a mezzo il giorno fe’, spegnendo il sol che in cielo
lampeggiava. In seno agli uomini luttuoso corse un gelo.
D’ora in poi, tutto è credibile, d’ora in poi merita fede
qual sia cosa; né piú alcuno meravigli, anche se vede
che s’insedino le fiere nel soggiorno dei delfini,
giú nel pelago, ed a quelle gli echeggianti antri marini,
ed a questi predilette — sian l’eccelse alpestri vette.

Stobeo, 4, 46. — Gli astronomi hanno computato, per il periodo dall’VIII al V secolo, le date in cui eclissi totali di sole furono visibili nel bacino del Mare Egeo. Fra l’eclisse del 15 giugno 763 e quella del 28 maggio 585, una intermedia sembra rispondere alle condizioni richieste per poterla credere ispiratrice di questa poesia d’Archiloco: quella del 6 aprile 648, che fu visibile a Taso, alle 9 circa del mattino. In questa data, Archiloco si trovava a Taso. Hauvette fa osservare che, secondo la testimonianza d’Aristotele, questa descrizione era messa in bocca a un padre, che parlava a proposito della figlia. Dunque — conclude Hauvette — l’idea dell’eclisse non fu la determinante della poesia: essa si presentò allo spirito del poeta come esempio delle sorprese che talora i Numi riservano agli uomini. E, allora, l’esempio pote’ essere scelto in una esperienza già antica, forse anche tradizionale, della quale il poeta forse non fu testimonio oculare. — La critica è acuta; ma la commossa evidenza della descrizione mi sembra sicuro indice di visione diretta. E non si potrà mai deplorare abbastanza l’acume dei filologi e dei critici che s’industriano per escludere, nello studio della poesia, tutto quanto della poesia può accrescere il valore e l’efficacia. [p. 86 modifica]

75
PREGHIERA AD EFESTO

Odi, e pugna a me d’accanto che ti prego, Efesto re,
e la grazia che concedere tu ben sai, concedi a me.

Plutarco, Come si ascoltano i poeti, 6. — Forse è preghiera prima della battaglia.

76
UN PEANA PER APOLLO

E d’un lesbio flauto al suono — il peana io stesso intono.

Ateneo (5, 180 d e) lo cita a proposito del verbo exárchein, che, dice, si usava per i preludii di lira.

77
DITIRAMBO

Quando il vino, come un folgore, il cervello m’invasò,
intonare il ditirambo per Dïòniso ben so.

Secondo Ateneo, che lo riporta (14, 628 a), Filocoro diceva che gli antichi, quando libano, non sempre cantano ditirambi, ma solo quando fanno libagioni a Diòniso, fra i bicchieri e l’ebbrezza; e che ad Apollo inneggiano invece con serenità e con calma. Molto probabilmente questi due versi erano appunto il principio d’un ditirambo. Che in origine era, dunque, un semplice canto intonato in onore di Diòniso; ma, invece della solennità dattilica o spondaica, appropriata ad altre divinità, presentava l’agilità trocaica, adatta alle libere vivaci danze bacchiche. In tetrametri [p. 87 modifica]trocaici erano composti anche gli antichissimi drammi satireschi, danzati, dai quali prese le mosse la tragedia (vedi introduzione ad Eschilo). Questi due versi d’Archiloco son dunque preziosi anche perché ci offrono un esempio concreto (mutilo, ma unico) d’un antichissimo tipo d’arte che doveva avere cosí meraviglioso svolgimento. Aggiungo una ricostruzione ritmica e mèlica, che potrà dare anche agli ignari di greco una idea di ciò che poté essere, nella realizzazione sonora, questo antichissimo carme.

DITIRAMBO


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78 LO SCROCCONE

Senza l’ombra d’un invito, senza aver pagato scotto,
sei venuto, e di vin puro hai trincato piú d’un gotto.
— Come s’usa fra gli amici? — La tua gola t’ha confuso,
devi dir, la mente e l’animo, e t’ha fatto duro il muso.

Questi versi sono ricostruiti, con probabilità che rasenta la certezza, da un passo d’Ateneo (1, 7 f), il quale dice che Archiloco li avrebbe composti a proposito d’un certo Pericle, che piombava sui simposii senza che nessuno lo invitasse, al pari dei Miconi, abitatori d’una grama isoletta, proverbiali per la grettezza e l’ingordigia. Pericle si chiamava anche l’amico di Archiloco a cui è diretta l’elegia per la morte del fratello. Non vorremmo credere che si trattasse della medesima persona. [p. 88 modifica]

79 (142 Bergk)
IL DONNAIOLO MERLO

Lungo tempo e gran travaglio, soldo a soldo fanno il gruzzo:
tutto poi d’una baldracca spesso scivola nel buzzo.

Si ricostruisce abbastanza sicuramente da un frammento di Eliano (Var. Istor., 14). Doveva essere famoso, perché lo troviamo ricordato anche in Niceta (Chron., p. 360, ed. Bonn). Eliano soggiunge che le ricchezze somigliano al riccio, facile da prendere, difficile da trattenere. E non è improbabile che anche questo confronto fosse d’Archiloco. [p. 89 modifica]

EPODI

[p. 91 modifica]

80 (79)
BUON VIAGGIO

.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
sballottato dal pelago.

E, nudo, in Salmidesso, fra le tènebre,
i Traci lo catturino

dall’irte chiome (e, a lungo, in gran miseria,
il pan del servo mànduchi),

dal freddo assiderato. E, pel risucchio,
tutto cosperso d’alighe,

i denti sbatta come un cane, e giaccia
boccon, di forze esausto,

all’orlo estremo, ove l’onde si frangono.
Cosí veder desidero

colui, che, amico un dí, sotto il pie’ premere
seppe i suoi giuri, e offendermi.

[p. 92 modifica]

Fu trovato in un papiro del II secolo dopo Cristo, nella biblioteca universitaria di Strasburgo, e pubblicato la prima volta dal Reitzenstein negli Atti dell’Accademia di Prussia, 1899, pag. 857. Il Fraccaroli lo attribuisce ad Ipponatte, gli altri, in genere, ad Archiloco: anche a me sembra di sentirci chiaro l’accento archilocheo. Come ben dice il Piccolomini, par di vedere una fiera che, non contenta di avere uccisa la preda, ne dilania il cadavere. Tutti sentono la palese dipendenza di alcuni tra i famosi epodi di Orazio da questo frammento.

81 (88)
IL RIMBAMBITO

Padre Licambe, che dicesti? Il cèrebro
sconvolto chi t’avrà?
Un tempo avevi senno: ora dal ridere
scoppiar fai la città.

Scol. Erm., Ret. Greci, 7, 820, w. — Alle poesie contro Licambe rimase piú strettamente legata la fama della terribilità di Archiloco. Ma per noi finora è attestata solo dal frammento di Strasburgo, che d’altronde non gli si può attribuire con certezza assoluta.

82 (95)
LICAMBE SPERGIURO

Hai vïolato un giuramento grande,
la mensa e il sale.

Origene (Adv. Cels., 11, 74) dice espressamente che era scritto contro Licambe; e da un passo di Dione Prusio (11, 746) si raccoglie che con questo giuramento solenne Licambe gli aveva promessa la figlia. [p. 93 modifica]

83 (87)
MINACCIA GIAMBICA

Dalle mie mani no, che non la scàpola.

Etim. Magno, 689, 1. — Non sappiamo contro chi fosse diretto.

84 (96)
PROVOCAZIONI

Bile non hai nel fegato.

Aten. 3, 107. — Io credo che voglia dire semplicemente: non hai fegato (vedi nota al frammento seguente). Il Bergk, invece, crede che il brano appartenesse ad un apologo; e cita una credenza degli antichi, che alcune bestie non avessero fegato; e tra queste, il cammello. Alcune specie di cervi, poi, secondo Antigono di Caristo, l’avrebbero avuto, ma nella coda. E del cervo si diceva che non avesse cuore (Scol., Il., I, 224).

85 (97)

Fatti avanti, giacché tanto sei bravo!

Aten., 14, 653 d. — Non mi par dubbio che in questo senso debba intendersi il gennaîos del testo. Tanto questo frammento quanto il precedente sono caratteristici per la maniera giambica. C’è la tipica provocazione del plebeo alla rissa. Nel dialetto romanesco esistono espressioni che sono la perfetta traduzione di questa archilochea. E, crederei, in ogni altro dialetto. [p. 94 modifica]

86 (99)
MOCCOLI

Sí, sí, sangue dell’erba di papavero!

Lo cita Suida (p. 944 B), come tipo d’imprecazione burlesca. Gli antichi solevano, come i moderni, annacquare i moccoli. Famoso il mà ton chèna=sangue dell’oca, invece di mà ton Zèna= sangue di Giove. Questo di Archiloco è tra i piú anodini.

87 (113)
VECCHIE PAZZE

Non è piú molle, né in fior, la tua cute: mummificata è già.

Lo cita Efestione (6, 3), al solito, per esemplificazione metrica. Appartiene certo ad una satira contro qualche vecchia: argomento che sembra, come rilevai, prediletto da Archiloco.

88 (114)
AH VECCHIAIA MALEDETTA

D’acciacchi di vecchiaia un mucchio piomba.

Efest., 5, 3. — Nel Pluto d’Aristofane, Carione, annunziando ai vecchi bifolchi che il padrone ha sequestrato il decrepito Pluto, dice: «Un mucchio di malanni da vecchi ei recò qui». I vecchi, erano per questi poeti satirici oggetto piú di beffa che di reverenza, massime se presumevano oltre la loro età. [p. 95 modifica]

89 (115)
UNA VALOROSA PESCATRICE

N’hai beccate di molte, anguille guercie?

Ateneo, 7, 299 a. — A quale sottospecie appartenessero queste anguille, lo intenderà súbito chi ricordi il sonetto del Belli già menzionato: Er padre delli santi. Tra i nomi onde viene designato questo santo miracoloso, si registrano «er guercio» e «anguilla». Entrambi. li troviamo uniti, con sintesi geniale, in questo frammento d’Archiloco.

90 (105)

Tirarsi in casa, garantito, un cànchero.

Efest., 15, 2. — Mi pare che debba appartenere ad un contesto simile, su per giú, alla satira di Simonide contro le donne. Tralascio il frammento 106, che non presenta alcuna entità.

91 (85)
AGONI

Quando agli agoni si addensava il popolo
e il figliuol di Batúsia.

Efest. De poem., 7, 2. Da una glossa d’Esichio si ricava che questo Batusíade era un indovino (mantis); e figlio di un tal Sello (séllos in greco vuol dire cicalone a vanvera: non è improbabile che la paternità fosse di fabbrica archilochea). E, ad ogni modo, che questo Batusíade fosse un poco di buono, si rileva da un passo di Aristide, che torna ad onore del nostro giambografo (II, 380): [p. 96 modifica]«Neanche Archiloco disse male dei migliori e dei piú illustri dei Greci, bensí di Licambe, di Chidone, di quel tale indovino, di Pericle, etc...». Questo tale indovino difficilmente sarà altri che il Batusíade di questo frammento. Dunque, la frase di Archiloco implica una beffa. Ciò posto, si deve ravvisare in essa un bizzarro atteggiamento che diventa poi canonico nella poesia giambica e motteggiatrice, e che consiste nel porre insieme, quasi paralleli, con identica entità, una persona ed una fitta collettività. Tipico l’esempio d’Orazio, Satire, 1, 4, 71: Nulla taberna meos habeat neque pila libellos — quis manus insudet vulgi Hermogenisque Tigelli. Dove si insinua che Ermogene Tigellio vale lui da solo quanto una intera plebaglia. E un valore su per giú analogo

avrà avuto il frammento d’Archiloco. [p. 97 modifica]

FAVOLE

[p. 99 modifica]

IL MANGANELLO MALINCONICO
92 (81)

Or ti narro una favola, o Cerícide,
manganello malinconico.

Bandita dalle fiere, iva una scimmia
sola, per gli ultimi limiti

della terra s’appressa a lei, con cupido
pensiero, la volpe subdola.

Non possiamo determinare con precisione il contenuto di questa favola, che, dalle poche battute che ci rimangono, sembrerebbe fosse arguta. Nei primi due versi si racchiude un enigma che sempre ha messo alla prova l’acume degli esegeti. Il Cericíde a cui è rivolta è chiamato achnyméne skytále. Skytále era un bastone di calibro omogeneo, che si adoperava, massime dagli Spartani, per la decifrazione dei messaggi segreti. Si divideva in due parti, tenute, una da chi doveva ricevere, una da chi spediva il messaggio. Chi lo spediva, avvolgeva sulla sua metà una striscia di cuoio, e su questa scriveva il messaggio. Chi lo riceveva, avvolgendolo sull’altra metà del bastone, faceva che di nuovo [p. 100 modifica]coincidessero i lembi delle parole scomposte nel primo svolgimento, e leggeva. Skytále significò poi semplicemente messaggio. Il Cericíde a cui è rivolta questa favola, era dunque chiamato «messaggio afflitto», o, come direbbero i Napoletani, afflittivo.

La giusta via per risolvere l’enigma fu aperta, credo, da Giuseppe Fraccaroli (ne I lirici greci tradotti). Egli suppone che questo Cericíde, nel cui nome si sentiva chiaro l’ètimo kêryx = araldo, avesse un aspetto che in qualche modo facesse pensare alla skytále. E, se supponiamo ancóra che avesse un’apparenza un po’ malinconica, si capisce senz’altro l’accoppiamento dell’aggettivo che conveniva alla persona con l’oggetto scelto a simboleggiarla. L’inatteso e bizzarro avvicinamento ha sapore assai comico; e di simili se ne possono raccogliere a bizzeffe nella commedia attica.

Ma, secondo me, c’è dell’altro. lo credo che skytále sia qui usato in senso furbesco, come nella Lisistrata d’Aristofane (987-92), e sia espressione metaforica da allineare con quelle dei frammenti 34 e 115. E nel sonetto del Belli già ricordato, Er padre delli santi, ne troviamo una che è la precisa traduzione di skytále: tortóre. Anche piú corrispondente, l’altra: torciorecchio (Belli, vol. VI, pp. 60 e 70), che sarebbe un bastone corto e grossetto, come, su per giú, dove’ essere la skytále, con in cima un anello di corda, nel quale i maniscalchi infilavano e poi torcevano un orecchio del cavallo che non voleva star fermo quando lo ferravano.

Ma meglio dell’una e dell’altra mi sembra che renda lo spirito del testo il vocabolo, anche più vivo nell’uso comune, proprio e figurato: manganello. Il Cericíde è un manganello; e, per giunta, bazzotto. Una simile metafora si può trovare, sempre viva e verde, nel parlar furbesco di qualsiasi popolino.

93 (82)

Appoggiato all’archetto della trappola.

Etimol. Magno, 715, 44. — Forse appartenne a questa favola. Perché il participio «appoggiato» è maschile, chi sta appoggiato all’archetto della trappola dovrebbe essere lo scimmiotto. Condotto all’orlo del pericolo, probabilmente, dalla malizia della volpe. [p. 101 modifica]

94 (83)

Ti rimpasti, o scimmiotto, quelle natiche...

Questo verso fu parodiato ne Gli Acarnesi (120) da Aristofane, il quale, invece di natiche, disse barba: Tanta barba, o scimmiotto, al mento avendo | camuffato da eunuco a noi ti mostri? — I Greci, per rimproverare chi, non essendo piú giovine, commettesse qualche leggerezza, dicevano: «E hai messa la barba?» (vedi Teocrito, XIV, 28). E il modo passò in latino: vedi Orazio, Satire, II, 3, 247: aedificare casas, plostello adiungere mures, | ludere par impar, equitare in arundine longa | si quem delectet barbatum amentia verset. Credo che qui Archiloco, pensando appunto a quel modo di dire, burlescamente, alla barba sostituisse le natiche, con riguardo alla nota caratteristica degli scimmiotti, d’avere le natiche callose e multicolori.

95 (84)
GIOVE E LA VERITÀ

Giove è fra i Numi il vate piú veridico,
e tutto adduce al termine.

Aristide, Oraz., 45, 39. — Non è improbabile che appartenesse alla stessa favola.

LA VOLPE E L’AQUILA

Questa favola, nella forma datale da Archiloco, restò famosa per tutta l’antichità, e molti scrittori ne serbarono memoria. Ne Gli Uccelli d’Aristofane, Peitetero dice all’Upupa che incoraggia lui e il suo amico Euelpide a far vita comune con gli uccelli: «Bada, che nelle favole d’Esopo | si dice espresso che la volpe fece | un affaraccio, a far lega con l’aquila». Perché, [p. 102 modifica]infatti, l’aquila e la volpe strinsero un’alleanza, forse di caccia. Se non che, quando la volpe partorí i suoi piccini, l’aquila glie li ghermí, e li portò in pasto ai proprii aquilotti, sul sommo vertice d’un monte. La volpe protestò; ma non riscosse che parole di scherno. Allora si rivolse a Giove; e Giove puní la bestia prepotente, facendo sí che, una volta che aveva rubato da un’ara un pezzo di carne, portasse nel proprio nido, attaccata a quello, anche una bragia, che incenerí nel nido lei insieme coi suoi aquilotti.

Ogni lettore arguirà facilmente in qual punto del contesto potessero trovar luogo i vari frammenti, che troviamo dispersi in tanti scritti dell’antichità.

96 (89)

Si narra questa favola
fra gli uomini che un dí la volpe e l’aquila
in società si unirono.

Ammonio, ediz. Val. P., 6.

97 (90)

E li porta ai suoi figli, orrido pasto.

Etim. M., 32, 26.

98 (91)

Che tu possa scontarmela!

Etim. M., 26, 23.

99 (92a)

Vedi tu dove sorge quell’altissimo
picco, tutto aspro e díruto?
Sto quivi; e dei tuoi attacchi me n’infischio.

[p. 103 modifica]

Attico in Eusebio (Prepar. Evang., XV, 795 a), citati questi versi, soggiunge: «Che quella bestia furba e maligna possa giungere a quell’altissimo picco, è impossibile. Perché la volpe possa trovarsi in un medesimo posto coi figli dell’aquila, bisogna, o che quelli, per qualche loro mala ventura, precipitino a terra, o che la volpe, messe le ali che non ebbe da natura, le túrbini veloci, e cosí, sollevatasi da terra, voli verso l’eccelsa cima». Nelle ultime parole del testo sono evidenti le tracce d’un ordinamento ritmico; sicché se ne può ricomporre il frammento.

100 (92 b)

A vortice le rapide
penne volgendo, dalla terra al vertice
dell’alta roccia adergesi.

Vedi le osservazioni al frammento precedente. Sarebbero parole dell’aquila in derisione della volpe.

101 (93)

Vedi che non incontri il Chiappanera..

Lo scoliaste ad Omero (11, 24, 315) dice che Archiloco dava questo appellativo all’aquila. Ma Esichio, riferendo il medesimo vocabolo, lo intende come equivalente di prode, valoroso. I poeti comici lo adoperano piuttosto, parrebbe, nel senso di: stizzoso, facile a farsi salir la mosca al naso; e la loro predilezione è già indice di un certo valor burlesco, al quale bene si attaglia la sua etimologia. Lo diedero i nanerottoli Cèrcopi ad Ercole, quando furono presi dall’eroe e chiusi in una gabbia; e l’eroe si mise a ridere, e li lasciò andar liberi.

102 (94)

O Giove, o padre Giove, è tuo l’imperio
del ciel, l’opre degli uomini

[p. 104 modifica]

scorgi, empie o sante, e a cuor ti sta, se siano
le fiere o giuste o perfide.

Stobeo, 1, 3. — Parrebbe che fosse la preghiera della volpe a Giove.

103

Ed egli avea di fuoco una scintilla.

Scol. Arist. Acer., 279. — Non mi pare impossibile che appartenesse a questa favola. Il Diehl non lo accoglie.


104 (103)
LA VOLPE E IL RICCIO

Molte la volpe ne sapeva: il riccio
una, ma buona.

Riferito da Plutarco (Sagg. degli animali, XII); il quale con due versi di Ione specifica quale fosse questa scienza del riccio: formava di sé un gomitolo tutto irto di spine, sicché non riuscisse possibile né morderlo né toccarlo. Una bellissima pittura di simile strategia (lotta del riccio con un serpente) si può leggere nei Vingt et un jour d’un nevrasténique di Mirbeau.

105 (86)
DUE FACCE

Recava il fuoco in una man, con subdola
mente, e con l’altra l’acqua.

[p. 105 modifica] Questi versi sembra fossero specialmente cari a Plutarco, che li citava nella vita di Demetrio (35), e in due degli opuscoli morali: Sul primo freddo (14) e Sulle opinioni comuni (23). Qui Archiloco, sempre secondo Plutarco, canzona con la immagine dell’acqua e del fuoco, una donna che nutriva opinioni contradittorie. A me pare di sentirci il tono della favola. [p. 107 modifica]

POESIE VARIE

[p. 109 modifica]

106 (112)
LANGUOR D'AMORE

Tale un desio di baci nell’intimo — cuore mio serpendo
densa nebbia versò su le pupille,
l’anima tenera fuori dal petto rubandomi.

Stobeo, 4, 20. Qui, come nel frammento precedente, Archiloco si mostra vero precursore di Saffo.

TORMENTO D’AMORE
107 (104)

Nel desiderio, misero
me, senz’anima giaccio, da spasimi orrendi trafitto.
l’ossa, mercè dei Superi.

Citato da Stobeo, 4, 20, senza parola di chiarimento. E not ce n’è troppo bisogno. Poche volte o nessuna troviamo nella poesia antica un cosí disperato e sincero grido di passione amorosa. [p. 110 modifica]

108 (118)

Il desiderio che le membra fiacca — amico mio, mi prostra.

Efestione, 15, 9. — Non meno sentito ed efficace dei frammenti precedenti.

109 (102)
EMULO DEGLI ASINI

E come quel d’un asino
di Priène, robusto e d’orzo saturo,
rigonfio aveva il bischero.

Etim. M., 167, 25. L’immagine dell’asinello inuzzolito per il troppo orzo era cara alla poesia giambica e burlesca. Ne Le Vespe d’Aristofane, il servo Sosia cosí dipinge il vecchio Filocleone al convito: «S’impinzò prima d’ogni ben di Dio | e poi, zompi, scorregge, piroette | sghignazzate: pareva un asinello | satollo d’orzo»).

110

E gli recise i tendini del bischero.

Tanto sono ignoti i protagonisti quanto chiara è l’operazione

LA FESTA DI DEMETRA

Ateneo (10, 415 d) dice che Archiloco beffava Carila per la sua voracità. Parrebbe che questa poesia fosse il racconto d’una beffa fatta durante un pubblico festino. E la mente corre alla analoga composizione nella quale Ipponatte narrava la storia, vera [p. 111 modifica]o immaginaria, del supplizio di Bupalo. Come in Ipponatte, anche qui la scena si svolgeva in una gran festa: in onor di Demètra, parrebbe dal frammento 110. Tutta la città vi accorse, tranne pochissimi. E il bagordo era cominciato sin dall’alba.

111 (107)

D’ Eràsmone figlio, Caríla — buffa una storia or ti dico;
e tu l’udirai volentieri — o il più caro d’ogni amico.

112 (108)

Amarlo, per quanto odïoso — senza tante discussioni.

113 (109)

Indietro rimasero alcuni — cittadini; ma il gran numero...

114 (110)

A Dèmetra alzando le palme.

Questi quattro frammenti son riferiti, in via d’esemplificazioni metriche, da Efestione, 15, 2.

115 (111)

E come spuntato fu il giorno — bevve ognuno; e nel bagordo...

Gramm. Amburg. in Welcker, Opusc. IV, 50. [p. 112 modifica]

116 (119)
LE DUE DIVE

Celebrando la festa — di Demètra veneranda e di sua figlia.

Efestione (15, 16) dice che apparteneva agli Iobacchi.

117 (120)
INNO PER ERCOLE

Tralleŕalà!
Bel vincitore, Ercole re, salute,
te con Iolào, maestri ambi di lancia.
Tralleralà!
Bel vincitore, Ercole re, salute!

L’inno d’Archiloco a cui appartenevano questi versi, è ricordato da Pindaro (Olimpie, IX,1): «La canzone d’Archiloco, l’inno | che, fregio a chi vinse la gara, | tre volte risuona in Olimpia». — Il poeta, andato in Olimpia, lo compose in onore di Ercole e del suo fido auriga Iolao; ma, in séguito, fu cantato per ognuno che vincesse la gara in Olimpia, e, infine, per ogni e qualsiasi vincitore. — Con tralleralà ho reso un ténella del testo, che, secondo le testimonianze antiche, era una orale imitazione del suono della cetera (secondo altri, del flauto). Il ténella era seguíto da un callíniche (bel vincitore): il corifeo avrebbe intonato: ténella, e i corifei avrebbero risposto tre volte callíniche. Non so dire chi cantasse il resto; e alcuni opinano che in questi tre versi consistesse tutto l’inno. Ma non direi. Questi doverono essere un ritornello. [p. 113 modifica]

118 (117)
IL NUOVO ARIONE

Di cinquant’uomini il Nume del pelago — salva Cirano solo.

Plut. Solert. animal., 36. — In questo verso si allude ad una storiella che è un duplicato della favola d’Arione. Un tale Cirano, conterraneo del poeta — quello ricordato nel marmo di Paro (vedi pag. 75), una volta, a Bisanzio, comperò una rete di delfini che stavano per essere uccisi, e li rimandò tutti liberi. Qualche tempo dopo, la nave in cui egli si trovava, naufragò, e tutti perirono. Ma un memore delfino prese sul dorso il suo benefattore, e lo portò sano e salvo alla spiaggia.

119 (116)
FRA I MONTI

E fra gl’impervii valloni montani — nella sua gioventú.

Efest., 15, 8.

Nella raccolta del Bergk si trovano ancora molti altri frammentini, o piuttosto, briciole di Archiloco. Il Diehl li omette, e, secondo me, fa male; perché nel testo anche una sola parola può servire ad una piú completa integrazione dell’arte del poeta. Ma in una traduzione la maggior parte davvero non avrebbero alcun valore, e, quasi, verun significato. Ne raccolgo alcuni che possono offrire qualche interesse. Aggiungo la numerazione del Bergk. [p. 114 modifica]

120 (132)
PODISMO

Piú che ogni cosa, allora, i piedi contano.

Plutarco, De garrul., 2. — «Il chiacchierone si attacca dappertutto, ti si afferra alle vesti, alla barba, ti dà colpetti sulla pancia. E allora, come dice Archiloco, piú che ogni cosa, etc.». Naturalmente, questo non significa che Archiloco parlasse d’un chiacchierone: anzi, probabilmente avrà parlato, con la solita scettica ironia, della vita militare.

121 (122)

Come gli rosolò la cuticagna?

Erodiano, 336. — Non è che un gesto; ma serve ad arricchire la tavolozza giambica del poeta.

122 (137)

Coi pidocchi travagliandosi.

Vien subito alla mente ciò che i coreuti de La Pace di Aristofane dicono del loro poeta (776): «Ei sol — dice — i rivali desistere fe prima | dal beffare i cenciosi, dal far guerra ai pidocchi ». I pidocchi di Aristofane erano i demagoghi meno temibili, ai quali veniva contrapposto Cleone, figurato come un orribile mostro. Ma non è improbabile che qui si parli di pidocchi non metaforici, bensí reali: che non doverono essere troppo rari nel mondo a cui si ispirava Archiloco. [p. 115 modifica]

124 (139)

Molta schiuma fioriva ai labbri intorno.

Lo cita lo scoliaste alla Lisistrata d’Aristofane (1257), dicendo che ad Archiloco è ispirata la bellissima ipotiposi aristofanesca degli Spartani: «Noi guidava Leonida: | come cinghiali arrotavamo i denti | e molta schiuma ci fioria le labbra | e molta infino ai piedi | ci colava giú giú: ché della sabbia | non meno numerosi erano i Medi».

125 (143)
IL MOTTO DI ARCHILOCO

Hai la cicala — presa per l’ala.

Si ricostruisce abbastanza sicuramente da un brano di Luciano (Pseudol., 1), il quale dice che Archiloco, stuzzicato da un tizio, gli rispose con questo verso, paragonando sé stesso alla cicala: che già è garrula in condizioni normali; ma se qualcuno la provoca, chi si salva piú? [p. 117 modifica]

SIMONIDE D’AMORGO

[p. 121 modifica]

Simonide visse, su per giú, ai tempi di Archiloco. Suo contemporaneo lo dicono il Marmo Pario e Suida. Proclo (Crestom., 243, 21 W) pone Archiloco sotto Gige, Simonide al tempo di un re Ananio, che poi sarà Argaio, e che visse fra il 640 e il 610.

Nacque a Samo; e, al pari di Archiloco, espatriò, in cerca di fortuna. Ma non verso il Nord, bensí verso il mezzogiorno, ad Amorgo, dove, narra la tradizione, avrebbe egli stesso guidata una colonia. Della sua vita non sappiamo altro.

I frammenti che di lui possediamo sono assai inferiori, per numero, a quelli di Archiloco: per compenso, c’è una satira contro le donne, assai lunga (94 versi: vedi note al frammento), che si può credere completa. Accanto a questa, un’altra satira, piú breve e scolorita, anch’essa contro le donne; una considerazione sulla incertezza della vita umana (24 versi), che non ha molto carattere; e, ugualmente anodina, una elegia, che probabilmente gli appartiene, sebbene la tradizione la annoveri tra le opere del suo omonimo Simonide di Ceo.

Negli altri frammenti e frammentini, tutti giambici, non v’è traccia di attacchi personali. Ma, a parte questa diffe[p. 122 modifica]renza, è certo che in tutto il resto ricordano assai da vicino gli archilochei.

Anche in essi troviamo accenni alla vita di bagordi, o picaresca (framm. 14, 15); anche qui dalla beffa sembrano emergere tipi, quali gli scrocconi ai sacrifizi (10), o il cuoco (21), che poi divengono ospiti abituali della commedia; anche qui si raccontano favole, e, nelle favole e fuori delle favole, si incontrano spesso e volentieri le bestie: falchetti, aironi, nibbi, oche, porcelli, scarafaggi (prediletti): anche qui balza in prima linea quel singolare mundus del quale sono gran parte, secondo lo spirito d’Arlecchino, gli articoli mangerecci, e massime i pesci: seppie, tonni, gamberi, ghiozzi; e in questo breve regno di Simonide, trionfa, come un re, il cacio tromilio.

C’è, dunque, anche in Simonide, tutto l’Archiloco che direi minore: c’è il genio che nega. Manca quello che esalta; e manca affatto, almeno a giudicar dai pochi frammenti, l’entusiasmo per la bellezza.

E cosí, non v’è la più lontana traccia della passione erotica che prorompe in Archiloco con tanto mirabili accenti. E la donna, che al poeta di Paro ispirò i versi più belli, non esercita alcun fascino sul suo emulo d’Amorgo. Quando ne vede una bella, bellissima, pensa ad una cavalla scapestrata. I vecchioni dell’Iliade dicevano che alla gran bellezza di Elena tutto doveva essere perdonato.

E via via, nella fisionomia, negli atteggiamenti, nei costumi di ciascuna donna, scopre una bestia: per lo piú, una brutta, maligna, sudicia bestia. Ed è un esperimento abbastanza facile. Però, sta a vedere se non riuscirebbe altrettanto e piú, esercitato alle spalle degli uomini. Facendo, appunto, un tale esercizio, il protagonista de L’isola delle bestie di Wells, si riduce ad abbandonare la società umana.

Insomma, Simonide è misogine sul serio, e non per burla [p. 123 modifica]o per malinteso, come tanti altri artisti, per esempio Euripide, che convertono in creduto odio l’eccesso dell’interesse e dell’amore. Simonide se n’infischia sul serio, beato lui, della bellezza e di ogni fascino o grazia femminile. E se fa una eccezione, la fa per la massaia; e cosí conferma la regola. In un’altra poesia, ritira anche l’eccezione, e butta a mare, tutto in un fascio, il mondo femminile.

Nel grigio dei suoi frammenti, questa è l’unica nota bril- Iante questo sembra il suo sentimento piú vivo e profondo; e questo, naturalmente, gl’ispira le cose più belle. Nella sua satira si ammirano profondità e acutezza d’osservazione, estro arguto nei ravvicinamenti col mondo degli animali, vivacità e forza icastica nel foggiare immagini con le parole. Meritamente varcò i secoli, e piacque sempre ai lettori d’ogni tempo e d’ogni paese. Leopardi la fece italiana.

E possiamo dire che in questa misoginia consista per intero la sua personalità. Del resto, l’artista è molto inferiore ad Archiloco. All’angustia della sua visione, risponde la modestia dei mezzi espressivi. Abbiamo visto che Archiloco, innamorato, ebbro di tutta la vita, anche nella irrequietudine della forma vorrebbe riprodurne l’innumerevole varietà: sicché, adopera tutti i metri conosciuti, e ne foggia continua- mente di nuovi. Simonide si contenta dell’unico giambo. Suida, veramente, dice che gli antichi possedevano di lui elegie, e che una di queste era una Storia di Samo (qui si pensa alla Eunomia di Tirteo, e alla poesia in tetrametri di Archiloco, che forse fu anch’essa una storia di Paro); e forse, come dicemmo, anche noi possediamo una elegia. Ma poco aggiungerebbe al suo bagaglio di ritmografo qualche componimento scritto in un metro già fin d’allora comunissimo. [p. 125 modifica]

1 (7)
DONNE CENTO CATTIVE UNA BUONA

Assai diversa il Dio fece in principio
l’indole delle donne. Una, ebbe origine
dalla scrofa villosa: in gran disordine
nella sua casa, fra il pattume giacciono
5tutte le cose, e a terra si sparpagliano;
e sudicia essa, avvolta in vesti sudice,
siede ed impingua in mezzo al letamaio.

Trasse il Dio l’altra dalla volpe perfida,
che tutto sa: nessuna delle pessime
10cose le resta ignota, e non dell’ottime;
e spesso con bontà, poi con tristizia
ti favella, e d’umor sempre è mutevole.

Questa dal cane, curïosa ed avida,
che veder tutto, tutto udir desidera,
15e gira in ogni luogo, e sbircia e chiacchiera,
pur se non vede anima viva. Smettere
non la faresti mai, né minacciandola,
né spezzandole, in impeto di collera,
con una pietra i denti, né dicendole

[p. 126 modifica]

20melliflue parolette, anche trovandosi
in casa d’altri; e, senza ber mai, chiacchiera.

Ne plasmarono un’altra, e all’uom la diedero,
con la terra, gli Olimpî. Il ben discernere
non sa punto dal male una tal femmina.
25Mangiare è il sol mestiere ond’ella ha pratica;
né per quanto abbia freddo, e il verno rigido
il Dio mandi, la sedia al fuoco approssima.

Una dal mare, e questa anima ha duplice.
Un giorno ride, è tutta lieta, e l’ospite
30che la vedesse, ne farebbe elogio:
«Altra donna non v’è che questa superi,
fra quante sono, o piú piena di grazia!» —
Un altro giorno, invece, è insopportabile,
non la puoi né guardar, né presso fartele,
35ma furïando va, come ai suoi cúccioli
la cagna intorno, orrendamente, ed ispida
con gli amici e i nemici, ed antipatica.
Similemente il mar, talora è placido
ed innocente, e gran delizia ai nauti,
40nel tempo dell’està, talora infuria
con l’ondeggiare dei marosi e il bòmbito.
E appunto al mar somiglia una tal femmina.

Vien dall’asina un’altra, usa a ricevere
picchi e nerbate. Solo minacciandola,
45sol con la forza, far puoi che le piaccia
qualche lavoro: prima di quel termine,
sta nascosta in un angolo, e mangiucchia,
e notte e di sopra il camin s’accoccola,

[p. 127 modifica]

e mangiucchia. Se poi fossero pratiche
50d’amore, accoglie il primo che le càpita.

Questa, sozza, empia stirpe, dalla dònnola,
che in sé niente ha di bello e di proficuo,
niente di caro, niente mai d’amabile,
del giaciglio d’amore insazïabile,
55che, se sta con un uomo, infin lo stomaca;
ruba ai vicini, e fa d’ogni erba fascio,
e divora le offerte innanzi ch’ardano.

Fu madre all’altra una cavalla morbida,
di lungo crine. La fatica e l’opere
60servili ha in gran fastidio, e staccio e macina
non toccherebbe mai, né l’immondizie
spazzerebbe da casa, o la fuliggine
dal focolare; e t’ama sol per obbligo.
Sta tutto quanto il santo giorno a tergersi,
65due volte, e spesso tre, s’unge di balsami,
ravviata la chioma a fil di pettine,
disciolta, ombrata di corolle floride.
È questa donna, certo, uno spettacolo
bello per gli altri; e pel marito, un guaio,
70se pur non sia re di corona o principe,
che di tali vaghezze allegri l’animo.

Un’altra dalla scimmia. È il piú pestifero
questo flagello, è il pessimo che agli uomini
Giove abbia inflitto. Il viso è un vituperio,
75quando essa va per la città, ludibrio
è degli uomini tutti. Ha la collottola
corta, cammina mal, priva è di natiche,
è pelle ed ossa. Oh, quel marito è misero,

[p. 128 modifica]

che stringe fra le braccia un simil canchero!
80Pur conosce ogni astuzia ed ogni chiappola,
da brava scimmia; e non le fa che ridano.
Né bene ad uom farebbe; e questo spècola
da mane a sera, questo sol rimúgina,
che malanno maggior ti possa infliggere.

85Questa, dall’ape. L’uomo che le càpita
è pur beato! A lei soltanto, biasimo
mai non s’appiglia, e prosperosa e florida
per lei divien la vita. Amata invecchia
con lo sposo ch’ella ama, e bella ed inclita
90è la sua stirpe, insigne è tra le femmine
tutte, e la cinge una divina grazia:
né si compiace a star con donne in crocchio,
allor che sono i lor discorsi lubrici.
Queste le donne son di senno, l’ottime:
95Giove con esse all’uomo il cuor letifica:
create l’altre per il suo martirio
furono; e non riesce a sbarazzarsene.

Stobeo, 4, 22. — Il brano citato da Stobeo comprende, oltre a questa satira, anche il frammento seguente. Mi sembra però indiscutibile che appartengano a poesie diverse, anche se affini.

Antico vezzo dei poeti fu scriver satire contro le donne. Questa di Simonide, evidentemente ispirata a un brano della Teogonia d’Esiodo (591-612: vedi anche Opere e giorni, 373-376 e 60 sg.), è, fra le molte variazioni di tanti poeti, una delle piú argute. A ciò si deve, naturalmente, la sua grande popolarità.

Non v’ha dubbio che il testo, quale lo presenta Stobeo, il quale, a sua volta, l’avrà tolto da qualche altro florilegio, presenta parecchi guasti; ma non tali che offuschino il senso, tranne in particolari insignificanti, che non àlterano la linea della composizione, nitidissima, elegantissima. Ma l’industre filologia s’è tanto adoperata, che al corpo sano ha procurato scabbia. E con [p. 129 modifica]la pretesa, quasi mai sostenuta da veruna intelligenza d’arte né di poesia, di migliorare, ha inflitte al frammento le piú sconce manipolazioni. Inutile farne cenno speciale. Rimando alle severe ma giustissime parole di Giuseppe Fraccaroli (Lirici greci, I, 74-75). — La poesia è tutta chiarissima. Per l’espressione del verso 21: «e senza mai ber, chiacchiera», ricordo che i popolani di Roma, a chi ciancia a dirotto, dicono: «Nun bevi mai?».

2 (7a)
CHI DISSE DONNA DISSE DANNO

Giove creò dei mali il piú pestifero,
le femmine anche quando par che giovino,
son, per chi le possiede, una disgrazia.
Ché non trascorre un solo dí pacifico
5da mane a sera, chi vive con femmine,
né può dal tetto suo la fame espellere,
trista coinquilina, Iddia malefica.
E quando l’uomo sembra che piú prosperi,
per divin fato, o per mercè degli uomini,
10essa trova da apporre, e s’arma, e lética.
Dove una donna c’è, se arriva un ospite,
non sarebbe prudenza in casa accoglierlo.
E quella che, a vederla, ha piú giudizio,
quella combina le piú sconce trappole:
15a bocca aperta sta il marito; e gongola
il vicinato, nel vederlo bevere
grosso; perché ciascun cita e magnifica
la propria moglie, e quella d’altri biasima.
Tutti i mariti attende una medesima
20sorte, e non lo sappiamo. — È il piú gran guaio

[p. 130 modifica]

fra quanti Giove ne creò, la femmina;
e le diede lacciòli inestricabili,
dal dí che in Ade tanti eroi piombarono,
che per via d’una donna estinti caddero.

Nel florilegio di Stobeo appare unita col frammento precedente, ma senza dubbio appartenne ad un’altra poesia. Nella quale il poeta si mostrava anche piú misogino, e non ammetteva neppure l’eccezione concessa nell’altro brano. Con questo concordano piú precisamente i versi già ricordati, della Teogonia d’Esiodo (591). «Da questa derivò delle tenere donne la stirpe | la razza derivò, la donnesca genía rovinosa, | grave iattura, che vive fra gli uomini nati a morire, | che della povertà compagne non son, ma del lusso. | Come allorché nei loro profondi alveari, le pecchie | nutrono i pigri fuchi, compagni d’ogni opera trista; | esse l’intero dí, sin che il sole si tuffa nel mare, | sinché la luce brilla, riempiono i candidi favi, | e, rimanendo i fuchi nel fondo agli ombrosi alveari, | mèsse nel ventre fanno di ciò che raccolsero l’altre: | similemente, a danno degli uomini, Giove che tuona dal ciel, pose le donne compagne d’ogni opera trista». — Qui vediamo poi abbozzata, con tratti, che al solito, preludono alla commedia, la macchietta del marito gonzo.

3 (6)
TESORI E CASTIGHI DI DIO

Non c’è per l’uom di buona donna acquisto
miglior, né piú della cattiva tristo.

Clem. Aless., Strom., 6, 13, 1 sg. — È riduzione giambica di due versi de Le Opere e i giorni (702): «Perché l’uomo non può far acquisto miglior d’una sposa | saggia, o dannoso piú d’una trista». Il concetto medesimo è insistentemente ripetuto [p. 131 modifica]nell’Ecclesiastico (26): sul quale vedi ciò che si dice a proposito del frammento 5. Vedi, per esempio, Proverbii, XIV, 1: «La donna savia edifica la sua casa — ma la stolta la demolisce con le proprie mani».

4 (1)
GIOVE ARBITRO DI TUTTO

O figlio, regge d’ogni cosa l’esito
Giove che dal ciel tuona, ed a suo libito
le volge; e niuna sicurezza han gli uomini;
ma dí per dí si vive, a bruti simili,
senza sapere qual mèta prefiggere
voglia a ciascuno il Nume. E speme e credula
fede nutre ciascuno, e s’arrapinano
tutti invano un dí questi pazïentano,
quelli per lunghi e lunghi anni; e nel prossimo,
nessuno v’è che non s’illuda vivere
fra le grasce beato e le dovizie.
Ma l’uno abbatte, pria che giunto al termine
sia, la vecchiaia poco invidïabile:
del morbo un altro struggono gli spasimi:
da Marte altri atterrati, entro le tènebre
profondan della terra: altri, da un turbine
travolti in mare, nel maroso ch’èstua
trovan la morte del purpureo pelago,
quando lieti poteano in terra vivere.
Altri, misera sorte, un laccio strinsero
di propria mano al collo, e gli occhi al raggio
chiuser del sole. Niun dalle disgrazie
immune va: sciagure innumerabili

[p. 132 modifica]

incombono su l’uomo, e inesprimibili
cordogli e crucci. Ed or, se un mio consiglio
volessero seguir, non volgerebbero
le voglie a beni che non son che triboli;
né, ai guai pensando ognor, si cruccerebbero.

Stobeo, 4, 34. — I concetti qui espressi sono frequentissimi in tutta la gnomica greca. Si può specialmente rievocare, a confronto, una famosa elegia di Solone. A questa variante di Simonide non manca vivacità icastica. L’apostrofe iniziale: «O figlio», era anch’essa luogo comune della gnomica non solo greca, bensí orientale in genere: vedi, per esempio, Bibbia, Proverbî, II, III, IV, V, VI, etc.. Le citazioni dalla Bibbia sono tolte, qui come altrove, dalla nuova bellissima versione del Liuzzi.

5 (2)
CHI MUORE GIACE E CHI VIVE SI DIA PACE

A chi morí, qualora senno avessimo,
piú d’un giorno pensar non si dovrebbe.

Stobeo, 4, 56. — Ci offende. Ad ogni modo, lo svolgimento e la giustificazione di questa massima si possono trovare nell’Ecslesiastico (XXXVIII, 16 sg.). Ecco il precetto e la giustificazione essenziali. «Piangi amaramente, sian cocenti i tuoi sospiri — porta il lutto secondo ch’e’ merita — un giorno o due, per evitar la maldicenza — poi consólati, per bandire la tristezza — ché la tristezza fa venire la morte — e la malinconia del cuore deprime le forze. — La tua tristezza ti fa soffrire — e non giova nulla al morto. — Il morto riposa; lascia dunque in riposo il suo ricordo! — Il suo spirito s’è partito da Lui — e tu ti consola (versione Liuzzi). — L’Ecclesiastico è relativamente moderno; però, molto è ispirato allo studio della Legge, dei Profeti, e degli altri antichi libri della sapienza ebraica. [p. 133 modifica]

6 (3)
VITA BREVE MORTE LUNGA

Lungo tempo giacer morti dobbiamo,
e pochi abbiamo e tristi anni da vivere.

Stobeo, 4, 53. — Probabilmente appartenne alla medesima poesia a cui appartenne il frammento precedente. Nell’Alcesti di Euripide, il vecchio Ferete dice al figlio: «Certo della vita poco | mi resta, e il poco è pur dolce: ben lunghi | giorni sotterra passerò».

7 (4)
MORTE E BIASIMO UGUALI PER TUTTI

Niun dalla morte è immune, e niun dal biasimo.

Stobeo, 4, 41.

8 (14)
IL GALANTE

E di mirra e d’aromi e di baccàride
mi profumai: ché ne vendeva un tizio.

Clemente Alessandrino che cita questo verso (Pedag., 2, 64,3), dice che Simonide non s’era vergognato di scriverlo: sicché, parrebbe che il poeta parlasse di sé stesso. Lo vediamo dunque in un mercato, certo d’una delle città ioniche, mentre si [p. 134 modifica]fa bello, quasi di certo per recarsi ad un banchetto, o, ad onta della sua misoginia, ad un ritrovo galante. È un tocco appena, ma non disprezzabile per illuminare la figura del poeta e il carattere della poesia.

9 (15)
AVVENTURA

Pel portello di dietro io mi cacciai.

Si tratta, credo, d’un portello equivoco. L’Etimologico Magno, citando questo verso, sembra dire che Simonide, quando lo scrisse, aveva tempo da perdere. E in tutte le poesie di satirici, di giambici, di commediografi, quando si ragiona di chiassuoli, di usci, di porte di dietro, s’intende altro. Sòtade, il lascivo poeta alessandrino che, a quanto narra la tradizione, fu per la sua maldicenza fatto chiudere dal re Tolomeo Filadelfo in un vaso di piombo e gittato in mare, pigliandosela con un tal Filino, padre dell’auleta Teodoro, scriveva: «Ed esso, scoperchiato l’orifizio del vicolo di dietro | traverso al bosco della sua voragine | diede le mosse a un tuono | sfiatato come quei che molla un vecchio | bove all’aratro avvezzo». Si veda anche l’epigramma 242 nel V libro della Antologia Palatina.

10 (19)
INFORTUNIO SUL LAVORO

Schizzati fuori con le vesti fradice.......

Strabone, 13, 2, 6. — Si riceve l’impressione che con le vesti cosí fradice questi signori uscissero da qualche ritrovo di mala vita. [p. 135 modifica]

11 (16)
SDILINQUIMENTI

Smorfioso andava, al par d’un palafreno.

Etim. M., 270, 45. — Sembrerebbe appartenesse anche questo ad un contesto satirico. L’andatura dei cavalli era spesso assunta a significare la boria e la prosunzione dell’incesso. Ne Gli Uccelli di Aristofane (v. 800) un tronfio vanaglorioso è chiamato ippogallo.

12 (5)
PROSUNZIONE GIOVANILE

Trotta pari a corsier puledro svezzo.

Plut., De prof. in virt., 14. — Si riferirà a qualche giovincello che, appena toccata la pubertà, voleva farla da uomo.

13 (17)
IL VEDIGROSSO

È orbo, o losco, oppure vede grosso.

Polluce, 2, 65. — Rendo con «vede grosso» (come i cavalli, almeno a quanto dicono), il méga blépein, che, inteso nel significato piú ovvio, vorrebbe dire: avere aspetto magnifico, o giú di lí; ma qui non quadrerebbe. Si deve trattare di qualcuno che aveva le traveggole: il verso apparteneva dunque a contesto satirico. [p. 136 modifica]

14 (9)
IL CHIACCHIERONE

Per sí lunghi discorsi a che mai corsi?

Scol. Eurip., Fenicie, 207.

15 (10)
SCROCCONI

Per prima cosa tirano ai budelli,
sull’esempio del nibbio.

Pare che il nibbio fosse considerato specialista nel rubare le vittime, mentre si offrivano sacrifizi. Ne La Pace di Aristofane, lo spacciaoracoli Ierocle dice a Trigeo (1109): «Bada che negli inganni non abbia ad avvolgere un nibbio | la tua mente, e ghermisca.....». E Trigeo risponde: «Ragazzo, sta in guardia: ché questo | oracolo, mi sembra, sciagure minaccia ai budelli». — E ne Gli Uccelli (891), Gabbacompagno (Peitetero), al sacerdote che sta celebrando il sacrificio per Nubicuculia: «Non lo vedi | che basta un nibbio a far piazza pulita | di quello che c’è qui?». In questo frammento si parla di gente che si comportava per l’appunto come il nibbio: certo in circostanze che offrivano la possibilità di simile conțegno: come, appunto, sacrifizi, banchetti pubblici o simili. La poesia fu dunque satirica, e, forse, giambicá, contro degli scrocconi. [p. 137 modifica]

16 (21)
CUOCO MAESTRO

Come il porcello ho rosolato, come
sminuzzata ho la carne, con la pratica
d’un officiante. Eh, me la cavo bene!

Ateneo (XIV, 659 d) cita questo brano, insieme con un altro di Menandro, per confermare la seguente asserzione: «Non c’è da meravigliare se i cuochi piú antichi erano pratici dell’arte dei sacrifizî; perchè appunto presiedevano a sacrifizî e a nozze». Parrebbe dunque che nella poesia di Simonide queste parole fossero attribuite ad un cuoco. Già, dunque, in questi antichissimi poeti giambici, troveremmo il tipo che dove’ poi divenire ospite abituale delle scene comiche; e in uno degli atteggiamenti di autoincensamento che poi divennero canonici. Cosí anche tornano frequentissime nella commedia scene di sacrifizii e sproloquî di cuochi officianti. Quello de L’adulatore di Menandro, qui citato da Ateneo, pontificando in un banchetto, nella festa di Venere pandemia, diceva: «Si liba: tu tieni i budelli e seguimi: | dove guardi? | Si liba! Ehi là, ragazzo! | Sosia! Si liba! Bene, versa. Prece | volgiam d’Olimpo ai Numi tutti e a tutte | le Dee | — frattanto tu piglia la lingua — | che ci dian la salvezza e la salute, | sostanze a macca, e usufruir dei beni | che già fin d’ora possediamo, a tutti». —

17 (20)
CACIO FAMIGERATO

Molto pria travagliar devi, o Telèmbroto.
.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
Quivi il cacio Tromilio è, dell’Acaia,
meraviglioso.

Erano riportati da Demetrio Scèpside, citato, a sua volta, da Ateneo (XIV, 658 b). Demetrio assicura anche per suo conto che [p. 138 modifica] questo cacio tromilio non temeva concorrenza; e dice che il primo dei due frammentini era il principio della poesia.

18 (13)
IN PESCHERIA

Seppia con tonni, e gamberi con ghiozzi.

Appartenne ad una di quelle filastrocche di cibarie tanto care alla poesia comica di Grecia. Ateneo (3, 160 d) lo ricorda insieme con due altri frammenti, l’uno d’un mimo di Sofrone, l’altro d’una commedia d’Epicarmo.

19 (28)

Come l’uovo d’un’oca del Meandro.

Aten., 11, 57 d. — Queste uova vanno messe vicine all’anguilla del frammento 8. Si vede che fàscino esercitasse sulle fantasie il famoso fiume di Caria.

20 (22)
TIRCHI

Fosse un sorso di mosto, niun lo dava.

Ateneo (10, 424 c) lo cita senza una parola che illumini. Ma queste parole starebbero benissimo in bocca a qualcuno dei soliti parassiti; che qui, probabilmente, biasimava la tirchieria di qualche anfitrione. [p. 139 modifica]

21 (24)

Questa sottil nel labbro argiva coppa.

Scol. A. Il., II, 219. — Si parlava di coppe che, a furia di star sul camino, venivano assottigliate dal fuoco. Questo verso potrebbe inquadrarsi tra il frammento precedente e il seguente.

22 (23)
IL LADRUNCOLO

Prese dal desco ov’erano i bicchieri.....

Ateneo, 11, 460 b. — Vien fatto di pensare che questo frammento e i precedenti appartenessero ad un’unica poesia. La scena si svolgerebbe in un simposio. C’erano i soliti scrocconi; ma gli anfitrioni erano tanto avari da non bere neanche un sorso di vino. Allora, uno di loro si fece giustizia da sé, e, avvicinatosi al tavolo dov’erano i vasi del vino, ne sgraffignò uno per proprio conto. Motivo, anche questo, caro alla farsa, alla commedia, e, in genere, alla poesia scommatica; e riflesso nella pittura ceramica (v. il mio volume Nel regno di Dioniso, pag. 17).

23 (8)
L’AIRONE E IL FALCHETTO

Un aghirone, dunque, s’imbatté
in un falchetto, che stava pappando
una ciriola del Meandro; e lui
glie la sgraffigna.

Aten., 7, 299 c. — Assai probabilmente appartenne ad una favoletta. Però, in Esopo non c’è traccia. [p. 140 modifica]

24 (11)
SCARAFAGGI

Qual bestiolina a noi volata è prossima,
fra quante ce ne son puzzolentissima?

Lo scoliaste omerico T all’Iliade, XVIII, 407, dice che queste parole si riferivano allo scarafaggio. Saranno dunque, secondo ogni probabilità, di Giove; e avranno appartenuto alla nota favoletta dello scarafaggio e dell’aquila, che fu cantata anche da Archiloco.

25 (12)
SBIGOTTIMENTO

Tanto non temerebbe un uom che, solo,
fra monti ombrosi, in un angusto tramite,
un leone incontrasse, una pantera.

Il passo di Galeno (in Ipp., Epid., 2, 1) che si riferisce a questi versi, non c’illumina sul loro significato. Vi si parla di un grande spavento; e vien fatto di pensare ad una famosa com- parazione omerica. Ma qui non siamo in contesto epico; e il paragone avrà forse avuto valore iperbolico e satirico.

26 (25)

Gli zoccoli scotea dei pie’ di dietro.

Lo scoliaste de Gli Acarnesi di Aristofane, (al v. 740) dice espressamente che Simonide parla di un porcello, chiamando appunto zoccoli i suoi piedi. Secondo ogni probabilità, dunque, anche la scena descritta in questa poesia, si sarà svolta in un convivio, e il porcello sarà stato condotto al sacrificio. [p. 141 modifica]

27
IL FIGLIO DI ERMETE

Dormía su velli, come il lesbio Prílide.

Crusius, in Paroemiographica SBMA phil. hist. Kl., 1910, 4, 4, 23. — Questo Prílide, secondo notizie antiche, sarebbe stato figlio d’Ermete. L’essenziale è che la frase qui citata da Simonide aveva acquistato valor di proverbio.

28

Facilmente gli Dei l’uomo dissennano.

Stob., 11, 1.

29
BUON SANGUE NON MENTE

Di Maia al figlio ed alle Ninfe doni
offron ché questi han sangue da pastori.

Scol. Odiss., XIV, 435. — Sembra una spiegazione, scherzosamente razionale, d’un qualche rito per Ermete e per le Ninfe.

30 (29)
ILLUSIONI UMANE

«Simili sono le stirpi degli uomini a stirpi di foglie».
     A molte orecchie suona tal sentenza, ma pochi
sanno serbarla in cuore: ché vigila in tutti Speranza,
     che in seno all’uom germoglia sin dagli anni suoi primi.

[p. 142 modifica]

Sinché di giovinezza gli arride l’amabile fiore,
     nutre ognuno assai spemi, ch’esito poi non hanno:
spera che mai per lui non giunga veccchiaia né morte,
     né, quando sta in salute, si dà pensier dei morbi.
O stolto chi di tali lusinghe si pasce, ed ignora
     che giovinezza e vita duran poco per l’uomo.
Ma tu, che questo sai, presso al termin di vita, sopporta
     con forte animo i guai, dei beni letifica il cuore.

Stobeo, 4, 34. Non tutti consentono al nostro Simonide la paternità di questa elegia, che espone, in forma abbastanza mediocre, concetti mille e mille volte ripetuti nella poesia gnomica. Concederla o negarla, poco rileva ai meriti e al carattere del poeta d’Amorgo. [p. 143 modifica]

MIMNERMO

[p. 147 modifica]


Ermenesiatte, poeta alessandrino, fiorito sul principio del secolo terzo prima di Cristo, scrisse per una bella, certa Leonzio, tre libri d’elegie, nel terzo dei quali era contenuto un «Catalogo d’innamorati». Di questo catalogo è giunto sino a noi un brano che, fra altri nomi illustri — Orfeo, Museo, Esiodo, Omero, Antimaco, Alceo, Anacreonte, Sofocle, Euripide, Filòsseno, Fileta, Pitagora, Socrate, Aristippo — annovera anche Mimnermo. E con tali versi:

Anche Mimnermo, che, dopo lunghe sue doglie, rinvenne
     l’eco soave, e il molle del pentametro spiro,
ardea per Nanno; e spesso, costretta la bocca nei lacci
     del bianco loto, i carmi d’Esàmia accompagnava[14].

Non conviene badar troppo a questo verboso querulo poeta, che, per amore del suo tèma (il trionfo d’amore), ci dipinge tutti i più grandi spiriti della Grecia in sembianza di ram[p. 148 modifica]mollite piagnucolose vittime d’Afrodite. Ma forse tale figurazione conviene a Mimnermo. Per lo meno in questo senso: che, in mezzo alla poesia di Ionia, piena di vivacità e d’ebbrezza, la sua è tutta imbevuta d’un senso di melanconia, di pessimismo, di perdizione.

Distinguiamo bene. Pessimista è anche Omero: pessimista è Archiloco, e sono Pindaro, Simonide, i tragici, e tutti, possiamo dire, i grandi poeti di Grecia. Ma il pessimismo è breve impaccio al loro canto, che presto scote da sé ogni mòra, e, affisandosi alle immagini di bellezza e d’ebbrezza che formano il prodigioso tessuto della vita, ne fa la propria materia, esaltandole e sublimandole, senza mortificarle ad ogni passo con vani problemi d’essenza.

Il canto di Mimnermo ne riesce invece tutto irretito e aduggiato. Le belle parvenze del mondo colpiscono anche il suo spirito (se no, non sarebbe poeta). Ma appena un istante; e spariscono dietro le nubi delle immagini tristi, che rapide vaporano sull’azzurro della prima ispirazione.

Vediamo la sua famosa comparazione della vita umana con le foglie caduche, e poniamola a confronto con quella d’Omero (vedi framm. 2). Per Omero il termine di confronto è argomento a vivaci pitture. Non dice che le foglie cadono; ma che il vento le sparge via dai rami: immagine di moto, dunque di vita; e, súbito dopo, c’è il pullulio delle nuove foglie, e la comparazione si conclude con la visione della primavera. È il trionfo della vita.

Mimnermo, invece, ricorda appena il dato pittoresco, le foglie; e súbito si sprofonda in una serie di lugubri meditazioni, alla fine delle quali ci fa balenare dinanzi agli occhi le funeree figure delle due negre Parche. E il trionfo della morte.

E cosí avviene per ogni visione di bellezza, di energia, di vita. [p. 149 modifica]

Tutti i poeti di Grecia si esaltarono nella contemplazione della gioventú: essa ispira ad Archiloco versi immortali: perfino Ipponatte, quando vede passare una giovinetta, leva le pupille dal suo brago, e saluta. Quale è invece l’effetto che la gioventú produce su Mimnermo? Un brivido d’orrore.

Perché afferma che è bella; ma non indugia in questo pensiero, e non se ne compiace. Riflette che dura poco. E che presto arriva la vecchiaia. E qui si ferma. E sosta a lungo. E annovera, quasi compiacendosene, le sue molte miserie.

Ma la piú strana delle sue poesie è quella, pur bellissima, ispirata al sole. Il sole fu sempre, per tutti i poeti, immagine della forza, della energia perenne, della divinità trionfante. Mimnermo, invece, lo guarda, e pensa alla fatica che deve compiere a batter tutti i giorni l’arco del cielo. Piú che alla fatica, direi, alla noia. È proprio l’impressione d’un nevrastenico.

E tale è il carattere principale della poesia di Mimnermo. È astenica.

Di fronte a questa parte negativa, troviamo un’unica affermazione, sebbene anch’essa indiretta. Una sola cosa di buono ha la vita: l’amore. E l’amore come non lo troveremo piú cantato da verun greco, almeno nel periodo classico (anche in Saffo è altra cosa): l’amore furtivo: il talamo considerato come una preda: l’amore adultero, parrebbe: in ogni caso, illecito che deriva il suo fàscino principale dal mistero. Amore nel senso moderno.

Tutto ciò si può ricavare, sembrerebbe, dalla elegia prima. Quali sviluppi avesse poi nella sua opera quest’unico tèma positivo, non sappiamo. Ma non c’è ragione per non prestar fede alla concorde tradizione dell’antichità, che lo salutò gran poeta d’amore; né vorremo contendergli il bell’elogio che gli fece Properzio in un brutto verso: [p. 150 modifica]

Plus in amore valet Mimnermi versus Homero.

Ma parrà quasi certo che anche le sue poesie d’amore, al pari della prima elegia, fossero offuscate dalla nebbia di pessimismo che fascia tutte le altre; da visioni di malanni, di decrepitudine, di morte.

E come si spiega allora il singolarissimo fàscino che Mimnermo esercitò sugli antichi, ed esercita ancor sui moderni?

Pei moderni si spiega quasi piú che per gli antichi; perché lo stato d’animo di Mimnermo ricorda assai da vicino la famosa «doglia mondiale», che, sebbene si proclami «superata », informa tuttavia tanta parte degli spiriti contemporanei.

Ma per i moderni e per gli antichi vale un altro fatto: che cioè, come già accennai, la sensibilità del poeta alle bellezze dell’universo è viva e profonda. E, sebbene non trovi lunghe effusioni nei suoi versi, pure li permèa di continuo. E gli accenni, anche brevi e fugaci, sono cosí felici, cosí sentiti, che valgono ad illuminare la tetraggine del contesto. Anzi, da questa tetraggine e da quelle balenanti visioni di bellezza e di vita, la poesia di Mimnermo deriva un carattere originale, strano, squisito, come d’un marmo sepolcrale velato di fiori luminosi fragranti.

Ma il fàscino principale consiste forse nell’armonia musicale.

Armonia di note, quasi di certo. Non è sicuro che a Mimnermo si debba attribuire la composizione del nomos cradías (canto del ficastro) che serviva ad accompagnare i capri espiatorii al luogo del supplizio (vedi Ipponatte, framm. 6-13): Plutarco, o, meglio, Ipponatte da lui citato, dice che Mimner[p. 151 modifica]mo lo suonava; e non già che lo avesse composto[15]; e Strabone chiama il poeta semplicemente aulèta, suonator di flauto (XIV, 28). Ma suonatore e compositore, in un uomo di tanto ingegno artistico, doverono essere una cosa sola.

Fu, dunque, fàscino della melodia, delle note. Ma questo fàscino si effondeva, come era avvenuto un po’ sempre, e come doveva nuovamente avvenire, con piú fervida ripresa del fenomeno d’origine, nella poesia eolica, dalle note alle parole. Queste, nate direttamente con quelle, da un unico alito creatore, rimanevano infuse, madide quasi della lor veste mèlica, anche se venivano separate dalle note. Questo fascino sentirono tutti gli antichi, i quali non avranno cantate le elegie di Mimnermo tutte le volte che le ripetevano, deliziati dalla loro armonia: questo sentiamo anche noi moderni, quando le recitiamo con una giusta valutazione ritmica.

Né lo spirito musicale informava di sé soltanto le parole; bensí investiva anche le immagini, i concetti, insomma il contenuto della poesia. Anche nella concezione e nella condotta dei pensieri, le poesie di Mimnermo sono, preludendo alla grande poesia eolica, eminentemente musicali.

E con una sottile analisi si potrebbero forse trovare i fattori obbiettivi di tale caratteristica. Ma giova? Tutti intendiamo che cosa si vuol dire quando si dichiarano musicali la canzone petrarchesca «Chiare fresche dolci acque»>, o il «< Canto d’un pastore errante nell’Asia», o il coro finale della Ermengarda di Manzoni. Le elegie di Mimnermo sono imbevute di una simile musicalità; la quale, non essendo indissolubilmente legata al suono delle parole, meno va perduta nelle versioni. Anche a questo si deve la gran popolarità, in ogni tempo e presso ogni gente, dell’antico poeta di Colofone.

Ed anche in tanta scarsità di documenti, riesce possibile [p. 152 modifica]una sicura illazione sul temperamento musicale di Mimnermo.

Egli fu un mèlico anziché un ritmico. In contrasto, anche qui, coi poeti del suo tempo[16]. Quando già Archiloco aveva dato cittadinanza ionica a tutti i ritmi, certo per secoli e secoli elaborati dai popoli civili e semicivili del bacino mediterraneo, egli si attenne costantemente al distico elegiaco. Evidentemente, cercava negli accenti mèlici tutta la forza della espressione.

I Greci dicevano che il ritmo era l’elemento mascolino della musica, il mèlos l’elemento femmineo. Sicché, anche in questa predilezione riesce confermato il temperamento di Mimnermo, molle e quasi femmineo.

Tuttavia, non bisogna dimenticare che, accanto alle poesie amorose e flebili, possediamo tre frammenti, uno sulla spedizione pel Vello d’oro, due sull’antica colonizzazione degli lonii, nei quali non è traccia della solita querulità, e suona anzi, un accento assai maschio. A me sembra che siano in genere troppo poco considerati. Potrebbe essere che una piú larga conoscenza dell’opera di Mimnerno ci inducesse a una diversa valutazione dell’arte sua.

Dati obiettivi della sua vita, pochi e poco precisi. Fra le varie città che si disputavano l’onore di avergli dato i natali, Colofone ha forse piú diritto d’ogni altra. Suida ci dice che nacque nella olimpiade 37 (633-629); e ottime sono le ragioni che adduce il Fraccaroli perché non si voglia spostare questa data. [p. 153 modifica]

Se è vero quanto dice Ipponatte, che suonasse la canzone del ficastro all’accompagnamento del capro espiatorio, supporremo facilmente che il bisogno lo costringesse a sobbarcarsi anche ad uffici a cui non poteva non ribellarsi il suo animo certamente gentile.

Dal nome di Nannò, la sua collega suonatrice di flauto, che vedemmo ricordata da Ermesianatte, ebbe il titolo la principal raccolta delle sue poesie. [p. 155 modifica]

1
GIOVINEZZA

Che cosa è mai la vita, di bello che c’è, quando è lungi
     l’aurea Diva Afrodite? Morire io possa il giorno
che non m’importino piú l’amore furtivo e il suo miele,
     ed il talamo, prede, fiori di gioventú,
per l’uomo e per la donna. Ché poi, quando giunge l’esosa
     vecchiaia, che riduce l’uomo debole e brutto,
angustïose cure perenni gli rodono il cuore,
     e nulla piú l’allegra, neppur del sole i raggi;
ma infesto ai giovinetti riesce, lo spregian le donne:
     tanto odiosa il Nume ha resa la vecchiaia.

Stobeo, 4, 20.

2
UOMINI FOGLIE

Noi siamo come le foglie cui germina la primavera
     fiorita, quando ai raggi del sol súbita cresce.
Simili a quelle, godiamo brevissimo tempo dei fiori
     di giovinezza; e a noi né il ben né il male, mai

[p. 156 modifica]

svelano i Numi. E negre le Parche vicine ci stanno,
     l’una reggendo il filo della vecchiaia tetra,
l’altra della morte. E labile il frutto degli anni
     giovani, quanto un volger di sole su la terra.
E quando poi tramuta la sorte di tale stagione,
     súbito allora è meglio la morte che la vita.
Perché sciagure molte travagliano i cuori. Rovina
     la casa a questo, e incombe su lui dura miseria:
l’altro per la mancanza di figli s’affligge, e bramoso
     di lor, s’avvia sotterra verso la casa d’Ade:
il morbo rode a un altro la vita. Nessun fra i mortali
     vive, cui non infligga copia di mali Giove.

Stobeo, 4, 34. — Poesia famosa, e giustamente famosa. Non bisogna però dimenticare, che già Omero, nel celebre episodio di Glauco, aveva cantato: «Simili sono le stirpi degli uomini a stirpi di foglie. | Le foglie, queste a terra le spargono i venti, e la selva | altre ne germina, e torna di nuovo a fiorir primavera: | cosí le stirpi umane, spunta una, quell’altra appassisce». Dove c’è minor copia di riflessioni, ma assai piú ricchezza di fresche evidenti immagini suggestive (vedi introduzione).

3
TITONE DISGRAZIATO

Un male senza fine die’ Giove in retaggio a Titone:
     la vecchiaia, peggiore dell’orribile morte.

Stobeo, 4, 50. — Viene a mente la vivacissima descrizione che della vecchiaia dello sposo d’Aurora fa l’autore dell’Inno omerico a Venere, 219: «Ma quando poi lo colse l’estrema vecchiezza odiosa, né muover piú potea, né pure agitare le [p. 157 modifica]membra, | questo le parve il partito migliore: rinchiuso tenerlo | nel talamo, e su lui serrare le fulgide imposte. | Un cianciuglío perenne gli usciva dai labbri, né l’ombra | piú della forza avea, ch'ebbe un giorno nell’agili membra».

4 (5)
TERRORE DELLA VECCHIAIA

Súbito a rivi giú per le membra mi corre il sudore,
     e tremo, se contemplo di giovinezza il fiore,
pur cosí bello e soave: ché viver piú a lungo dovrebbe.
     Ma breve tempo dura la cara gioventú,
simile a sogno; e sopra la fronte ben presto si aggrava
     la tediosa informe, la nemica vecchiezza,
priva d’onore, che l’uomo non piú conoscibile rende,
     lo avviluppa, gli offusca lo sguardo ed il pensiero.

Stob., 4, 50.

5 (4)
VECCHIAIA DISPREZZATA

Quegli che un giorno fu bellissimo, quando il suo fiore
     passò, neppur dai figli pregio riscote o amore.

Stobeo, 4, 50. [p. 158 modifica]

6
MORIRE SUI SESSANTA

Deh, senza malattie, deh, senza incresciosi pensieri,
     il Destino di morte mi colga a sessant’anni.

Diogene Laerzio, 1, 60. — Questa poesia diede argomento ad una famosa replica dell’amico Solone: il quale propose al poeta di Colofone di portare il limite ad ottant’anni.

7 (10)
IL TRAVAGLIO DEL SOLE

Grave travaglio il Sole conviene patisca ogni giorno,
     né viene a lui concessa, né ai suoi corsieri, mai
ora di tregua, da che, lasciato l’Océano, Aurora
     che rose ha ne le dita, l’arco del cielo ascende.
Lui, mentre dorme, un letto mollissimo, d’oro fulgente,
     concavo alato, frutto delle mani d’Efèsto,
velocemente adduce, sul fiore dell’acque, traverso
     i flutti, da la terra dell’Espèridi al suolo
degli Etïopi, dove s’arrestano il carro veloce
     e i corsieri, ché ascenda l’Aurora mattiniera.

Ateneo, 11, 470 a. Vedi introduzione. [p. 159 modifica]

8 (11)
IL VELLO D’ORO

Mai non avrebbe d’Eèa riportato lo stesso Giasone
     il gran vello, e compiuta la dolorosa via,
pel prepotente Pelia compiendo quell’ardüa gesta,
     né d’Océano ai rivi belli sariano giunti,
alla città d’Eèta, là dove del sole veloce
     entro un talamo chiusi dormono i raggi d’oro,
d’Océano presso al margine, ove giunse il divino Giasone.

Strabone (1, 2, 40), riferendo questo brano di Mimnermo, dice: «Se, come dice lo Scepsio (Demetrio), assumendo come testimonio Mimnermo (il quale, ponendo nell’Oceano l’abitazione di Eèta, presso Oriente, dice che al di fuori (ἐκτός) fu mandato Giasone, e riportò il vello)....... né sarebbe stata possibile quella spedizione per il vello in luoghi ignoti ed oscuri, né una navigazione per luoghi deserti e disabitati sarebbe divenuta celebre e d’interesse universale». Non è molto chiaro. A me pare che nel periodo di Strabone sia caduta la pròtasi: ché non può compiere tale ufficio la proposizione relativa nella quale si cita la testimonianza di Mimnermo. Strano che anche il brano di Mimnermo è una proposizione ipotetica priva della pròtasi.

9 (12)
COLONI

allor che Pilo lasciata, città di Nelèo,
con le navi giungemmo d’Asia all’amabil terra,
e Colofone bella prendemmo, ché forze avevamo
sovrabbondanti; e qui principio ebbe il sopruso.

[p. 160 modifica]

Poscia, oltre il fiume che li separava le terre, balzammo,
e Smirne eolia, in grazia dei Superi, espugnammo.

Dalla combinazione di questo frammento col passo di Strabone che lo riferisce (14, 1, 4), sembra si possano stabilire i seguenti fatti. I Pilii, guidati da un tale Andremone[17], approdano in Asia, e prendono Colofone, facilmente superando gli elementi indigeni; né la conquista fu senza strascichi di rancore (ἀργαλέης ὕβριος ἡγημόνες). Intanto, a nord, Smirne, colonia d’Efeso, veniva attaccata ed espugnata dagli Eolii. Gli Efesii ricorsero per aiuto agli lonii di Colofone, e solo col loro aiuto recuperarono la città. Il frammento di Mimnermo rispecchia questi fatti con qualche vivacità; e perciò mi sembra meriti piú considerazione di quanta si suole tribuirgliene.

10 (13)
EROE D’ALTRI TEMPI

Ben altre erano allora la forza sua, l’anima prode,
come io sentii narrare dagli avi miei, che lui
vider nel piano dell’Ermo, di frassino un’asta brandendo,
fugar le fitte schiere dei cavalieri lidi.
Mai non gli appose nota di biasimo Pàllade Atena,
che scarso fosse il vampo del cuor, quando fra i primi
della cruenta battaglia si fosse scagliato nell’urto,
rintuzzando le amare cuspidi dei nemici:

[p. 161 modifica]

poi che non c’era di lui nell’esercito alcuno piú prode,
per sostenere il cozzo della battaglia fiera,
quand’egli s’avventava, che un sole sembrava a vederlo.

Stobeo, 3, 7. — Sembra che il poeta parli d’un eroe del quale ha sentito narrare mirabilia dai suoi maggiori, ma che, quando egli lo conobbe, non era piú quello d’una volta. Se badiamo al tòno di simpatia, penseremo che di tal decadenza il poeta non volesse ricordare alcuna causa che implicasse biasimo. E si pensa alla causa naturale, la vecchiaia. Forse, svolgendo un tèma prediletto, il poeta ripeteva ancora una volta come gli anni avessero la trista virtú di fiaccare le forze, e non solo del corpo, bensí anche dello spirito, sia pure nel piú valido eroe. Anche questo brano, come il precedente, è interessante perché vi scorgiamo uno dei rarissimi riflessi dell’antica colonizzazione ellenica sulle coste dell’Asia Minore.

11 (7)
NON TI CURAR DI LORO

Tu pensa a farti buon sangue: dei tuoi cittadini scontrosi,
questo male di te dirà, quest’altro bene.

Antol. Pal., 9, 50. —

12 (8)
LA VERITA

                              . . . . . per me, per te,
sia sempre il vero il piú prezioso dei beni.

Stobeo, 3, 11. [p. 162 modifica]

13 (9)
MALA VOCE

Però la fama ch’egli riscuote fra gli uomini è triste.

Etim. M., 187, 45 G.

14
PEONIA TERRA DI CORSIERI


E gente ha di Peonia, ch’è patria d’egregi cavalli.

Scol., Il., XVI, 287.

15
BADARE ALL’ESSENZA

Egregiamente fotte anche uno zoppo.

Cod. Athen., 1083 (Paroem.) ed. Kugéas, SBMA phil. hist. Kl. 1910 Abh. 4, p. 15. — Si narrava che le Amazzoni, quanti uomini capitassero fra loro, li mutilassero o d’una gamba o d’un braccio. Una volta che erano in guerra con gli Sciti, questi, proponendo un accordo, fecero osservare che sarebbero stati mariti non mutilati né sconciati. E Antianèira, la regina delle Amazzoni, rispose con le parole che furono riportate da Mimnermo in un suo verso giambico, del quale ci rimangono solo queste poche parole. [p. 163 modifica]

IPPONATTE

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Ipponatte non ha avuto fortuna tra i moderni. Le storie letterarie se ne sbarazzano con poche righe. Soltanto il Fraccaroli[18] rilevò la sua importanza con giuste parole: «In un tempo in cui la poesia ionica tendeva ad esaurirsi sempre piú in formule leccate e stantíe, questa trivialità spettinata e petulante doveva avere un gran sapore di sincerità e di freschezza ». Però, concluse che, appunto per la sfrenata libertà della forma, è intraducibile; e, dunque, non si può renderne idea; e in un’antologia di versioni italiane «si può comodamente saltare». E saltato l’avrebbe, se negli ultimi tempi non si fossero scoperti i frammenti di Berlino, che egli crede sicuramente ipponattei, e il primo dei quali giudica assai caratteristico. E, in conclusione, degli ottantun frammenti di Ipponatte che ci rimangono, ne traduce solamente sei: occupano una paginetta scarsa (157).

Ora, anche ammessa l’attribuzione del nuovo frammento ad Ipponatte, la quale, anche dopo le acute osservazioni del Fraccaroli, non è poi sicurissima (i piú propendono ancora per Archiloco)[19], a me non pare che il frammento di Ber[p. 168 modifica]lino sia molto ipponattèo. Dico meglio, il suo carattere si distacca da quello che nitidissimo si raccoglie dagli antichi frammenti, e, se possibile, piú ancora, da quello d’un nuovissimo frammento che fu trovato un paio d’anni fa, e che è veramente pieno di rilievo e d’originalità.

Della vita d’Ipponatte sappiamo poco o nulla. Il padre si chiamava Pito, la madre Pròtide, entrambi di bassa estrazione. Intorno al 542, doveva abbandonare Efeso, sua patria, occupata dal tiranno Atenagòra sotto la protezione del re dei Persiani. Sarà dunque nato nella prima metà del secolo sesto. Da Efeso si trasferí a Clazomene, e qui visse da povero, anzi da pitocco; e non avrà scialato neanche ad Efeso.

Se però coglie nel vero, come credo, una ingegnosa congettura di Goffredo Coppola[20], anche Ipponatte, al pari di Archiloco, avrebbe avuti antenati benestanti. Se non che, uno di loro, piú sciupone degli altri, die’ fondo al patrimonio, e ridusse i discendenti a vita da poverelli. Pezzente fu sempre Ipponatte, e dové piegarsi a fare il servo e, parrebbe, lo zappaterra.

Che fosse ladro, come oggi qualcuno propende a credere[21], non mi sembra dimostrato. Però neppure è impro-

[p. 169 modifica]babile. Certo pare non gli fosse ignoto il tribunale; né è da presumere che vi andasse come testimonio (framm. 72). Indiscutibilmente, frequentò sempre le peggiori compagnie; e non soltanto per necessità, bensí anche, parrebbe, per elezione.

La mala vita lo attirava. E si capisce. Era mala vita di Efeso, d’una delle grandi metropoli di quell’antico mondo ionico.

Efeso, già avanti che arrivassero i primi coloni ionii, aveva una sua lunga storia. Costituirono il suo primo nucleo genti autoctone, raccolte intorno al santuario d’una di quelle divinità femminili che misteriosamente signoreggiavano la vita spirituale dell’antichissima Asia Minore. Si aggiunsero donne della famosa razza delle Amazzoni, qui refugiate, parrebbe, dalla loro patria invasa e devastata dagli Achei (vedi prefazioni all’Iliade e ad Esiodo); e questa infusione di caratteristici ed energetici elementi femminili, certo contribuí non poco a determinare il carattere della popolazione. Vennero poi Carii e Lelegi, fuggiaschi da isole su cui si stendeva il dominio della talassocrazia cretese, (Strab., XIV, 2, 27). Ma questi nuovi venuti occupavano la pianura: le alture, l’acropoli, erano in possesso di genti lidie (Paus., VI, 2, 7). E, assai probabilmente, durante un lungo periodo, su tutti si stese il dominio degli Etèi, e dei Frigi, discesi dalla Tracia attraverso l’Ellesponto.

A questi grandi movimenti, di cui rimangono testimonianze o tracce archeologiche, si deve aggiungere l’infinita [p. 170 modifica]imponderabile infiltrazione di cento e cento piccoli gruppi, di mille e mille singoli, che, per vie diverse e imprecisabili, confluivano da ogni parte del mondo antico a questa terra tutta florida di fiori e di frutti, dove crescevano fitti il fico, l’ulivo, il melograno, e che Erodoto dichiarava la più bella ch’egli conoscesse.

Con la migrazione ionica, che, sotto la guida di Androclo, scaccia i Lelegi ei Lidi dalla cittadella, e se ne impadronisce, comincia la vita nuova, ionica, d’Efeso. Ora, anche la migrazione ionica era mescolanza di genti egee, balcaniche, achee. Sicché, dall’undecimo secolo in giú, Efeso era già una gran metropoli, il cui principale carattere consisteva nella ricchissima e pittoresca varietà degli abitanti, d’ogni razza, d’ogni colore, d’ogni costume: come qualcuno dei moderni grandi porti internazionali.

Intermediarî fra le carovane dell’interno e gli armatori del porto, gli Efèsi si arricchivano per il commercio continentale e il traffico marittimo. E l’opulenza aggiunta alla varietà, contribuiva a dare alla città una magnificenza e un interesse che la mantennero celebre durante tutta l’antichità. Un re ed una piccola corte. Famiglie che via via crescevano in opulenza ed in fasto. Bande di mercenarii, la piú parte greci, ma poi d’ogni nazione, che costituivano, quasi per intero, l’esercito (Erodoto, 1, 77). Banchieri greci che prestavano denaro ai monarchi.

Ma due fattori contribuivano specialmente al suo carattere, al suo fàscino.

Uno, il porto e il traffico. Traduco un brano di Sartiaux, che, sebbene si riferisca ad un’epoca assai più recente (secolo IV), si addice assai bene anche alla Efeso d’Ipponatte: «Mercato di arrivo per tutte le merci che sbarcano dall’Europa e tutte quelle che arrivano dall’interno, le banchine rigurgitano di mercanzie e di casse, i bazar, riparati da tende [p. 171 modifica]sudice, risuonano dei rumori sordi strepitosi dei rivenditori. Le carovane, lunghe file di cammelli, d’asini e di muli, portano in giro per le vie i loro carichi dalle alte vallate del centro, frutti, vasellame d’oro e d’argento, stoffe e tappeti di porpora. È insieme un gran deposito e una immensa bettola, coi suoi ritrovi romorosi e le sue case di bassa orgia»[22].

L’altro grande centro di Efeso, era il celeberrimo santuario d’Artemide. Dedicato prima, come vedemmo, ad una divinità locale, andò via via mutando la forma e l’essenza medesima dei suoi idoli, con quel caratteristico fenomeno pel quale le antiche divinità, pure cedendo alle nuove, si infondono in esse, e si perpetuano, contaminandole con le idee fondamentali del loro culto, con le fogge dei loro riti, e, talvolta, con le parole delle loro formule. Anzi, precisamente tipica è questa divinità d’Efeso, che, pur trasformandosi nell’Artemide greca, le lascia l’attributo delle molteplici poppe, proprio della originaria divinità mostruosa e teriomorfica.

E all’ibridità dell’idolo rispondeva l’ibridità del culto. Non possiamo ricostruirlo con precisione; ma vediamo chiaro che in esso prevalevano, di fronte alle importazioni ioniche, i caratteri asiatici. Celebrazioni orgiastiche. Mutilazioni corporali. Fanciulle che, appena coperte di tuniche trasparenti, intrecciano in onore della Dea danze erotiche. Un collegio di sacerdoti, i Megabizi, eunuchi simili a quelli della Cibele di Sardi o ai famosi Galli, mutilati, della Dea Siria di Ierapoli. Accanto a questi, indovini imbroglioni, streghe, pratiche magiche.

Insomma, un complesso di tumulto, di splendore, di intelligenza, d’arte, di voluttà, di corruzione, d’orgia, di religione, di ciurmeria, di mistero, che non poteva non esercitare un gran fàscino su qualunque spirito artistico o sensibile. [p. 172 modifica]

E sotto la brillantissima superficie, la mala vita. Che, come avviene in tutte le grandi metropoli, si svolge in gran parte fuori della vita ufficiale, pure avendo con quella mille e mille interferenze. Che ha i suoi costumi, le sue leggi, i suoi eroi, i filosofi, e, perfino, la sua lingua speciale, il gergo.

Misera vita, di stenti, di dolori, di corruzione. Ma si tinge, come una pozzanghera al sole, di tutti i riflessi della gran vita, che si svolge al disopra di lei. Ed ha un suo fàscino speciale, il fàscino della povertà, che tanti poeti hanno sentito.

E perciò ebbe anche i suoi poeti. Che sono poi fratelli dei poeti pícari, un grado ancora piú giú. Poeta di Parigi fu Villon. Di Efeso, Ipponatte.

E per intendere appieno la sua opera, bisognerebbe prima conoscer da vicino l’atmosfera speciale della vita d’Efeso, che invece riusciamo ad intravvedere un po’ dai suoi frammenti. Un’aura simile troviamo in qualcuno dei mimi d’Eronda.

Ma prima di leggere Ipponatte, quasi consiglierei al lettore di rivedere in Nostra Signora di Parigi di Vittore Hugo la descrizione della Corte dei Miracoli, o ne I Miserabili, i capitoli sull’argot, il gergo della mala vita di Parigi.

Poeta, dunque, dei bassifondi d’Efeso. E perciò il suo mondo è l’antitesi del mondo eroico e poetico.

I suoi eroi abituali sono lenoni, adulteri, incestuosi, iettatori, servitoracci, mozzi, osti, farabutti, bottegari, ladri, pezzentoni, padroni bastonatori, castrati, eunuchi, tagliaborse (framm. 64), ubriaconi (66), merli di provincia (15), mogli sfrenate come puledre, bagasce d’infima Suburra. [p. 173 modifica]

E teatro delle loro gesta, la catapecchia, il granaio, lo stramazzo, il tribunale, il postribolo, il letamaio.

E strumenti, il randello, il mantello, la scopa, il sifone, il bossolo dei dadi.

E cibi, pagnotte, bigutte d’orzo, pan di segala, farricello, zozza, trippa di scrofa.

E tanfo dappertutto. Si parla, una volta tanto, d’olio di rose; ma accanto, come correttivo, una buona scodella di farricello.

E nulla ispira mai tanto il poeta quanto l’incursione d’un esercito di scarafaggi attratti alla fragranza d’un càntero, durante un idillio postribolare.

E, come gli altri poeti ricordano pupille, chiome, gote, manine, piedini, caviglie, Ipponatte mèntova, appena glie ne càpita il destro, la pancia, l’ombelico, il perinèo, la coda innominabile.

E se i piedi malcalzati sono rossi di geloni, egli va a nozze a ricordar quei geloni, che gli permettono di farvi gustare l’afrore della bragerella a cui un infelice li riscalda. E se il naso è moccioso, quel moccio gli sembra un blasone.

Né in questo mondo hanno voce in capitolo i rosignoli,le colombe, gli eleganti cerbiatti; bensí i nibbii, insigni per la voracità e il ladroneggio, gli aironi, i gabbiani, anch’essi voracissimi, i pivieri, i porci, le scrofe, gli scarafaggi.

E poco son considerate le rose e i gigli; molto i ficastri, i cavoli selvatici, le cipolle marine, la saggina, il mentastro, le prugne del cuccú.

Veramente, anche altre entità brillano, come astri d’un paradiso remoto. E sono pastrani, mantelli, ciantelle, babbucce doppie da riparare il freddo. E, piú ancóra, cibarie, di quelle che manducano i signoroni: focacce, tonno, ulive in guazzo, salsicce, lepri, pernici, fichi brogiotti, fritti scelti spolverati di sesamo, frittelle affogate nel miele. [p. 174 modifica]

E tutti gli eroi di questo mondo, non sono simili ai famosi gueux di Béranger, che «s’aiment entr’eux». Questi d’Ipponatte si detestano cordialmente, son lí sempre a leticare, a scambiarsi sergozzoni, ad appostarsi col randello alla mano. Ipponatte vuol cavare un occhio a Búpalo; ma poi, o questi o un altro gli riduce il muso in guisa tale, che sembra incoronato di prugne del cuccú. E un’altra volta il poeta si presenta coi denti che pei gran cazzotti gli ballano nelle gengive. E come possono, eccoli avanti al giudice. E al menomo affronto, si procurano due o tre testimonî, e fanno il sopraluogo.

E le imprecazioni ci fioccano. «Possano frustarlo sette volte sul pascipeco!». «Possa per la fame diventare una mummia!». «Possano farne un capro espiatorio!». — «Apollo ti stermini! E te Apollo e per giunta Artemide!». — «Accidenti alla tagliaombelichi (la levatrice) che ti strigliò per prima!»

Tale il «mondo poetico» d’Ipponatte: tale il repertorio da cui attinge i suoi quadri e gli elementi delle sue frequenti comparazioni.

Su questo pantano, brilla, una volta tanto, una stella:

          Deh, avessi una fanciulla bianca e morbida!

Ma chi sa quali altri versi tenevano dietro alla sentimentale invocazione. E chi sa che il tempo, sopprimendoli, non abbia reso ad Ipponatte un buon servigio. La stima che egli faceva delle donne è invece chiaramente espressa, oltre che, indirettamente dai brani in cui descrive i suoi amori, da due versi che rimasero famosi per tutta l’antichità:

          Due giorni offre una donna soavissimi:
          il primo, quando la conduci al talamo;
          e l’altro, quello del trasporto funebre.

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Tre sono, in questo singolare mondo poetico, almeno a quanto risulta dai frammenti, i motivi conduttori.

Primo il lupanare. Si spiega. E ancora un aspetto, sia pure orrido, in caricatura, insozzato di fango, dell’amore. Che, anche in forme cosí degradate e repugnanti, conserva un qualche barlume, certo remotissimo, della sua essenza soprannaturale. Per esso l’uomo piú basso diviene partecipe del mistero del mondo.

Piú strana è l’insistenza con cui Ipponatte ricorda l’usanza efesia del capro espiatorio. Il barbaro supplizio esercita un vero fàscino sul suo spirito. In una poesia lo dipingeva punto per punto; tanto che Tzetze ne derivò la descrizione completa (vedi framm. 6). Anche altre due poesie gli erano consacrate, quella del servo, e quella o quelle a cui appartennero i frammenti 8 e II, e che non si possono identificare con la prima. E un’allusione si trova anche nel frammento 14 b; ed anche è ricordata, in un momento di erotismo, nel frammento recentemente scoperto.

Che ne sia stato vittima egli stesso? Mi sembra piú che probabile che di quell’odioso rito ai tempi d’Ipponatte fosse soppresso l’ultimo atto, il rogo; e che quindi anche chi l’aveva provato potesse raccontarlo. Oppure temeva, brutto com’era, che un giorno o l’altro potesse capitare anche a lui? Certo, ne aveva, palesemente, l’ossessione.

Ma, piú che ogni altro, domina le sue poesie il tèma della miseria. E questa la gialla allampanata stracciona Musa d’Ipponatte. Nei frammenti, è dappertutto un fiotto da pitocco: lui non ha scarpe, non ha mantello, non ha gabbano, non ha un po’ d’orzo da fare una bigutta; e poi guarda gli altri, e si compiace nel rilevare la loro guitteria, con particolari che ne diano la piena misura. Un Tizio si va a riscaldare [p. 176 modifica]in un locale pubblico i piedi gonfi di geloni. La bagascia Arete offre un solenne trattenimento, con relativi brindisi, ma tutti gli ospiti devono bere da un solo recipiente, e neppure da un bicchiere, bensí da un mastello, perché di bicchiere ne aveva uno solo, e il servo aveva sdrucciolato e l’aveva rotto. E un oste non ha nemmeno una scopa per spazzare bot tega, e lo fa con una frasca di saggína.

«La miseria — diceva Archiloco — per me non è ereditaria da parte dei nonni non sono povero in canna». In altre parole, ha pudore della povertà, che del resto nobilita con la sua professione di soldato[23].

Ipponatte, invece, non se ne vergogna, anzi ci sguazza, e non si pèrita a tender la mano, anzi gitta le sue richieste d’elemosina in versi, per l’eternità.

E allora, quando la ricorda ad ogni momento, senza averne il menomo pudore, anzi quasi compiacendosene, è difficile non collocarlo nella classe degli accattoni, i quali, tutto sommato, non escono dalla miseria perché ci si trovano bene, come i rospi nel brago, perché quella è la vita conforme ai loro istinti di fannulloni.

Cosí Ipponatte. Fiotta, fiotta, piange miseria, ma, probabilmente, non fa mai nulla di conclusivo per uscirne. E perciò è prototipo della poesia degli accattoni assai piú genuino di Teodoro Prodromo e di Emanuele File, che per molti lati lo ricordano.

Se per lirico s’intende il poeta che metta al primo piano il proprio io, nessuno fu mai piú lirico d’Ipponatte. Attinge [p. 177 modifica]la materia e prende gli spunti da tutto quanto viene in contatto con lui, massime dalle mariolerie e dalle inezie. Va in un lupanare: si azzuffa con un nemico: gli fanno a cazzotti traballare i denti: gli pestano il muso: il padrone lo picchia: il giudice d’un tribunale lo convince poco: ecco altrettanti motivi che accendono l’estro della sua Musa.

E, quasi tema che il contesto non renda abbastanza palese il carattere squisitamente personale e, dunque, lirico, delle sue poesie, ci aggiunge, appena può, il sigillo, come doveva poi dire Teognide, del nome. Dante si scusa di registrare il suo una volta, «per necessità». Ipponatte non se ne lascia sfuggir mai l’occasione. Non si contenta di dire «io»: anzi vuole il nome spiattellato sillaba per sillaba. Non dice ai concittadini: «Ascoltatemi», bensí: Date ascolto ad Ipponatte ». Non dice ad Ermète: «Dammi un gabbanuccio », bensi: «Dà un gabbanuccio ad Ipponatte». E cosí quando racconta. Non dice: «Ermète condusse il tale a casa mia», bensí lo condusse a casa d’Ipponatte». E il padrone « comanda che si diano legnate e sassate ad Ipponatte». E Pluto « non è andato mai a casa d’Ipponatte per offrirgli trenta pezze d’oro».

Insomma, per lui i pronomi personali non esistono: esiste solo il proprio nome, da sciorinare, da spiattellare, da sbandierare appena gli càpita.

Eppure, a dispetto di tanto sfoggio, il suo è lirismo piú apparente che reale. Valga a dimostrarlo il confronto con Archiloco.

Archiloco attinge anch’egli spunti da ogni circostanza, anche futile, della vita d’ogni giorno. Ma poi, lirico per eccellenza, li usa per brevi cenní, o per allusioni. Ippo[p. 178 modifica]natte, invece, palesemente pur dai frammenti, appena può, si mette a raccontar per disteso il supplizio, veduto o immaginato, del capro espiatorio, la visita alla bagascia Arete, il festino in casa della suddetta gentildonna, il sopraluogo nella bottega dell’oste imbroglione. Erano, risulta pure dai frammenti, vere e proprie narrazioni distese, e non rievocate per accenni. Una ce ne rimane nella sua integrità essenziale, la visita alla baldracca Arete. Un’altra possiamo ricostruirla con certezza quasi assoluta, la cerimonia del capro espiatorio.

C’è la folla che sta aspettando l’arrivo della vittima, tenendo in pugno le frasche di arbusti selvatici con cui dovevano fustigarla.

          Li aspettano da un pezzo a bocca aperta,
          con le frasche che servono a quest’uso.

Fra loro c’è un tale Cicone, povero in canna, detto, per la sua voracità e la sua pitoccaggine «il gabbiano spiantato».

Faceva di professione l’indovino; e siccome le sue predizioni erano sempre sinistre, s’era acquistata la nomèa di iettatore:

          E, con in pugno un tal ramo d’alloro,
          vedi pure Cicone, lo spiantato,
          il gabbiano digiuno.

Il cicaleccio della folla era descritto. con gran vivacità.

          Si purghi la città, mano alle verghe.
          
          Bisogna farne un capro espiatorio.
          
          Dategli i fichi secchi, la pagnotta
          e il cacio, come ai capri espiatorii.

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          Possa mummificarsi dalla fame,
          e, trascinato in giro come vittima,
          sette volte sul pinco esser percosso.

          E tu, stavi di casa insieme a Búpalo?

          A Búpalo cosí tutti imprecavano.

Può essere, anzi è quasi certo, che questo o quello dei versi ricordati non appartenesse a questa poesia. Ma la maggioranza sí. E ne risulta un quadro ampio, d’insieme, che dimostra le facoltà di narratore d’Ipponatte.

E le dimostrano altri atteggiamenti. La frequenza dei particolari pittoreschi e caratteristici (il servo che sdrucciola e attacca un moccolo, l’oste che sta spazzando la bottega con una frasca di saggina, l’incursione degli scarafaggi durante l’idillio amoroso); e il frequente passare dalla narrazione del poeta al discorso diretto dei suoi personaggi (p. e., la bagascia, che parla all’amante); e, talvolta, il dialogo, col quale entriamo, quasi, nella commedia, o, almeno, nel mimo.

In realtà, piú che lirico, Ipponatte è narratore. Con lui comincia quel singolar genere delle novelle e umoristiche narrazioni in versi, che, di per sé stanti, o infuse in altri scritti (per esempio nelle satire: Orazio) vissero poi sino ai nostri giorni. Novelle e narrazioni assai spesso licenziose e scurrili. Peggio che licenziose e scurrili, frequentemente, in Ipponatte. Non per nulla siamo nella sfera d’influenza di Mileto, culla delle più antiche libere novelle mediterranee.

Ed una facoltà, specialmente, possiede Ipponatte, del novelliere, la principale: quella di abbozzare tipi con pochi [p. 180 modifica]tratti e scelti bene, indimenticabili. La scarsezza del materiale mi costringe ad usare i medesimi frammenti per un duplice e magari triplice impiego. E perciò scusino i lettori, se ricordo ancora una volta l’oste imbroglione che spazza la bottega con una frasca di saggina. E poi, c’è il pittore Minné, che, da bravo iettatore, ha dipinto sulle pareti interne della nave un serpente che s’avventa contro gli stinchi del timoniere. E lo sciupone che una volta scialava a tonno fine e ulive in guazzetto, e adesso scalza sassi per le balze, e rosica pan duro e fichi secchi a miccino. E il gentiluomo che si apposta con un randello in pugno per bastonare il nemico: che fa pensare ad una nota scena della vita di Benvenuto Cellini, il quale, sommo artista, per molti rispetti appartiene alla schiera dei mariuoli di mala vita di cui è primo insigne rappresentante il nostro Ipponatte. Ne tralascio altri ed altri, che il lettore vedrà balzare qua e là, alla lettura di quasi ogni frammento.

Tipi, dissi, che, una volta veduti, non si dimenticano piú. Sempre che, naturalmente, se ne integri la visione con le concomitanze quasi direi obbligate, che súbito balenano a chi abbia familiarità con la vita e con le opere poetiche di quei tempi.

Prendiamo, per esempio, il poveraccio che si riscalda alla bragerella i piedi gonfi di geloni. Letto appena il verso

          In perpetuo s’abbrustola i geloni
          presso la cinicella –

vediamo, con Esiodo, il gelo del verno che costringe tutti, uomini e belve, a cercare un riparo. I ricchi nelle case. La giovinetta bellissima, figlia d’un signore, rimane presso la madre diletta: [p. 181 modifica]

          monda nel bagno, d’olio cospersa le tenere membra,
          entro la casa, ov’è piú segreta, la notte trascorre.

Ma la poveraglia, no. Vanno errando qua e là, dovunque trovino qualche riparo. Esiodo ammoniva:

          Davanti alle fucine dei fabbri ed ai luoghi di ciance
          tira di lungo, l’Inverno.

Ma, probabilmente, Esiodo aveva a casa sua un po’ di fuoco. La povera gente si radunava anche per riscaldarsi. E piú riscaldavano le chiacchiere. E le fucine, poi, le mascalcíe, erano paradisi. La sofferenza piú grande, pei poveretti, era ai piedi; e lo stesso Esiodo descrive il poveretto che «con la mano scarna si riscalda il pie’ gonfio». Ma nelle fucine, nelle mascalcíe, che delizia stenderlo innanzi al fuoco sempre acceso, anche se poi il momentaneo sollievo si dovrà tramutare in un moltiplicato martirio.

Queste immagini, dunque, balenavano allora agli occhi di ogni lettor d’Ipponatte. E cosí è per ogni frammento. In ciascuno d’essi, quasi ogni motto è evocatore. Perciò, con qualche larghezza di commento, ho cercato di rendere possibile l’evocazione anche per chi non conosce quel mondo troppo da vicino.

Dir questo è esaltare la virtú stilistica d’Ipponatte. E nello stile, infatti, consiste il principale segreto della popolarità e dell’ammirazione che il poeta gode’ in tutto il mondo antico. Bisogna tener bene fisso questo punto, perché, a prima vista, l’opera d’Ipponatte può invece sembrare rozza e trascurata. Ma non è cosí. [p. 182 modifica]

È vero, Ipponatte va a pescare i vocaboli e le locuzioni piú basse e triviali. Non gli basta. Appena può, adopera parole del dialetto lidio, e anche queste non saranno state scelte fra le piú squisite. Basti akroélaze presto, avvicinati; Candaula=Ermete; palmys=signore. Altre erano di mala vita, di gergo. Káuex=gabbiano; nikyrta, sábauni=servitoraccio, mozzo.

Poi, il metro era scazonte: un giambo zoppicante, quasi sbagliato. Non son tutti fattori di minore arte, di minore stile?

Per nulla affatto. Non ci sono per un vero artista parole nobili e parole meno nobili: ci sono parole pittoresche espressive, efficaci, e parole scolorite, squallide, mencie, inefficaci. Chi sceglie le prime, sceglie un ottimo materiale d’arte e di stile.

E cosí, non ci sono metri di prima classe e metri di seconda o di terza. Tutti i metri sono ugualmente suscettibili di divenire sommamente artistici. Tutto consiste nel modo di compaginare le parole entro le loro sagome. L’arte poetica è una cristallizzazione di sillabe: quando la cristallizzazione è perfetta, perfetta è l’opera. Quando è incompiuta, o difettosa, o addirittura mancante, allora c’è la materia amorfa, la non arte.

Ora, i vocaboli che sceglie Ipponatte sono sempre pieni di colore, di suono, di vita; le compagini dei suoi versi, compatte, sempre, sonore, ed anche sobrie e corrette, piú che non siano, per esempio, in Eronda, il quale passa, a buon diritto, per abile ed artistico maneggiatore dello scazonte[24]. Ipponatte è, senza dubbio, un artista.

E in ciò consiste il sigillo della sua nobiltà. Perché delle [p. 183 modifica]oscenità che son parte del tristo mondo in cui vive e che rappresenta, egli non dimostra compiacimento.

Se, per esempio, leggiamo Pietro Aretino, ad onta di qualche sua protesta di moralità, noi sentiamo che egli sguazza nelle sudicerie che racconta, se ne compiace, le vagheggia. Sicché nel nostro spirito, quando lo leggiamo, allo schifo per la materia, si aggiunge quello per l’anima lurida dello scrittore.

In Ipponatte, nulla di tutto questo. Nessun atteggiamento da moralista. Ma neppure, mai, ombra di compiacimento; né mai la tetraggine, che accompagna ogni pagina di Pietro Aretino, come l’opera di tutti gli scrittori realmente osceni o anche semplicemente lascivi. Ipponatte è sempre e sinceramente allegro, buffo. Il suo interesse non è per la materia, quasi sempre lubrica e oscena; bensí pel modo di atteggiarla nel verso con tanta immediatezza, con tanto rilievo, che riesca emula del vero. Passione per l’arte, insomma, che purifica tutto. Ipponatte è sudicione per cento, ma osceno, ma lubrico, no. È sulla linea della «Ninetta del verzèe» o del sesto volume dei sonetti di Giovacchino Belli. Studiare le sue reliquie, non è dunque razzolare nel fango.

Ipponatte scrisse la maggior parte delle sue poesie in versi scazonti, ossia giambi zoppi (skazo zoppico): trimetri giambici, nei quali l’ultimo piede, invece di essere giambo puro, era costantemente spondaico. Immagine dal testo cartaceo Alla anomalia metrica dove’ certo corrispondere un’anomalia ritmica. Abbiamo visto (pag. 34) come il trimetro giambico nel suo sviluppo aveva accentuato il valore della prima, [p. 184 modifica]terza e quinta percussione, attenuando quello della seconda, quarta e sesta: di quest’ultima, specialmente, che tendeva ad essere via via cancellata: tanto che il trimetro veniva, su per giú, a corrispondere al nostro endecasillabo sdrucciolo; p. es.:

          Qui due con noi divini amici vengono.

Ora la lunga sostituita alla breve nella penultima sillaba, doveva certo ricevere un accento, che faceva sparire, o per lo meno, attenuava molto quello della quinta. Sicché, lo scazonte veniva a corrispondere ad un endecasillabo sdrucciolo italiano in cui l’ultimo accento fosse spostato dalla decima alla undecima sillaba:

          Qui due con noi divini amici staranno.

Facile mi sarebbe riuscito rendere con versi simili tutto Ipponatte. La famosa invocazione ad Ermete, per esempio, risulterebbe:

          Chiamò di Maia il figlio, il sire cillenio,
          figlio di Maia: «Ermete strangolacani,
          Candàula, come ti chiamano i Meonii,
          compagnone dei ladri, dammi una mano».

Ma avrei in tal modo resa piú agevole la lettura e quel qualsiasi compiacimento che si può tuttavia derivare dai versi dell’antico poeta d’Efeso? Ne ho dubitato; e mi sono attenuto all’endecasillabo.´ [p. 185 modifica]

I GIAMBI ZOPPI

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1
ACCUSATORE PUBBLICO

Ad Ipponatte date ascolto: io stesso,
gente di Clazomène, a voi son giunto.
Búpalo trucidò.......

Iuba, in Sacerdot. Gramm. VI, 522, 115. — Il poeta finge, parrebbe, di presentarsi in veste di araldo agli abitanti di Clazomene, per denunciare un omicidio commesso da Búpalo. Callimaco, in una poesia giambica, fingeva che Ipponatte tornasse dall’Averno per dire una sua poesia giambica che incominciava (The Oxyrhynchus papiri, VII, n. 1011, v. 92 sg.): «Ad Ipponatte date ascolto ch’io | nulla di meno, arrivo da un paese | dove si vende un bue per un quattrino | recando un giambo che non canta guerre | contro Búpalo». Anche questa poesia di Callimaco dimostra la popolarità che, ad onta della sua sconcezza, godeva Ipponatte fra gli antichi che conoscevano l’opera sua.


2
ITINERARIO

Tutta la via percorri, o farabutto,
che reca a Smirne, va’ traverso i Lidii,

[p. 188 modifica]

presso la tomba d’Attalo, ed il tumulo
di Gige, e la colonna di Megàstro,
e il monumento d’Attide l’Attàlide,
verso ponente orientando il buzzo.

Tzetze in Anecd. Ox., ed. Cram., 3, 310, 17. — Nulla possiamo dire di questo itinerario, suggerito ad un mascalzone, e forse, nemico.


3
ERMETE POLPETTA

Con un urlo chiamò di Maia il figlio,
re di Cillène: «Ermète strozzacani,
Polpetta, come nome hai fra i Meònii,
dei ladri compagnon, dammi una mano».

Scol. Lycofr., 219. k. — Secondo Tzetze, il vocabolo Candaule, in dialetto di Lidia avrebbe significato scorticatore, soffocatore (σκυλοπνίκτης): secondo altri, ladro: epiteti che certo convenivano entrambi ad Ermete, uccisore del cane Argo posto a guardia di Io. Se però si pensa che i cuochi di Alesside e di Menandro designano col nome di κάνδαυλος un polpettone lidio composto di carne cotta, pan grattugiato, formaggio di Frigia, brodo grasso, anice, non parrà improbabile questa leccornia esistesse già ai tempi d’Ipponatte, e che questi giuocasse sull’equivoco. Introducendo qualche modificazione nel testo, il Knox intende che anche qui il poeta parli di sé stesso; ma non è sicurissimo. (Vedi introduzione). [p. 189 modifica]

4
PROFETA IETTATORE

E Cicóne, il gabbiano a becco asciutto,
lo spiantato, reggea tale un orbàco.

Secondo Tzetze, che riporta il brano (Eseg. II., 14, p. 792 b), qui Ipponatte parlerebbe proprio dell’alloro che portavano i sacerdoti del sole, gl’indovini, i maghi. A me non pare. «Un tal ramo d’alloro» (τοιόνδε δάφνης κλάδον), dice il testo; e, dunque, non si tratterà di un ramo d’alloro ordinario, ma d’un ramo d’altra pianta, certo meno nobile, che il suddetto Cicone avrebbe portato come i sacerdoti del sole, gl’indovini, i maghi, portavano l’alloro. E questo Cicone, a dire d’Esichio, non era un sacerdote come tutti gli altri, ma uno che non prediceva mai nulla di buono: una specie di iettatore. E Ipponatte, per conto suo, gli affibbia due epiteti uno meno lusinghiero dell’altro. Probabilmente, figurava come eroe d’una delle grottesche avventure che il poeta descriveva oaddirittura inventava per farne attori le persone che voleva scorbacchiare. E non parrà improbabile che qui si trattasse del supplizio di qualche capro espiatorio, nel quale Cicone avrebbe assunto l’ufficio di flagellatore. In tal caso, il ramo d’alloro sarebbe stato in realtà ramo di ficastro.


IL CAPRO ESPIATORIO


I frammenti che seguono, dal 5 al 13, appartennero, a quanto sembra, ad una poesia unica, a intender la quale bisogna conoscere un barbaro costume, di cui ci dà notizia Tzetze, in un brano nel quale sono appunto riferiti alcuni di questi frammenti (Chil. 5, 726). «Quando per l’ira dei Numi piombava su una città qualche sciagura, o carestia o altro flagello, portavano al sacrificio il piú brutto di tutti (ἀμφότερον), per rimedio e purificazione del morbo della città. Scelto un luogo adatto pel sacrificio, e posti in mano alla vittima fichi secchi ed una pagnotta, e flagellatolo sette volte sul sesso con cipolle marine, ficastri e altre piante [p. 190 modifica]selvatiche, in ultimo lo bruciavano su un fuoco di legna di macchia, e spargevano le ceneri al mare e ai venti, a purificazione della città malata. Ipponatte illustra perfettamente tutto il costume». Segue la citazione dei frammenti, dal 5 all’11.
       Queste parole di Tzetze illustrano compiutamente il barbaro costume; ma non ci dicono propriamente in che cosa consistesse la poesia d’Ipponatte. E nemmeno siamo sicuri che i frammenti appartenessero tutti alla medesima poesia; anzi si potrebbe supporre che qui ci trovassimo di fronte a tre distinte poesie. In una (6, 7, 8, 9, 10) il poeta avrebbe esortati i concittadini a far del suo nemico Búpalo un capro espiatorio: in una seconda avrebbe descritto il supplizio, immaginario, parrebbe, e solo vagheggiato:, il frammento 10 sembrerebbe un voto indipendente, e, dunque, appartenente ad una terza poesia. Però, non riesce impossibile immaginare una composizione di piú larga linea, nella quale il poeta esortasse i suoi concittadini a far di Búpalo un capro espiatorio, e poi immaginasse la scena del sacrificio, pregustandone descrivendone vivamente, come già avvenute, le circostanze.


5

Purificare la città, frustarlo
con rami d’olivastro.

Parrebbe che si dovesse sottintendere un χρῆ=conviene. Dal contesto non risulta se si tratti di una sola persona; ma che sia cosí, sembra si possa raccogliere dal frammento 8º.

6

Gittandolo sul prato, e vergheggiandolo
con cipolle marine e con ficastri,
a mo’ d’un capro espiatorio.

A rigore, se si esorta a trattare qualcuno «come un capro espiatorio», parrebbe che questo qualcuno non si trovasse proprio nella condizione di capro espiatorio. [p. 191 modifica]

7

Bisogna farne un capro espiatorio.

8

Dandogli in mano pane e fichi secchi,
tutti cibi da capri espiatorii.

9

Lo aspettano da un pezzo a bocca aperta,
ed impugnano i rami di ficastro,
che adoprano pei capri espiatorii.

Leggo φαρμακοῖς.

10

Possa mummificarsi dalla fame,
e, trascinato, capro espiatorio,
sette volte sul pinco esser percosso.

11 (13)

A Búpalo cosí tutti imprecavano.

Scol. Lycofr., 436. — Se questo frammento appartenne, come sembra probabile, alla poesia, esso proverebbe piú d’ogni altro. il carattere, che abbiamo creduto di potergli attribuire, di descrizione d’un immaginario e vagheggiato supplizio. [p. 192 modifica]

12 (12)
ACCIDENTI ALLA LEVATRICE

Quale tagliaombelichi ti strigliò,
o segnato da Dio, ti risciacquò,
mentre tu sgambettavi?

Etim. Val., ed. Reitz., Ind. lect. Rostoch, 1890, p. 7. Pro-, babilmente è imprecazione di qualcuno degli spettatori che assistono alla vagheggiata esecuzione di Búpalo. L’ipotesi è resa piú verisimile dal frammento che segue. È impressionante l’identità di questa atroce imprecazione, che, cosí alla prima, sembra tanto remota, con quella d’un sonetto di Giovacchino Belli (ediz. Castaldo, pag. 384): «Ma io voria sapè sta ciarlatana che pormóni se tiè drent’ar budello | e chi è stata la porca de mammana | che quanno nacque je tajò er filello». In un altro sonetto (ediz. Morandi dei duecento, p. 163), Cacastuppini dice a Cacaritto: «Quella porca mammana | v’avessi sciorto subbito er bellicolo | camperessivo mo senza pericolo | d’ave’ l’abbiffa ar vicolo | de li tozzi».

13
IMBOSCATA

Con un randello l’attendea, per dargliene.

Cherebosco, Sulla sillaba ancipite, 1, 7. — Caratteristica del mondo ipponatteo è questa cavalleresca imboscata. Vien fatto di pensare ad una analoga impresa del Cellini, che per molti lati appartiene alla famiglia d’artisti di cui Archiloco ed Ipponatte sono gli antesignani. [p. 193 modifica]

14
BOTTEGAIO LADRO

Vuole otto oboli! Possano sonarglieli
sul pascipéco!

Cherebosco, luogo citato. Non sappiamo a che genere di poesia appartenesse questa imprecazione. Forse era rivolta contro un bottegaio ladro. Ed anche qui si vede quanto fosse sempre presente alla fantasia d’Ipponatte il supplizio del capro espiatorio.

15
TRAPPOLA AMOROSA

Adescando con questi i cosí detti
’d’Eritra figli, il fottimadre Búpalo,
ed Arète con lui, solleticando
e suggendo la coda innominabile.......

I cittadini d’Eritra, città che sorgeva sul promontorio di fronte a Chio, probabilmente ricevevano l’appellativo, grottescamente solenne, di «figli d’Eritra» dai cittadini d’Efeso, che, nella loro dignità di metropolitani, li avranno considerati provinciali. Essi dovevano spesso inurbarsi; e Búpalo, insieme con la sua degna socia Arete, tendevano laccioli erotici alla loro lascivia e alla loro dabbenaggine. — Viene in mente il famoso sonetto in cui Belli descrive Santaccia, una ultrapandemica etèra, la quale analogamente adescava i contadini che dai varii paesetti della campagna romana giungevano a Piazza Montanara: «Pijava li burini piú screpanti — a quattro a quattro, cor un su’ segreto». Per intender l’espressione greca: τοὺς Ἐρυθραίων παῖδας οὕς φησι, basta tradurla in latino: Erythraeorum filios quos dicunt. Il verbo φελίζειν si connette con la radice indogermanica bhel=gonfiare, cfr. lat. fello, [p. 194 modifica]fellatrix. Dei significati addotti per il θήπων, mi sembra evidente quello di Esichio ἐξαπατῶν, κολακέων. Chi trovasse eccessiva la sconcezza della scena che qui s'intravvede, confronti il frammento 83.

16
CONVITO IN CASA CANAGLIA

Dal mastello bevevano, perché
quella il bicchiere non l’aveva piú:
rotto l’avea, cadendo a terra, il servo.

Ateneo, 11, 495 cde. — Appartenevano, sembra, alla comica descrizione d’un banchetto in casa della prostituta Arete e del suo ganzo e collaboratore Búpalo. Quel possedere un solo bicchiere è indice eloquente della signorilità che Ipponatte attribuiva agli esecrati nemici.

17 (40)
IL CAVOLO A SETTE FOGLIE

E, sdrucciolando, una preghiera al cavolo
a sette foglie ei volse, a cui Pandora,
nella sagra del pane, immola, prima
che al capro espiatorio, una focaccia.

Ateneo, 9, 370 a. — Il fatto: che diede origine a questi versi è ovvio: uno sdrucciolone; e vien fatto di pensare al servo del frammento precedente. Sdrucciolando, questo signore si sarebbe lasciato scappare un moccolo; ma un moccolo annacquato: mà tèn krámben: sangue d’un cavolo (invece di mà tòn Día = per Giove). L’uso era abbastanza frequente, e il cavolo pianta preferita (come [p. 195 modifica]ancora fra noi) per simili sostituzioni (vedi Ananio, framm. 3). E fin qui, tutto è chiaro. Poi tutto oscuro.
       Questo cavolo, infatti, non è un cavolo comune: è a sette foglie. Inoltre, è reputato degno che gli si offra in sacrificio una focaccia; e glie la offre una certa Pandora, nelle feste Targelie, che si celebravano, almeno in Atene, tra la fine di maggio e la metà di giugno (thárgelos era il pane fatto con le primizie del raccolto, e perciò ho tradotto: sagra del pane); e la offre prima a lui che al capro espiatorio.
       È un bel guazzabuglio. Tuttavia, se si ripensa al costume, già descritto, di percuotere il capro espiatorio con vermene di piante selvatiche (framm, 6), si può pensare che con la espressione «cavolo a sette foglie» fosse appunto designata alcuna di queste piante di singolare virtú fustigatrice, che per l’aspetto ricordasse il cavolo, e che avesse foglie a sette lobi (lo knut russo era detto «gatto a nove code»): se pure non sembrerà piú probabile che il sette sia una simpatica libera attrazione delle sette percosse rituali che doveva ricevere la vittima (framm. 10).
       Ora, si pensi che al capro espiatorio si metteva in mano una focaccia (maza, framm. 8): la quale, nella fantasia del poeta, poteva passare quasi per un’offerta sacrificale al povero infelice.
       E s’intenderà come egli, con la solita grottesca immaginazione, pensasse che, ancor prima che al capro espiatorio, un’offerta si potesse fare allo staffile che doveva conciarlo per le feste (ἐν τῷ θύμῳ ῥαπίζειν).
       Se poi si bada all’etimologia di Pandora (che dona tutto), non parrà improbabile che con questo nome solenne fosse indicata la solita odiatissima Arete, maestra di simili cerimonie. E se si accetta l’ipotesi che i versi appartenessero alla stessa poesia a cui appartennero quelli del framm. 16, s’intende come il servo ricordasse una divinità tanto popolare in quella casa.

SEGUITO DEL CONVITO
18 (17)

Dal mastello beveano; e quando lui,
e quando Arète, dava il segno ai brindisi.

[p. 196 modifica]

19 (18)

Con la libagione, e con la trippa
d'una scrofa selvatica.

Ateneo, 9, 375 c. — Nulla abbiamo che c'illumini su questo frammento.

20 (19)
ELEGANTONI

E le narici ungean con la baccàride.
È, su per giú, simile al croco.

Ateneo, 15, 690 a. — Briciole. Ma il loro complesso gitta qualche luce sulla vita, degli eleganti di Efeso.

21 (54)
CORRETTIVI

Con unguento di rose, e una scodella
di farricello.

Polluce, 10, 87. [p. 197 modifica]

22 (20) MAL VICINO

Come? Stavi di casa insieme a Búpalo,
a quello iettatore?

Erodiano, περὶ παθῶν, 437, 11, 301. — Si può intendere che siano parole rivolte da qualcuno ad Ipponatte; il quale un tempo avrebbe dunque abitato insieme con Búpalo. E potrebbe essere stata questa una delle cause del sopravvenuto odio profondo.

23 (21) ATTENDAMENTO

E, verso sera, presso Arète giunsi,
a man diritta avendo l’aghirone.
E qui piantai le tende.

Erodiano. Delle parole singolari, 437, 11, 301. — Tutto il brano è equivoco. Il κνεφαῖος=sul far della notte, è da illustrare con l’espressione πρὸς ἑσπέραν, che nella lingua parlata greca aveva significato erotico furbesco, come si ricava dai poeti comici e massime da Aristofane (vedi il mio lavoro Origine ed elementi della commedia d’Aristofane, p. 20). Anche il καταυλίσθην=piantai la tenda, ha significato equivoco, e trova riscontro in un luogo de La Pace di Aristofane, dove il servo di Trigeo, mostrando agli spettatori la ragazza Teoria, la brancica, e dichiara al suo padrone che vuol piantare la sua tenda in un certo posto (879): εἰς ἴσθμια-σκηνὴν ἐμαυτοῦ τῷ πέει καταλαμβάνω. Anche l’auspicio dell’airone a man dritta non mi sembra senza malizia: si veda ancora Aristofane, I Cavalieri, v. 639: ἐκ δεξιᾶς ἐπέπαρδε καταπύγων ἀνήρ. [p. 198 modifica]

24 (2)
CONVEGNO AMOROSO

Chiusa in una vestaglia di Chiavenna,
ignuda presso all’antro di Ficulle.

Tzetze, Chil., 10, 377. — Per dare una qualche idea del frammentino, ho dovuto travestire i nomi dei due popoli: Koraxòi, Sciti della Colchide, e Síndoi, Sciti del Caucaso. Entrambi si prestavano ad equivoci furbeschi analoghi a quelli, assai trasparenti, del travestimento italiano. L’eletta indossatrice di tale veste, sarà probabilmente l’odiatissima Arète.

25 (22)
AMORE

Su me chinata, a lume acceso, Arète.....

Et. Vat. a λύχνος. — La scena, che non ha bisogno di commenti, si svolgeva, credo, in condizioni analoghe a quella descritta nel nuovo frammento scoperto ad Ossirinco (83). S’intende in genere che il κύψας significhi: affacciatasi. Non credo. Si pensi allo scarafaggio della Pace di Aristofane (33), che κύψας ἐσθίει; e si ricordino le parole di Mnesiloco ne Le Tesmoforiazuse di Aristofane (488): εἴτ᾿ ἐρείσομαι παρὰ τὸν ἀγυιᾶ κυβδ´ ἐχομένη τῆς δάφνης. [p. 199 modifica]

26 (23)
SQUISITEZZE

Ella, strizzando insiem mocciolo e naso......

Tzetze, Anecd. Ox. Cram., 3, 308, 20. — Operazione attribuita, parrebbe, alla solita Arète; e che, per la sua propria essenza, e per il garbo col quale si descrive compiuta, offre idea della finezza che Ipponatte attribuisce alla suddetta gentildonna.

PREGHIERA AD ERMETE

I frammenti dal 24 al 27 non appartennero tutti alla medesima poesia, ma a poesie d’un tipo unico, la cui paternità risale forse ad Ipponatte. Sono preghiere ai Numi; ma preghiere simili a quelle degli accattoni di strada. Questa poesia da pezzenti trovò seguaci; e si rammentano facilmente i bizantini Teodoro Prodromo ed Emanuele File, entrambi ritratti vivacemente, nella Storia della letteratura bizantinà e neogreca di Carlo Dieterich (Lipsia, 1902), con saggi delle loro poesie che ricordano assai da vicino Ipponatte (p. 53 sg.). Berto Barbarani, il quale non conosceva Ipponatte neppur di nome, quando lesse il frammento che segue, súbito ricordò una sua poesia, che, a parte la gentilezza e la grazia, inseparabili da ogni composizione del poeta veronese, fa proprio il paio con le preghiere d’Ipponatte. È la Létara al Signor, che si chiude appunto con questa invocazione al Padreterno: «Butème zo le vostre braghe vecie». Può sembrare una libera versione da Ipponatte.

27 (24)


Ermète, Ermète mio, figlio di Maia,
re di Cillène, ti scongiuro! Ho addosso
un freddo maledetto, e batto i denti.

[p. 200 modifica]

Regala ad Ipponatte un gabbanuccio,
ed un mantello, e un paio di stivali,
e due ciabatte, ed una sessantina
di pezze d’oro. Rubale al vicino!

Frammento famoso nell’antichità, e riportato da varii autori. Arguto il contesto in cui Plutarco ne cita una parte (Assurde opinioni degli stoici, 6): «Lo stoico che strepita, e grida ad alta voce: — Io solo son re, io solo son ricco — spesso lo vedo innanzi all’uscio altrui, che dice: «Dà un gabbano ad Ipponatte, ché troppo ho freddo, e batto i denti». Nella mia versione ho fuso il 24a col 24b del Crusius: fusi doverono essere, senza dubbio, anche nell’originale, che poi fu un po’ alterato.

28 (25)

Me l’avessi mai dato, un buon mantello,
perché d’inverno non patissi il freddo!
Me li avessi nascosti, questi piedi,
entro un bel paio di babbuece doppie,
ché non mi si crepássero i geloni!

Scol. Lycofr., 855. — Si reputa in genere che questo frammento e il precedente appartenessero alla medesima poesia. La quasi identità del contenuto, potrebbe anche far pensare al contrario.

29 (26)

A casa d’Ipponatte Erme seguendolo.

Et. Flor., 19 M. — Forse il poeta immaginava che Ermete guidasse a casa sua qualche benestante; e, certo, per lasciar quattrini.

[p. 201 modifica]

30 (27)

Perché dirò cosí: «Figlio di Maia,
re di Cillène, Ermète.....

Prisc., Metr. Ter. gramm., 111, 426. — Ermete, come si vede, era per Ipponatte una vittima prediletta.

31 (42)
UN TOZZO DI PANE

Mi dannerò quest’anima fiottona,
se non mi mandi súbito uno staio
d’orzo, ch’io faccia e ingolli, per curare
la miseria ch’ho indosso, una bigutta.

Tzetze, Anecd. Ox. Cramer, 3, 308, 29. — Si potrebbe inquadrare in qualcuna delle suppliche ad Ermete. Ma non è improbabile che fosse diretta a qualche mortale, meno onnipossente, ma piú a tiro.

32 (29)
PLUTO IL CIECO

Pluto — davvero è cieco, è orbo mai
non è venuto a casa mia, per dirmi:
«Piglia, Ipponatte, queste trenta pezze
d’argento, piglia questo, e poi ti do
tanto di giunta». È un vigliacco per l’anima!

Scol. Pluto, 9. — Come si vede, Pluto, Dio delle ricchezze, per quanto invocato, era da Ipponatte rispettato anche meno di Ermete. [p. 202 modifica]

33 (30)

O beato chi brucia e poi fa caccia!

Cherebosco, Sulla sillaba ancipite, 1, 6. — Sarebbe prosunzione trarre illazioni da cosí poche parole; ma, in sede furbesca, i vocaboli «far caccia» e «bruciare» mi fanno pensare alla espressione «bruciare il paglione», comune nel gergo della mala vita romanesca.

34 (31)

E se vuoi, te lo cedo a buon mercato.

Cherebosco, l. cit.

35 (32)
DALLI AD IPPONATTE

Comandò che scacciassero Ipponatte,
e che lo lapidassero

Cherebosco, l. cit. — Probabilmente questo comando sarà stata la risposta a qualcuna delle sue petulanti richieste.

36 (33)
UNO SPIANTATO

Un mobilio possiede immacolato.

Polluce, 10, 18. — Il vocabolo ἀπαρτίη, secondo Polluce, significava mobilio vuoto. Io credo che qui ci sia una beffa contro [p. 203 modifica]la miseria di qualcuno che dentro il mobilio non aveva nulla: forse il solito Búpalo (cfr. framm. 16). Piú povero ancora era quello Stènelo che, Filocleone beffeggia ne Le Vespe (1313), chiamandolo raso fino al mobilio (τα σκευάρια διακεκαρμένος). In questo mondo picaresco la povertà suole essere oggetto piuttosto di beffe che di compassione. Si veda tutta la letteratura picaresca spagnuola. E vedi anche i sonetti di Belli sulla guitteria.

37 (34-35)
PREGHIERA A GIOVE

O Giove padre, o re dei Numi olimpî,
l’or, dell’argento re, ché non mi désti?

È assai probabile che questi due frammenti, riportati insieme dallo scoliaste di Licofrone (690), appartenessero alla medesima poesia, una preghiera sul genere di quelle rivolte ad Ermete e a Pluto. S’intende che non un gabbanuccio né un paio di ciantelle, bensí dell’oro chiedesse Ipponatte a Giove, che era appunto considerato padre dell’oro. Dice Pindaro (Scol. Pit., IV, 410): «L’oro è di Giove prole ? non lo rodono vermi, e non tignole». Il fatto che in entrambi i versi ricorre la parola πάλμυς = signore, non è un indice per separarli, anzi. Giove, re degli Olimpii, deve dare al poeta l’oro, re dell’argento. È una concinnità cercata con spirito non díssono a questo genere di poesia.

38 (36)
AMEBEA

A
Artèmide ti fulmini!

[p. 204 modifica]

B
                                        E te Artemide,
ed Apollo per giunta.

Tzetze, Anecd., Ox., ed. Cramer, 3, 310, 17. Parrebbe il racconto d’una lite. E in forma dialogata. Si annuncia il dramma (vedi introduzione).

39 (37)
ERMETE DELLE PUSTOLE

Attendi presso lui l’alba dal candido.
peplo, e vènera Ermète delle pustole.

Tzetze, in Il., 25, p. 797 b. Quasi certamente il ricordo dell’«Ermète dei Fliasii», non è senza malizia. Fliasio (propriamente cittadino della tribú Flièa) fa pensare al verbo φλύω=fluo, che indica efflusso,, tanto di liquido, quanto di parole, per lo piú buffonesco (si pensi ai fliakes, le antiche farse popolari del mondo greco). E φλύσις era poi anche eruzione di pustole: entità, anche queste, assai ricordate nel mondo giambico-picaro. Si confronti il frammento 55.

40 (38)

Della vigna fratello, il negro fico.

Ateneo, a cui dobbiamo questo frammento (3, 78 b), spiega che Oxilo amò la sorella Amadríade, e, ne nacquero, fratelli, il fico e la vite. Ma forse Ipponatte non si riferiva a mitologie; ed è probabile, che, al solito, in questa immagine botanica si nasconda qualche malizia; vedi Aristofane, Pace, 1349-50. [p. 205 modifica]

41 (39)
ANTENATO SCIALACQUATORE

In santa pace e senza economia,
scialando, uno di lor, giorno per giorno,
a ulive in guazzo ed a tonnina, come
un castrato di Làmpsaco, pappò
sino all’ultimo soldo il patrimonio.
E adesso io devo zappare la terra,
devo scalzare sassi per le balze,
e rosicarmi quattro fichi secchi,
e il foraggio dei servi, il pan di segala.
Né in lepri né in pernici affondo il dente,
né sopra fritti scelti spando sesamo,
né dentro il miele affogo le frittelle.

Ateneo, 7, 67, p. 304 b, 14, 655 e. — Dobbiamo la giusta intelligenza di questo frammento ad un sagace scritto di Goffredo Coppola (Studî italiani di filologia classica, 1929, 155 sg.). Dal frammento di Strasburgo (82), nel quale Ipponatte è qualificato σκαφεύς (il vocabolo, congetturale, sembra però garantito dalla glossa marginale γεωνόμος) il Coppola induce che l’ὥστε χρή σκάπτειν del verso 4, che non lega sintatticamente col verso seguente, si debba mutare in un ὥστε γῆν σκάπτω. Cosí, Ipponatte parlerebbe, di sé stesso; e lo scialacquatore dei versi precedenti sarebbe uno dei suoi antenati, che con le sue dissipazioni avrebbe ridotti i discendenti alla miseria. Il frammento acquista anche maggiore vivacità, e gitta uno sprazzo di luce sulla vita, e, di riverbero, sull’arte del poeta. [p. 206 modifica]

42 (43)
I FRIGI

E se pigliano barbari, li vendono,
Frigi, in Mileto, a macinar farina.

Pseud. Herodian., De barbar. etc., ed. Valck, 193. — Piccole faville dell’antica vita ionica. Questi schiavi li chiamavano sòloikoi: donde l’ancor vivo: solecismo..

43 (44)
TOPOGRAFIA

Stava di casa dietro Efeso, a Smirne,
tra la spiaggia di Lepra e di Trechèo.

Versi riportati da Strabone (14, 1, 4), che li cita per testimonianza topografica. Tanta fu sempre nei poeti greci, a cominciar da Omero, la connessione con la realtà.

44 (45)
PITTORE IETTATORE

Minnè, briccone, trappola, non pingere
nelle murate, sopra i fitti banchi
della trireme, un serpe che si lancia
da prua verso il pilota. Tirapiedi,

[p. 207 modifica]

mozzo di stalla, pel pilota è questo
cattivo augurio, è iettatura certa,
quando un serpe gli mozzica lo stinco.

Scol. a Licofr., 425. — Il fatto che diede lo spunto ai versi si ricava dai versi stessi. Il pittore, colpevole, secondo Ipponatte, d’aver dipinti simboli di malo anziché di buon augurio, è gratificato con due epiteti, probabilmente lidii; Nikyrla e Sàbauni. Per esplicita testimonianza di Esichio, il primo è sinonimo di dulékdulos e di síndron= schiavo nato da schiavi. Minnè, come appare già dal conio del suo nome, fu di origine barbara, e, probabilmente, figlio di schiavi. Ed Ipponatte, che del resto non era neanche lui di sangue troppo azzurro, glie lo rinfaccia, con la solita generosità giambica, che non doveva venir meno, ancóra in pieno secolo V, nella civilissima Atene. Un significato analogo avrà avuto il sábauni. Ho tradotto in conseguenza.

46

E poi, di pece ungendo la carena.

Arpocraz. P., 123 B.

47
OSTE LADRO

Prese tre testimonî, e corse súbito
I dove quel farabutto spaccia zozza,
e l’acchiappò. Stava spazzando casa;
e perché non avea nemmeno scopa,
adoperava un fusto di saggína.

Scol. Lycofr., 579. S’intravvede abbastanza sicuramente la scenetta che diede lo spunto ad Ipponatte. C’è un tizio che ha patito qualche sopruso da un oste farabutto. Si procura tre [p. 208 modifica]testimonî, e torna da lui, probabilmente per farsi risarcire; ma il fatto che quello non possiede nemmeno una granata, mostra quanto sia fondata la sua speranza. Il tratto scelto a significare la estrema miseria è analogo a quello del frammento 16: la deficienza d’un oggetto dei piú vili e indispensabili: lí d’un bicchiere, qui d’una scopa. Il frammento è vivace, le macchiette risaltano: si sente la commedia. Ricordiamo i personaggi d’Aristofane, che sempre minacciano di ricorrere ai testimonî, li cercano fra lo stesso pubblico, o li tirano addirittura sulla scena (finale de La Pace).

48 (55)
UN POVERO DIAVOLO

In perpetuo s’abbrustola i geloni
presso la cinicella.

Ipponatte parla di φῷδες, che, secondo Erodiano, al quale dobbiamo il verso (p. 133 kl.), sono precisamente enfiagioni di forma rotonda, che si producono specie quando si passa dal freddo al caldo i geloni. E qui si tratta di qualcuno di quei poveracci mal coperti, e massime ai piedi, i quali d’inverno si andavano a cacciare nelle fucine o dovunque ci fosse un po’ da riscaldarsi. Dice lo scoliaste anonimo de Le opere e i giorni di Esiodo (v. 493): «Le fucine anticamente erano senza porte, e chi voleva ci entrava e ci si riscaldava, ei poveri ci dormivano». E soggiunge, commentando Esiodo il quale esorta a non entrarci, che erano il ritrovo dei fannulloni, i quali, speranzosi di far fortuna senza faticare, vi intristivano nell’ozio e nei pettegolezzi. Forse secondo uno spirito analogo furono composti questi versi d’Ipponatte, il quale, probabilmente, anche qui avrà predicato bene e razzolato male. — Per rendere il vocabolo marîle adopero la voce romana cinicella, che mi sembra assai piú pittoresco del toscano bragerella. [p. 209 modifica]

49 (59)
SIGNORONE

Nudo, in granaio, sopra lo stramazzo.

Etim. Flor., P., 403. — Uno, parrebbe, dei soliti quadri di miseria.

50 (58)
AUSPICIO

Gracchiava il nibbio verso il letamaio.

Etimol. Flor., p. 231, M. — Probabilmente, questo uccello, famoso per la sua voracità, e questa orientazione, erano assunti come auspicio — ben degno del mondo ipponattèo.

51 (56)
SERVI, CARNE DA BATOSTE

Màlide Atèna, salve! Ti scongiuro:
son capitato a star con un padrone
pazzo salvami tu dalle legnate.

Tzetze, in Anecd. Ox., ediz. Cramer, 3, 310, 17. — Pare che Màlide fosse un epiteto di Atena (forse come protettrice delle greggi: Malis in Teocrito è una Dea pastorale). Si può credere che siano parole attribuite al personaggio di qualcuno dei [p. 210 modifica]soliti raccontini. Ma se si pensa alla povertà d’Ipponatte, non parrà improbabile che in qualche momento della sua vita dovesse discendere addirittura alla condizione di servo, come lo scialacquatore di cui parla nel frammento 39. E la poesia sarebbe una delle solite suppliche, che, quando non c’era qualche santo piú prossimo, rivolgeva ai Numi.

52 (57)
TRIONFO ATLETICO

Avevo cinto un serto di mentastro
e prugne del cuccú.

Ateneo, 2, 49 d e. — Questo frammento va illustrato con due brani del poeta comico Alesside. Nel primo (272 Kock) un atleta spaccone racconta: «A - Ho fatto un sogno, auspicio di vittoria | a ciò ch’io penso. B - Narramelo. A - Attento. | Delle gare pareami entro lo stadio che un uomo ignudo contro me venisse | e mi cingesse al crine una corona | di prugne del cuccú. B - Ercole, salvaci!». E nell’altro frammento (273), un personaggio cosí raccontava il trionfo d’un atleta: «A - Hai mai veduto un sanguinaccio o una milza condita ed arrostita | o un cestello di prugne del cuccú | mature? B - E come! A - Tale era il suo grugno». — Le prugne del cuccú, κοκκούμηλα, erano assunte, per il loro colore bruno, a significare le lividure che, coprendo tutto il viso, eloquentemente attestavano di che genere fosse la vittoria di quegli atleti fanfaroni. Simile sarà stata la corona che si vanta di aver cinta questo personaggio d’Ipponatte. Alle prugne del cuccú è qui aggiunto il mentastro, i cui fiori verde-rossicci assai bene potevano anche ricordare il colore dei lividi. Simili vanti di antichi onori che in realtà son disonori e smacchi, ricorrono frequenti nella commedia attica. Filocleone, ne Le Vespe, si vanta di essere andato nella sacra rappresentazione a Paro tirando sei oboli al giorno, ossia remigando fra la ciurma. [p. 211 modifica]

53 (64)
CAVALIERI DELLA NOTTE

Verso sera, costui, dunque, incontrò
un castrato dormente; e lo spogliò.

Scol. Om. B, 1, 539. — Tra i varii significati che gli antichi tribuivano al vocabolo chlounes: gagliardo, giovine, solitario, farabutto, tagliaborse, eunuco, effeminato, scelgo l’ultimo. Dal contesto, anche cosí breve, sembra che la qualifica di farabutto convenga meglio allo spogliatore che allo spogliato. Assai probabilmente, il «verso sera» era malizioso. Una locuzione simile torna spesso nelle commedie d’Aristofane, e sempre in contesti equivoci. La adopera il marito babbeo della Lisistrata, che invita l’orefice giovine e gagliardo a recarsi a casa della moglie, per aggiustarle la collana rotta: il giovanotto de Le Ecclesiazuse (1047), nelle sue promesse alla vecchia inuzzolita: Crèmilo, nel Pluto (1201), quando promette alla vecchia abbandonata che rimanderà da lei il giovine infido (vedi anche Pace, 966, Eubulo, framm. 106, etc.). Ciò posto, non pare impossibile che il chlounes avesse qui un valore anche piú intenso (εὐρύπρωκτος). Questa aggressione serotina fa pensare a quel che dice il Coro de Gli Uccelli (1487) «Fare incontri a vespero | non è poi cosa sicura: | ché se alcun dovesse imbattersi | con Oreste all’aria scura | quell’eroe pronto le costole | gli rifila col randello | e gli spolvera il mantello».

54 (65)
SANTUARIO DOMESTICO

Giustizia non mi par, che come adultero
Crizia di Chio sia condannato, quando
fu còlto in un bordello.

Tzetze, Anecd. Ox., Cram., 3, 308, 25. — Mi pare che il frammento debba avere la seguente interpretazione. Un certo Crizia [p. 212 modifica]fu sorpreso con la moglie d’un altro, e condannato come adultero. Ma, dice Ipponatte, la sentenza fu iniqua; perché quella donna era una prostituta, e, di conseguenza, la sua casa il perfetto equivalente d’un bordello; e chi lo frequenta non è passibile di pena.

55 (65)
DONNA PULEDRA

Tristo l’uomo che càpita con una
puledra vagabonda.

Sacerd. Gramm., VI, 523, 3. — Il testo ha κώλῳ: a me sembra evidente che si debba leggere πώλῳ, e che questa puledra sia della famiglia ricordata da Simonide nella sua satira su le donne, e gemella dell’altra apostrofata da Anacreonte (framm. 88); la quale è una ragazza bella, focosa, ribelle. Questa, di piú, è girellona.

56 (70)
A TU PER TU CON BUPALO

Su, tenetemi il gabbano,
voglio a Búpalo pestar gli occhi.
Picchio con l’una e l’altra mano,
e non picchio ch’io non tocchi.

Suida, a Búpalo, e a kópto. — Versi divenuti famosi nell’antichità. Se ne ricorda Aristofane in un passo famoso de Le Nuvole, quando il Discorso Giusto consegna il mantello a quelli che lo ascoltano sulla scena, per essere piú svelto a correre fra i cinedi che costituiscono in Atene la trionfal maggioranza. Qui Ipponatte lo consegna per essere piú spiccio a menar le mani. Il brano è [p. 213 modifica]tipico di quegli atteggiamenti giambici, già rilevati in Archiloco, nei quali sembrano confondersi azione e parola. A questa immedesimazione si deve, credo, l’impressione che produce in tutti il frammentino, indimenticabile.

57 (71)
PUGILE TRIONFATORE

I miei denti ho tutti quanti | nelle mascelle traballanti.

Etim. M., 449, 41. — Conseguenza, certo, di qualche rissa (magari di quella con Búpalo); e registrata da Ipponatte con lodevole imparzialità.

58 (72)
IN TRIBUNALE

Dunque sarà la procedura
con Metròtimo all’aria scura.

Efest., 6. — Dal frammento si ricava, pare, che Ipponatte avesse anche da spartire con la giustizia.

59 (73)
IL GIUDICE PERFETTO

La sentenza piú conviene | di Biante da Priene.

Strabone, 14, 1, 12. — Dal testo si ricava che si tratta d’una sentenza di tribunale. Il poeta invoca, forse in cambio di quella temuta nel frammento precedente, una sentenza del famoso Biante, uno dei sette saggi. Come tutti i malandrini, Ipponatte parla vo lentieri di giudici e di tribunali. [p. 214 modifica]

60 (74)
QUESTIONE DI CONFINI

                                             Il brogiotto
di Lebèdo, da Camàndolo non mangiare sotto sotto.

Dice Sesto Empirico, che riporta questo frammentino (Contro i matem., 1, 275); «Essendo sorta una contesa fra quelli di Lebedo e i loro confinanti, a proposito di Camàndolo, il segretario di Stato (grammatéys) la spuntò citando quel verso d’Ipponatte». (segue framm.). Il verbo momyllo, che è un raddoppiamento di myo=tener la bocca serrata, qui significherà: mangiar di nascosto. Lebedo era una città sulle coste dell’Asia Minore, 90 stadii ad Est del capo Myonneso, e 120 a Nord Ovest di Colofone. Orazio la cita (Epistole, 1, 11) come una borgata piú deserta di Gabii e di Fidene; ma per molto tempo fu in auge per la sua fertilità, i commerci, le sorgenti di acque minerali che tuttora scaturiscono nei luoghi dove sorgeva.
       Il senso dove’ essere il seguente. I confinanti di Lebedo cercavano d’impadronirsi a poco a poco, con furtivi espedienti, di Camàndolo, cittadella o borgata ai confini. Questa azione era paragonata a un rosicchiar di nascosto fichi rubacchiati: forse anche perché Camàndolo era famosa per i suoi fichi (come adesso, p. e., Amelia). Ma i fichi di Camàndolo erano pur sempre fichi di Lebedo; e, dunque, non bisognava sottrarli ai legittimi padroni.
       Questi tentativi di usurpazione di confini si ripetevano di continuo; e a un certo momento il segretario di Lebedo pote’ citare, come testimonianza dell’antico diritto, i versi d’Ipponatte.
       È interessante vedere come i versi d’un poeta giambico fossero assunti quali testimonianze di geografia politica: altra prova della stretta connessione della poesia greca con la realtà (vedi frammento 44). Serbate le debite distanze, si pensa al dantesco Quarnaro «che Italia chiude e i suoi termini bagna». I brogiotti di Camàndolo rievocheranno nei conoscitori della commedia attica molte immagini analoghe, per esempio il Pólemos de La Pace aristofanesca, che, volendo triturare in un mortaio Prasia, Megara, la Sicilia, Atene, vi gitta, simbolicamente, porri, aglio, cacio, miele (vedi scol. ai versi 242, 246, 250, 252).
[p. 215 modifica]

61 (75)
SPECIALITÀ GASTRONOMICHE

Il pan mangian ciprïotta, | d’Amatúsa la pagnotta.

Amatusa è in Cipro; e Strabone cita questo verso come esempio d’uno speciale atteggiamento poetico, che consiste nel citare l’una accanto all’altro, quasi fossero cose diverse, la parte e il tutto come, p. e., quando Omero dice: «per tutta la terra e in Argo». Una burlesca applicazione ne troviamo ne Gli Uccelli di Aristofane, dove il geometra Metone si vanta di esser conosciuto per tutta la Grecia e in Colono»: che sarebbe come se noi dicessimo: famoso per tutta l’Italia e in Peretola (o, come si direbbe a Roma, a Roccacannuccia). Non è improbabile che anche in Ipponatte il ravvicinamento avesse intento burlesco.

62 (77)
IL DIVORATORE

O Musa, il figlio d’Eurimedonte, l’abisso marino
ch’à nella pancia un trinciante, che senza riguardo s’ingozza,
canta, cosí che crepi, quel tristo, per trista condanna,
per voto popolare, sul lido del mare infecondo.

Dice Ateneo (15, 698 b) che, secondo Polemone, Ipponatte sarebbe l’inventore della parodia; e cita questi esametri. [p. 216 modifica]

63 (78)
SUPPLIZIO

Lo percòta per sei volte, gli spelacchi il perineo.

Erot., p. 124, Kl. — Uno dei soliti auguri caritatevoli, forse per il solito Búpalo.

LIRISMO
64 (79)

Deh, avessi una fanciulla vaga e morbida!

Efestione, 5. — È una nota gentile, unica nel turpiloquio ipponattèo. Ma che séguito avrà avuto questo verso sentimentale?

65 (41)
EPICA

E sopra cocchi e su puledre candide
tracie, presso alle torri d’Ilio giunto,
il sire degli Enèi, Reso, fu spento.

Tzetze, ad Posthom., p. 65. Schir. — Sembrerebbe appartenesse ad una poesia seria. [p. 217 modifica]

66 (28)

Piomberà su costoro orrido spasimo.

Prisc. Metr. Terenz. Gram: 111, 426, 16. — Certo diretta contro suoi nemici. O m’inganno, o qui Ipponatte si allaccia la giornèa del profeta.

67 (82)
IL FEMMINISTA

Due giorni offre una donna soavissimi:
il primo, quando la conduci al talamo,
e l’altro, quello del trasporto funebre.

Stobeo, 4, 22. — Basandosi sopra una mutila indicazione d’un brano di florilegio (Pap. Berl. 9773), il Diehl dichiara questi versi non ipponattei. Ma non si vede perché avrebbe dovuto sbagliare Stobeo, che espressamente li dichiara d’Ipponatte, e non l’altro compilatore.

68 (81)
LA MOGLIE SAGGIA

Ottimo matrimonio è per l’uom saggio
quando la moglie sua gli reca in dote
il buon costume. È questo il solo bene
che profitti alla casa. E chi la moglie

[p. 218 modifica]

tratta con garbo e grazia, in lei non trova
una padrona, ma del suo lavoro,
fedele, insin che vive, una compagna.

Stobeo (Ecl., 4, 22) li cita come ipponattei. Il tono è certo poco ipponatteo, il metro non è scazonte. Ma né l’un fatto né l’altro sono assolutamente probativi. E questo frammento, con pochissimi altri, potrebbe dimostrare che la sconcezza d’Ipponatte non fosse poi assoluta e perpetua.


69 (48)
IL PIVIERIVÉNDOLO

E lo nasconde. E che, vendi il piviere?

Scol. Plat. Gorgia, 494 b. — Si credeva che gl’itterici guarissero col solo guardare questo uccello. E perciò, chi li vendeva li teneva nascosti, perché i clienti non usufruissero della cura gratis. Di qui era sorto, quando qualcuno nascondeva qualche cosa, il modo proverbiale: «Che vendi il piviere?».


70 (52)
SPUGNE

Con sifone sottil fora il coperchio.

Questo sifone, a dire di Polluce (6, 19), che riporta il verso, serviva per assaggiare il vino. Ma Ipponatte dové qui alludere ad un suo ufficio abusivo, simile a quello di cui parla Mnesiloco ne Le Tesmoforiazuse di Aristofane (v. 555), nella sua allocuzione alle donne: «L’ho detto, come con la cannuccia — che portiam [p. 219 modifica]per sorregere le trecce, — il vin si succia?». Ipponatte adopera appunto il medesimo vocabolo sifon, che era tecnico, e che ricorre nel brano di Aristofane: ὡς στλεγγίδας λαβοῦσαι ἔπειτα σιφωνίζομεν τὸν οἶνον.

71 (49)
LITI

E l’un con l’altro súbito berciando.

Etim. M., 334. — Appartenne, sembrerebbe, ad una delle solite descrizioni di mala vita.

72 (50)
URLI

Urlo, di morte araldo e messaggero.

Etim. M., 539, 1. — «Messaggero dei morti» dice il testo. Ho tradotto: di morte per rendere più chiaro il senso. Chi muore, grida: dunque il grido è quasi l’araldo del suo trapasso.

73 (51)
IL FERITO

Pisciava sangue e defecava bile.

Etim. M., 624. — Nel turpiloquio romanesco esiste una espressione simile per beffeggiare gli spacconi. A chi minaccia mari e monti, si risponde che saprà tutto al piú compiere le operazioni designate in questo verso di Ipponatte. Ma forse il verso descriveva un ferito nelle solite risse. [p. 220 modifica]

74 (63)
TIRO A SEGNO

Tirando all’alto, come chi rinfresca
delle salsicce.

Efestione, 5, 4, p. 17 C. — Si riferiva, probabilmente, a qualche gesto abituale dei pizzicagnoli. Più difficile indovinare che reale occupazione fosse adombrata con questa immagine. E non è improbabile che anche qui ci fosse qualche malizia.

75 (53)
SUDORI

Stillano, come sotto un torchio il filtro.

Polluce, 10, 65. — Detto, forse, di gente che suda. La comparazione non è delle piú sconce.

76 (66)
OCCHIO AL VINO

Chi la zozza trincò, ragiona poco.

Tzetze, in Esiodo, Op. e g., 336. [p. 221 modifica]

77 (60)
LO SPACCONE

Ora minacci di ridurmi un cencio.

Etim. Flor., p. 41. — «Un legno di fico»; dice il testo: legno, come si sa, dei piú fragili.

78 (69)

Qual d’aghirone il becco tuo spalancasi.

Scol. Nec. Ther., 470 K. — L’airone, come si vede, eccitava molto la fantasia di questi poeti giambici.

79 (78)
IL GIOCO

Col bossolo dei dadi, a che m’alletti?

Secondo Eustazio, che cita il frammentino (in Odissea, 1397, 26), Ipponatte avrebbe dichiarato che i protettori di questo gioco, il cui nome era sinonimo di ribalderia, fossero Pan ed Ermete. Non sarebbe improbabile che a quest’ultimo Nume fosse rivolta l’apostrofe d’Ipponatte, che, al solito, attribuirebbe ad una forza maggiore la colpa d’una sua trista passione. [p. 222 modifica]

80 (61)
SAGGIO FRA I SAGGI

E Musone, che Apollo dichiarò
ch’era fra tutti gli uomini il piú saggio.

Diog. Laerzio, 1, 107. — Questo Mysone, nativo di Chena, villaggio della Laconia, sul monte Eta, è annoverato da Platone (Protag., 28) fra i sette saggi, al posto di Periandro. E ben saggio doveva essere, se riscoteva l’ammirazione perfino d’Ipponatte.

81 (62)
NON PERDER TEMPO

Non ti trascorra in ozio un solo istante.

Stobeo, 3, 29. — Questo precetto, quasi dantesco, stona sulle labbra d’Ipponatte. Ma chi sa dove e come lo enunciava.

82
DA GALEOTTO A MARINARO

Ora il mantello (suo) ripara gli omeri
del gobbo a cui sei solito

seder presso. Maestro in gesta simili
Ipponatte è fra gli uomini,

lo zappaterra; ed è maestro Arífanto.
Deh, fortuna, il ladruncolo

[p. 223 modifica]


mai non veder, che di caprone è fètido!
Ed egli adesso lética

con Eschilíde il tornitor di péntole,
perché di ragion pubblica

è reso il furto, e a vuoto andò la trappola.

È uno dei due frammenti del papiro di Strasburgo (vedi Archiloco, fram. 79). Con una migliore lettura del papiro, (κυρτόν=gobbo invece di κύρτον=nassa: l’accento è sicuro), Goffredo Coppola[25] ha resa possibile una migliore intelligenza di questo frammento. Io, seguendo in gran parte il Coppola, intendo che ci sia un Tizio ladruncolo, che ha rubato un mantello, d’Ipponatte o d’altri. Ma Ipponatte, che in simili operazioni è maestro dei maestri, l’ha rirubato a lui. E adesso, il ladruncolo si azzuffa con un certo pentolaio Eschílide, probabilmente suo, complice o manutengolo, perché il tiro è andato a male. E Ipponatte, rivolgendosi ad un amico, e parlando, al solito, di sé in terza persona, gli dice che il mantello copre le proprie spalle. Che Ipponatte fosse gobbo, si può presumere; e che lo chiamassero «il gobbo», è piú che probabile. Né può far meraviglia che ci si chiami da sé, e che aggiunga l’altra qualifica di zappaterra.

83
IL FRAMMENTO DI OSSIRINCO

Il frammento che segue, trovato in un papiro proveniente dagli scavi eseguiti da Evaristo Breccia, nel 1928, ad Ossirinco, per conto della Società italiana, è il piú lungo, e, sebbene mutilato, il piú interessante fra quanti ne possediamo d’Ipponatte. Descrive la visita del poeta ad una bagascia d’infima classe. Forse [p. 224 modifica]alla solita Arete. E in questo caso, la visita potrebbe essere immaginaria. Il che non esclude che i colori per dipingerla fossero attinti dal vero, e, dunque, rappresentino un aspetto della mala vita d’Efeso. I particolari fanno davvero zuffa col naso e con gli occhi; ei lettori moderni se ne scandalizzeranno. Ma siamo sempre lí. Anche questa poesia — o come si voglia definirla — non è stata scritta con spirito di lascivia, bensí di satira, di contumelia, di beffa. Non è oscena, ma sudicia. E sia pure di sudiceria ributtante.
       Sulla linea generale ed anche sulla sostanza dei particolari, non mi sembra che possa cader dubbio. Tutt’altro che facili sono invece le integrazioni dei versi mutilati, massime per un autore di lingua cosí capricciosa. E perché le mie integrazioni si allontanano molto, massime nella seconda parte, da quelle fino ad ora proposte da altri, non ho creduto superfluo discuterle in una breve appendice.

IDILLIO

Parlando in lidio, ella mi disse: «Accòstati,
presto, suonami in chiave di Meloria».
E l’uliva, sbucciandola dal píspolo,
mi fustigò con una frasca, a foggia
5(d’un capro espiatorio). E allor, fu duplice
il mio tormento: ché di qui mi vèllica
la frasca, che di su piomba; e l’asfissia
mi dà, ricolmo di merdocco, un càntero.
L’anditino olezzava; ed a quel balsamo,
10(fuor da ogni buco) scarafaggi accorsero
fitti piú delle mosche. Altri, avventandosi
sul pascipeco mio, lo smantellarono:
altri ai due guardaboschi (s’appigliarono):
l’uscïolo, piombando altri, sfondarono
15del Signor di Culagna.

Discuto i particolari nell’appendice. Qui sia ricordato il brano de Le Nuvole, che potrebbe anche essere ispirato a questo, nel [p. 225 modifica]quale il povero Strepsiade, costretto da Socrate a meditare sopra un sudicio stramazzo, si lagna delle incursioni che sul suo misero corpo fanno le cimici: «Tapino me, ch’io moro: dal lettuccio —strisciano fuori a mordermi le cimici — e i fianchi mi dilacerano — e l’anima mi succhiano — mi strappano i testicoli — il culo mi perforano — e mi fanno la festa». [p. 227 modifica]

APPENDICE

[p. 229 modifica]


Riporto il frammento di Ossirinco come io lo leggerei. Le congetture dei versi 4, 7, 9, sono di Goffredo Coppola[26], quelle del verso 11 parte del Coppola, parte del Lavagnini[27]. Le altre sono mie. Potrei facilmente sostituirle con altre, ossia fare piú proposte. Ma non mette conto. Sicuro mi sembra, però, che il senso generale sia quello che risulta dalle mie congetture.

1 ηὔδα δὲ λυδίζουσα “βάσκ[ε — — —
2 πυγιστὶ τὸν πυγεῶνα παρ[τρυπήσων μου.
3 καί μοι τὸν ὄρχιν, της φαλ[ῆς ἐκλέψασα,
4 κ]ράδῃ συνηλοίησεν ὥσπ[ερ φαρμακῶι
5 τό]ποις διοζίοισιν ἐμπεδέ[ως — — —
6 καὶ δὴ δυοῖσιν ἐν πόνοισ[ιν ἐτρίφθην
7 ἥ τε κράδη με τοὐτέρωθ[εν ἔκνιζεν
8 ἄνωθεν ἐμπίπτουσα κάνθων δ᾽ αὖ χάσκων
9 παραψιδάζων βολβίτωι [μ᾽ ἀπέπνιγεν
10 ὦζεν δὲ λαύρη. κάνθαρο[ι δὲ κατήρητοι

[p. 230 modifica]

11 ἦλθον κατ’ ὀσμὴν πλευνες ἢ θέρους μυῖαι
12 τῶν οἱ μὲν ἐμπίπτοντες εἰς τὸν κέρκον μου
13 κατέβαλον, οἱ δὲ τοὺς ὁδούρους ἤλκωσαν
14 οἱ δ᾽ ἐμπεσόντες τας θύρας διώρυξαν,
15 τοῦ Πυγέλησι ...

1. - Quasi certamente la lacuna andrà riempita con una frase da derivare dalle due espressioni βάσκε πικρολέα e βαστιζακρολέα, súbito rilevate dal Vogliano, che Esichio cita espressamente come lidie, e che significano, la prima πλησίον ἐξεθόαζε, e la seconda θᾶσσον ἔρχου = sbrigati: invito erotico assai frequente in simili sedi, e debitamente stilizzato e divenuto stereotipo anche nel dialetto romanesco. Potrebbe anche essere, e sarebbe in carattere, che ad un βάσκε seguisse un epiteto ingiurioso, sul tipo del νικύρτα o del σαβάυνι che il poeta rivolge al pittor Minne (45). Il νικύρτα, che sembra lidio, entrerebbe anche nel metro.

2. - Πυγιστί è foggiato da πυγή, come φρυγιστί ο δωριστί da φρύγιος e da δώριος, per significare: nel modo frigio o dorico, con piú abituale riferimento alla musica. Per il παρτρυπήσων, che certo si adatta al contesto, vedi Teocrito, V, 42: καὶ ὁ τράγος αὐτὰς ἐτρύπη; Antol. Plan., 243, 6: τρυπᾶν πάντας ἐπιστάμεθα. Non trovo registrato παρατρυπάω; ma c’e, in Proclo, παρατρύπημα foro accanto. Non si trovano in Ipponatte scazonti uscenti in monosillabo; ma forse è un caso. Moltissimi se ne trovano in Eronda; p. e., VII, 1, 10, 35, 88, 113. Se proprio non se ne volessero ammettere in Ipponatte, si potrebbe integrare: πάρ μοι τρυπήσων. Per la tmèsi, vedi frammento 36: ἀπό σ᾽ ὀλέσειεν Ἄρτεμις, ed Eronda, I, 37; II, 18; 111, 84.

3-4. Di questi versi non si è proposta, ch’io sappia, una interpretazione soddisfacente. Intendere che il φαλῆς sia un genitivo determinante l’ὄρχις, ha poco senso: una [p. 231 modifica]tale determinazione è peggio che superflua. Se non che, non si vede in quale altro rapporto possa stare col φαλή l’ὄρχις, se s’intende, come, mi sembra, tatti intendono, che questo singolare sia qui adoperato, con arbitrio veramente inammissibile, invece del plurale ὄρχεις. Ma se invece si pensa che ὄρχις era anche il nome d’una specie di uliva (Esichio, e Columella, V, 8), non parrà improbabile che Ipponatte lo adoperasse qui per designare, immaginosamente, la medesima entità anatomica riflessa nelle metafore glans o κύτταρον (=fava: Aristofane, Tesm., 515: καῖ τὸ πόσθιον τῷ | σῷ προσόμοιον, στρεβλόν ὥσπερ κύτταρον). Chiara allora risulta l’operazione che qui compie l’eroina d’Ipponatte, e facilmente si scoprono i rapporti sintattici. Abbiamo una proposizione principale, che ha per soggetto, sottinteso, l’eroina, per verbo συνηλοίησεν, per oggetto ὄρχιν, per complemento di mezzo κράδηι (aggiungo uno ι); e il τῆς φαλῆς avrà fatto parte d’una proposizione dipendente, apposta al soggetto della principale mediante un participio che avrà determinata l’operazione compiuta sul φσλή. E, posto il significato dell’ὄρχις, probabilmente questo participio avrà significato sbucciare, o simili: dunque un ἐκλέψασα = ἀπολέψασα, ἀποδειράσασα (cfr. Aristofane, Lysist., 953: ἀποδείρασ´ οἴχεται), o ἀνθάψασα (Aristof., Rane, 474). Si potrebbe anche pensare ad altri verbi; e un altro, probabilmente, sarà stato quello usato da Ipponatte; ma il significato sarà stato questo. Per il taglio del verso, si confronti Eronda, X, 35: Αποκτενεῖς, Βίτιννά, μ᾿ οὐδ᾽ ἐλέγξασα. - Che φαλή sia di genere femminile, non deve far meraviglia. In greco abbiamo πόσθη, σάθη (Archil., 102), μύκη (Archil., 34), etc., in latino mentula (dim. di menta), in romanesco nerchia, etc.

5. - Invece di κόποις, accettato, per quanto so, da tutti, leggerei τόποις. Dopo l’ἐμπεδέ[ως] ci sarà stato un participio; e tutto questo verso avrà appartenuto, per concluderlo, [p. 232 modifica]al periodo precedente, come si ricava dal verso seguente, nel quale, appunto, si riprende e riafferma (καὶ δὴ) l’idea prima enunciata, del triplice tormento: «in due posti, con due ambasce tormentandomi (5); e, infatti, da due travagli ero affaticato» etc.

6. - Completo con un ἐτρίφθην (meglio che ἐτρίβην). Il verbo era bene intonato in questa sede: vedi Aristofane, Lisistrata, 936: ἄνθρωπος ἐπιτρίψει με διὰ τὰ στρώματα: (cfr. Uccelli, 96), Eronda, VI, 27: αὕτη μ´ ἣ γυνὴ ποτ´ἐκτρίψει: vedi VI, 12, 85, V, 62.

8. - Anche qui, se difficile è l’integrazione, abbastanza ovvio è il senso generale. C’è qualche cosa che παραψιδάζει βολβίτῳ. Questo qualche cosa sarà stato un oggetto, che conteneva, e, probabilmente, era fatto per contenere il βόλβιτον. Παραψιδάζων, se si pensa che ἀψίς vuol dire anche «volta», «arco», potrebbe qui significare: inarcantesi a volta, gonfiantesi insomma, ricolmo. Ad integrazione del κ[ si pensò ad un κάνθαρος, col significato, appunto, del moderno càntero. Che, cosí alla prima, seduce. Ma questa accezione non è documentata; e il fatto che il vocabolo κάνθαρος era già adoperato nel senso di coppa, rende meno probabile questo uso metaforico, tanto stridente col primo. Ricordando poi il francese bidet, e simili, si potrebbe pensare ad un uso’ metaforico di κάνθων, che significava asinello, ed era piuttosto del linguaggio comico (Aristof., Vespe, 179). Siamo nel campo della pura ipotesi; ma, ad ogni modo, si potrebbe pensare ad un: κάνθων δ᾽ αὖ χάσκων.

10 sg. - Di qui comincia una nuova scena, il cui senso_generale mi sembra sicuro, sebbene le spiegazioni proposte da altri sino ad ora siano volte a tutt’altra visione. Protagonisti, senza alcun dubbio, sono dei κάνθαροι, una moltitudine, πλεῦ(νες), che accorrono all’odore di qualche cosa che sta nell’anditino [p. 233 modifica]fra il letto e il muro (λαύρη), e che conteneva il βόλβιτον. Difficilmente sarà stato altra cosa che un càntero, o simili. Questi animaletti formano tre gruppi, ciascuno con una mansione diversa. Uno ἐμπίπτει (12), l’altro καταβάλλει (13), il terzo, al pari del primo, ἐμπίπτει. È, senza dubbio, una incursione, triplice ed unica; e difficilmente sapremmo immaginarla compiuta altrove che sulla persona del poeta; il cui scopo è qui di mostrare i molteplici tormenti a cui è sottoposto in questa malaugurata fazione d’amore. E il brano fa il paio con quello de Le Nuvole, in cui le cimici fanno appunto una incursione sul corpo del misero Strepsiade meditante (709): ἐκ τοῦ σκίμποδος – δάκνουσί μ’ ἐξέρποντες οἱ κορίνθιοι – καὶ τὰς πλευρὰς δαρδάπτουσιν – καὶ τὴν ψυχὴν ἐκπίνουσιν — καὶ τοὺς ὄρχεις ἐξέλκουσιν – καὶ τὸν πρωκτὸν διορύττουσιν. — Anche nel frammento d’Ipponatte dove’ essere designata, per ciascuno dei tre verbi, una località speciale del corpo della vittima. Quella del verso 14 si identifica facilmente. Il θύραι, in simili argomenti, è metafora assai ovvia. Il povero marito che ne Le Ecclesiazuse deve alzarsi in fretta e furia dal letto, e uscire un momento di casa, dice che (316): ὃ δ’ ἤδη τὴν θύραν - ἐπεῖχε κρούων ὁ κοπρεαῖος. Belli, nel sonetto Pijate e capate (vol. VI, pag. 183), parla di «porta del cortile» e di «porton de trapasso».

E allora, riesce forse abbastanza facile indovinare il verbo che qualifichi l’azione contro le θύραι. Sembra che per una simile operazione fosse espressione di prammatica ὀρύττειν ο διορύττειν. Le cimici di Strepsiade τὸν πρωκτὸν διορύττουσιν — il coro de Gli Uccelli, appena sente un ὀρύττειν, non sa pensare che gli si possa attribuire altro oggetto che un πρωκτόν (443-444).

Determinata una località, facilmente si capisce in quali [p. 234 modifica]paraggi si debbano cercare le altre due. E, forse, non riesce impossibile una anche piú precisa ubicazione.

Le ultime lettere visibili nel verso 13 sono οδο. Si è pensato ad un οδόντας ἔπριον (ο ἤρειδον). Pero, non risulta che ai tempi di Ipponatte gli scarafaggi fossero muniti di denti. lo penserei ad un ὁδουρούς. Ὁδουρός era il guardiano posto di sentinella ad una strada (Eurip., Ione, 1617). Ora, «guardiani» era nell’antichità metafora assai comune per designare i pènzoli. Nel Faone di Platore comico, Afrodite, alle donne che vorrebbero entrare nella casa dove essa ha rinchiuso l’adorato battelliere, dice che devono prima offrire, fra l’altro, un cestello di mirto svelto con le mani (furbesco) Κονισάλῳ καὶ παραστάταιν δυοῖν. Ε Ateneo dice espressamente (9, 395 f): οἳ καλούμενοι παραστάται· εἰσὶ δὲ οἱ ὄρχεις οὕτω καλούμενοι. Vero è che παραστάτης non è ὀδουρός; ma in questo genere d’espressioni, le parole sono sostituibili, perché non tanto esse hanno valore, quanto l’immagine che esse suscitano. E varii sinonimi possono essere scelti liberamente, purché riescano arguti e trasparenti: cosí in tutti i dialetti, in tutti i gerghi.

Se tale è l’oggetto, anche il verbo si può trovare. Caratteristico di tali operazioni, e quasi direi, tecnico, è il verbo ἕλκειν. “Τοὺς ὄρχεις ἐξέλκουσιν„, dice Strepsiade, nel luogo citato de Le Nuvole. E ne Gli Uccelli, si parla di un armaiolo, il quale volle che la moglie gli giurasse, fra l’altro: μὴτ’ ὀρχίπεδ᾽ ἕλκειν.

La località indicata nel verso 12 rimane cosí determinata per esclusione. Si potrebbe pensare ad un εἰς τὸν κέρκον μου (vedi quanto ho già detto sul monosillabo in fine dello scazonte).

Nel Πυγέλησι credo infine che, con allusione alla città ionica di Πύγελα, si volesse designare la località invasa dal secondo reparto di scarafaggi. [p. 235 modifica]

Quanto all’aggettivo applicato agli scarafaggi del verso 10, oltre al κατήρητοι (per l’anapesto in 5 sed vedi framm. 36: από σ’ ὀλέσειεν Ἄρτεμις.᾽ ῾Σὲ δὲ κωπόλλων.), si potrebbe pensare ad un παντοῖοι o simili. [p. 237 modifica]

ANANIO

[p. 239 modifica]

Ananio è dalle notizie antiche dichiarato contemporaneo d’Ipponatte. Qualcuno gli attribuiva anche l’invenzione dello scazonte; ma non sarà facile credergli.

Di lui ci rimangono solo cinque frammenti; e, tranne uno, brevissimi. Briciole, quasi. Ma briciole piene di gusto e di carattere.

Nei primi due è, più che non in Archiloco e in Ipponatte, un sentore dello spirito scettico filosofico di lonia, che indaga senza pregiudizî le miserie della sorte umana; e nel quarto la satira sembra rivolgersi ai Numi, preannunciando, anche qui, Eràclito e Senòfane. Vaghissimo è il quinto. È una di quelle filastrocche di cibarie che poi, da Epicarmo in giú, troveremo frequentissime nella commedia e nella letteratura comicizzante. Questa non è però nuda filastrocca, bensí animata da certa impostatura didascalica umoristica, che troverà poi, anch’essa, larga eco nelle disquisizioni dei cuochi della commedia. Ed ha un colore ed una festevolezza che non troviamo né in Archiloco, né, tanto meno, in Ipponatte. E, accanto alla violenza giambica e alla virulenza satirica di questi due, ci offre esempio di un altro elemento, che, sorto nella Ionia, doveva poi divenire caratteristico della commedia attica. [p. 240 modifica]

Ananio non è dunque da escludere nè da trascurare. Anch’egli ha la sua fisionomia: anche i suoi brevi frammenti concorrono a completare l’immagine della poesia ionica, che preluse e diede tanti esempi alla grande poesia del continente ellenico. [p. 241 modifica]

1
ORO SIGNORE DEL MONDO

Quattrini e nulla piú — dice Pitermo.

Questo Pitermo era un musico di Mileto, compositore di canzoni convivali, a cui si ascriveva l’invenzione del modo ionico. Ciò si ricava da un luogo di Eraclide pontico, riferito da Ateneo (14, 625 a), a cui dobbiamo il verso. Oltre che musico era, naturalmente, poeta; e, sembrerebbe, gnomico. Della gnomica scettica, propria dei filosofi ionici.

2
VENTRE PRIMA DELL’ORO

Chiudi fra quattro mura oro a bizzeffe,
e qualche fico secco, e due, tre uomini:
vedrai che piú dell’oro i fichi valgono.

Ateneo, 3, 78 f. - Contraddice, in certo modo, alla sentenza di Pitermo del frammento precedente. Ma è contraddizione apparente. Uguale lo spirito scettico, che qui si esprime con arguzia degna di Senofane. Eraclito (framm. 9) dice che gli asini [p. 242 modifica]preferirebbero la crusca all’oro. — Tutti ricordano, nella favola di Fedro, il pollo che gitta via deluso la perla capitàtagli sotto il becco invece d’un chicco di grano.

3
DICHIARAZIONE

Io prediligo te, corpo d’un cavolo,
piú assai di tutti gli uomini.

Ateneo, 9, 370 a b. — «Corpo d’un cavolo» è uno dei soliti moccoli annacquati. Vedi Ipponatte, framm. 17 (40).

4
INVOCAZIONE

Apollo, sia che tu risieda in Delo,
oppure in Pito, o in Nasso, od in Mileto,
oppure in Claro la divina, vieni
al tempio nostro andar vuoi fra gli Sciti?

Intendo cosí, mettendo un punto fermo dopo ἱερόν, e un interrogativo in fine. Dobbiamo il primo di questi versi al Dioniso de Le Rane di Aristofane: lo declama per mascherare un urlo di dolore, quando il servo di Plutone gli affibbia una solenne legnata; e poi, lo dichiara di Ipponatte. Ma lo scoliaste corregge che invece è di Ananio, e che il povero Nume ha confuso per lo spasimo; e cita due versi del frammento. Nella lunga enumerazione dei luoghi in cui potrebbe trovarsi il Nume, mi sembra di sentire un po’ la solita vibrazione ironica della filosofia ionica. Ma potrebbe anche essere che questi versi, che mi sembrano un po’ burleschi, fossero ispirati da una circostanza seria. [p. 243 modifica]

5
PRECETTI GASTRONOMICI

È tra i pesci, a primavera, squisitissima l’ombrina,
nell’inverno, il maccarello. Boccon ghiotto è l’aligusta
nella sua foglia di fico. Quando autunno già declina
verso il verno, mangiar carne di capretto piú mi gusta.
A vendemmia, quando pigian l’uva, carne di maiale;
e di lepri, anche, di volpi, tempo è questo, di verdesca.
Mangia pecora d’estate, quando strillan le cicale.
Non mi par che il tonno il peggio sia di quanto in mar si pesca;
e fra tutti è poi sovrano, se l’acconci in salamoia.
Il bue pingue, manicarlo giorno e notte, è grande gioia.

Ateneo, 7, 282 a c. — Vedi introduzione. Tra le caratteristiche «nature morte» della poesia giocosa di Grecia, questa di Ananio è tra le piú graziose. [p. 245 modifica]

FOCILIDE

[p. 247 modifica]


Focílide nacque a Mileto, e fiori, secondo Suida, intorno al 537 a. Cr. Scrisse poesie didascaliche; e ne rimangono diciassette frammenti.

Sotto il nome di Focílide l’antichità ci ha tramandata anche una raccolta di massime (217 versi), che però, dallo Scaligero in giú, è reputata spuria, falsificazione, forse di un giudeo alessandrino, vissuto fra il 200 a. Cr. e l’età di Nerone.

Dione Crisostomo (36, II) dice che Focilide «non è di quelli che scrivono poesie lunghe e di gran contenuto: in due o tre versi le sue poesie hanno principio e fine. E in ciascuna poesia include il suo nome, come si trattasse di gran cosa: non fa come Omero che giammai non si nomina» (vedi quanto fu detto a proposito di Ipponatte).

E quei due o tre versi contengono precetti: arguti, in genere e bene espressi. E anche migliori sembrerebbero, se non avessero quella monotona bardatura dell’«anche questa è di Focílide». E non è improbabile che sia aggiunta di qualche compilatore, per dare alla raccolta carattere di unità. Che sia avvenuto proprio cosí, potrebbe dimostrarlo, per quanto non in linea assoluta, il fatto che una analoga dichiarazione di proprietà si trova anche in frammenti di Demòdoco e d’Ipparco. [p. 248 modifica]Tanto piú, che parecchi dei precetti di Focílide ne vanno immuni. Naturalmente, per compiere tale inserzione, il compilatore doveva rabberciare il primo verso d’ogni poesia.

Non sarà poi indizio assolutamente privo di valore la fortuna costante e la fama che circondò la poesia di Focílide dall’antichità ai nostri giorni. [p. 249 modifica]

1
LERO ISOLA DI BRICCONI

Pur questa è di Focílide: «I Lerii son tristi; non questo
sí, quel no tutti, tranne Procle; e Procle è di Lero».

Eustazio a Dionisio periegeta, 530. — Varianti di questo epigramma, mutati il nome del paese e dell’eroe, si trovano sotto il nome di Demòdoco. Difficile determinare la priorità. Probabilmente, il motto di spirito era di ragion pubblica, e applicabile a tutti i paesi.

2
LE DONNE

Pur questa è di Focílide: «A tutte le razze donnesche
han quattro bestie data l’origine: l’ape, la cagna,
la scrofa sudiciona, la bene chiomata cavalla.
È ben portante, quest’ultima, è sdutta, sollecita, snella.
Quella che vien dalla scrofa, non è né cattiva né buona.
Quella che vien dalla cagna, è aspra e selvatica: quella

[p. 250 modifica]

che vien dall’ape, è donna di casa, maestra al lavoro.
Questa procura, amico, d’avere soave consorte».

Stobeo, 4, 22. — È riassunto, non felicissimo, della famosa satira di Simonide.

3
SANGUE NOBILE CONTA POCO

Pur questa è di Focílide: «Il nobile sangue a che giova,
a chi, parli o consigli, non ha veruna ombra di grazia?»

Stobeo, 4, 29.

4
ORDINE PRIMO DEI BENI

Pur questa è di Focílide: «Un borgo sovressa una rupe
ma in ordine, val piú di Ninive quando sbalestra».

Dione Prusio, 36, 11.

5
REPUTAZIONE DEGLI AMICI

Pur questa è di Focílide: «Deve l’amico all’amico
badare, a ciò che dietro gli va mormorando la gente».

Temist. Oraz., 24, 307 c. [p. 251 modifica]

6
BADA CON CHI T’INDEBITI

Pur questa è di Focílide: «Non indebitarti col tristo
che poi ti chieda a tempo non opportuno il saldo».

Scol. Arist., Nubi, 240.

7
AI CAMPI

Se diventar vuoi ricco, coltiva il tuo fertile campo:
ché il corno d’Amaltèa posseggono, dicesi, i campi.

Stobeo, 4, 15. — Amaltèa è la capra che allevò Giove: il suo corno, il cornucopia.

8
LA NOTTE PORTA CONSIGLIO

Delibera la notte: di notte, piú acuta è la mente;
e a chi va la saggezza cercando, convien la quiete.

Tzetze, a Le Rane di Aristofane, 962. [p. 252 modifica]

9
PRIMUM VIVERE DEINDE PHILOSOPHARI

Cércati il pane; e poi, quando il pane è sicuro, il sapere.

Alex. Afrod., 1, in Arist., Top., 3, 2. Areté, dice il testo; ma non intenderei virtú in senso etico, bensí intellettuale: saggezza, sapere, o simili. Con questa interpretazione sembrano accordarsi le parole di Libanio, che anch’egli riporta il brano.

10
GIUSTIZIA MADRE DELLE VIRTÚ

Nella Giustizia son già le virtú tutte quante comprese.

Aristot., Et. Nicom., 5, 2.

11
L’APPARENZA INGANNA

Ci sono uomini tanti che sembrano pozzi di scienza,
perché san comportarsi con garbo; ma son zucche vuote.

Stobeo, 2, 15. — Verità dolorosa e sempre attuale. [p. 253 modifica]

12
AUREA MEDIOCRITAS

Il ceto medio ha molti vantaggi: ed io medio esser voglio.

«Quelli che appartengono al ceto medio, dice Aristotele, (Pol., 4, 11), si trovano in condizione piú favorevole di tutti gli altri, perché non desiderano la roba altrui, come i poveretti, né gli altri desiderano la loro, come i poveri quella dei ricchi. E cosí, non insidiando e non essendo insidiati, se la passano meglio di tutti». E cita questo verso di Focílide.

13
LA TEMPESTA PERCUOTE LE CIME

Se tu vuoi primeggiare, patire dovrai molti mali.

Verità, anche questa, eterna, e che non onora la natura umana. Gli autori antichi che citano questo verso, specificano i malanni che deve patire chi si eleva sulla mediocrità: per esempio (Anecd. Par., Cramer, 166), andare in esilio, vedere con saldo cuore la rovina delle proprie sostanze, per non potersene occupare, e sopportare ingiurie e mala fama; e, per giunta (Plut., De aud. poet., 18, 47), esser deriso.

14
CONVIVII

Allor che nei simposii si portano in giro le coppe,
convien sedere, bere, scambiare piacevoli ciance.

Ateneo, 10, 427 f, 428 b. — E cita un proverbio greco: «Il vino non ha timone». [p. 254 modifica]

15
STUDIARE A TEMPO

Apprender l’arte quando s’è ancora fanciulli, bisogna.

Plutarco, Dell’educaz. dei figli, 5. — Principio eterno. Molte delle massime prima elaborate in forma artistica dalla poesia ionica, trovano poi il loro pieno sviluppo in caratteri comici, nella commedia e nelle opere affini. Qui viene in mente l’opsimathés di Teofrasto, e il serus studiorum di Orazio.

16
ANGELI CUSTODI

Dèmoni stanno ai mortali sul capo, ora questi, ora quelli.
Questi, allorquando un male sovrasta, lo tengono lungi.

Secondo la testimonianza di Clemente alessandrino (5, 127, 4), qui Focílide affermava che esistessero dèmoni buoni e cattivi. Si ricorda il brano di Esiodo, secondo il quale i dèmoni erano trentamila. Ma il concetto di Focílide, se Clemente lo rispecchia esattamente, aveva colore piú cristiano.

17
AMICO SINCERO

Amico io son sincero, l’amico lo tratto da amico,
     e del tutto lontano mi tengo ognor dai tristi.
Né per ipocrisia lusingo veruno; e chi stimo,
     gli voglio bene sempre, dal principio alla fine.

A. P., 10, 117. [p. 255 modifica]

DEMODOCO

[p. 257 modifica]


Di Demodoco possiamo dire ben poco. Nacque in Lero, piccola isola a sud-est di Mileto, a nord-est d’Alicarnasso; e fu, presso a poco, contemporaneo di Focílide. Il suo epigramma sui Milesii sembra una risposta a quello di Focílide sui suoi compatrioti di Lero. Due altri sono repliche di questo, applicate a quelli di Chio ed ai Cilicii. E alla stessa categoria appartiene quello sui Cappadoci. Non pare che Domòdoco si desse dunque molto pensiero di cercare il nuovo. Arguto è il distico sui Cappadoci; ma sembra anche esso ispirato a un motto di spirito popolare. In sostanza, siamo anche qui ben lontani dalla poesia.

[p. 258 modifica]

1
IL CIARLATANO GABBA LA VIPERA

A un Cappadocio die' di morso una vipera; ed essa
stessa morí, gustando quel sangue avvelenato.

Antol. Palat., XI, 233. — Un motto di spirito analogo è tuttora vivo in Sicilia, applicato agli abitanti di questo o quel paese dai confinanti, e viceversa.

2
MILETO

E di Demòdoco questa: «Non sono citrulli i Milesii;
ma procedono in tutto come fosser citrulli».

Aristotele, Etica Nic., 7, 9. — È stampata sul modulo comune, ma con arguta variante. Forse piú arguta; e potrebbe essere una ragione per crederla posteriore a quella di Focílide. [p. 259 modifica]

3
CHIO

È di Demòdoco questa: «I Chii sono tristi; non questo
sí, quel no tutti, meno Procle; e Procle è di Chio».

A. P., 11, 253.

4
CILICIA

Son tutti quanti i Cilicii bricconi: uno solo c’è buono,
fra i Cilíci: Ciníra; e Ciníra è di Chio.

A. P., 11, 236.

5
CAPPADOCI

I Cappadòci, sempre bricconi; e quand’han la cintura,
piú bricconi; e se fiutan l’affare, bricconissimi.
Se poi due volte o tre guadagnan la corsa in quadriga,
diventan per un anno radiche di bricconi.
Non vincano la quarta, mio Re, ti scongiuro; o la terra
andrà in rovina, quando sia cappadocizzata.

A. P., II, 238. — Forse con quella triplice vittoria alle corse si allude a qualche fatto speciale; e siccome non lo conosciamo, il frammento rimane un po’ oscuro. Neanche chiarissima è l’allusione alla cintura (zone) del verso 1. Vien fatto di pensare che [p. 260 modifica]il vocabolo zone poteva anche significare borsa; e allora si direbbe che i Cappadoci quando sono ricchi sono piú tristi. Però, in una medaglia d’Adriano si vede la Cappadocia con una tunica stretta da una cintura. Forse era una singolarità della loro acconciatura, rilevata sin dai tempi di Demòdoco; e lo scherzo avrebbe suonato, su per giú, come se da noi, poco tempo fa, si fosse detto: «Il Prussiano è sempre Prussiano; ma se poi s’infila l’elmo a chiodo!». — Del resto, a me l’autenticità dell’epigramma non sembra sicurissima; e ci sento il suono d’un’età più bassa.

6
LA GIUSTIZIA

Se tu giudichi, ti conviene | far la giustizia di Priène.

Diog. Laerz., 1, 84. — Cioè dare una sentenza simile a quelle del famosissimo Biante. [p. 261 modifica]

CLEOBULO

[p. 263 modifica]



Fu uno dei sette savii, nacque a Lindo, in Rodi, sembra fosse contemporaneo di Solone, e, ad ogni modo, visse, al piú tardi, intorno al 560. Pare che molto della sua saggezza filosofica derivasse dall’Egitto. Delle sue sentenze, molte facevano testo; ed una, che bisognasse accasare le figliuole ragazze d’anni, ma donne quanto al senno, dimostra come avesse idee assai piú evolute di quelle correnti su l’educazione femminile. Scrisse poesie liriche, e grifi, cioè indovinelli, in versi. A noi rimane un solo indovinello. Diogene Laerzio gli attribuisce anche il bell’epigramma sulla tomba di Mida, che altri attribuivano ad Omero.

Inutile spender parole sulla opportunità di concedere agli indovinelli cittadinanza nel regno della poesia. [p. 264 modifica]

INDOVINELLO

È uno il padre, ei figli son dodici; e ognuno di questi
ha sessanta figliuoli, che sono diversi d’aspetto:
candidi sono questi, quegli altri, a vederli, son neri;
ed immortali sono, ma pure soccombono tutti.

Stobeo, I, 8. — È l’anno, che ha dodici mesi, e ogni mese trenta giorni, bianchi, e trenta notti, nere. Gli Arabi paragonavano la successione dei giorni ad una ghirlanda di perle alternate bianche e nere.

SU LA TOMBA DI MIDA

     Sono fanciulla di bronzo, che sto su la tomba di Mida.
Sinché l’acqua fluisca, fioriscano gli alberi grandi,
brillin, dal mare sorgendo, il sole e la fulgida luna,
sinché scorrano i fiumi, rimormori il mare alla spiaggia,
io, sopra questo sepolcro, di lagrime molle, restando,
a chi passa dirò che questa è la tomba di Mida.

Diogene Laerzio, I, 6. — Chi rivendicava la paternità di questo bell’epigramma a Cleòbulo, citava a sostegno alcuni versi di Simonide: «Chi darà lode, se il senno lo assiste, a Clèobulo lindio; che ai fiumi perenni, che ai fiori; di primavera,

[p. 265 modifica]alla vampa del sole e dell’aurea luna | e ai gorghi del mar, contrappose | virtú di marmorea colonna? | Tutte, di fronte al Nume, son nulla, le cose: una pietra | anche mani mortali la possono frangere: è quella | sentenza da stolto». Certo la testimonianza, cosí esplicita, di Simonide, non è da tenere in piccolo conto. [p. 267 modifica]

CLEOBULINA

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Era figlia di Cleobulo. La tradizione la dipinge come donna di alta levatura, sí etica, sí intellettuale. Fu specialista di enimmi; e la tradizione ne ha conservati parecchi. [p. 270 modifica]

1
LA VENTOSA

Un uom vidi che il bronzo col fuoco saldava su un uomo.

Arist., Ret., 3, 2. — È la ventosa: una coppetta, qui di bronzo, che si applica, dopo aver fatto il vuoto nel suo interno, su una parte qualunque del corpo, con lo scopo di richiamarvi un maggior afflusso di sangue. E tra i mezzi di fare il vuoto, c’è quello di collocare nella coppetta, al momento dell’applicazione, un po’ di fuoco, che distrugge l’ossigeno. L’operazione è da Cleobulina paragonata ad una saldatura.

2
L’ARTISTA

Un uom vidi che a forza compieva l’inganno e la frode:
ed era questa forza sua, giustissima cosa.

Riferito da Galeno e da altri. Vedi Diels, Vorsokratiker, p. 339, 27. «Nell’arte tragica e nella pittura, chi meglio riesce ad ingannare, facendo finzioni simili al vero, quegli è piú bravo». E si cita questo indovinello di Cleobulina, la cui spiegazione è, dunque: l’artista. [p. 271 modifica]

3
IL FLAUTO FRIGIO

Col suo cornuto stinco le orecchie mi batte un buricco.

Plut., Conv. dei sette sapienti. — Dice che è il flauto frigio, costruito con lo stinco d’un ciuco. La metafora piú adoperata dai Greci pei suoni, anche musicali e non rumorosi, è battere (krúein, pléttein, etc.). [p. 273 modifica]

ESOPO

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Poche le notizie intorno a questo celeberrimo favolista. Da Erodoto (II, 134) si ricava che fu schiavo di Iàdmone, in Samo, a tempo del re Amasi, verso, dunque, la metà del secolo VI. Compose favole; ma in prosa; e neppure è sicuro che le affidasse alla scrittura: anzi, da un luogo di Aristofane (Vespe, 566, cfr. 1259) sembra si possa raccogliere che erano trasmesse oralmente nei convivii e nei trattenimenti. L’Antologia Palatina riporta sotto il suo nome una poesia; e non è detto che non possa essere autentica. [p. 276 modifica]

VITA BENE E MALE

Come fuggirti, o vita, pur senza morire? Ché molti
     sono i tuoi lutti, ed arduo schivarli e sopportarli.
Dolci riescono al cuore le cose tue belle: la terra,
     il mare, gli astri, l’orbe della luna e del sole;
ma tutto il resto è pieno di crucci e terrori; e, se pure
     si gode un bene, súbito se ne sconta la pena.

A. P., 10, 123. — Qui è riferito come d'Esopo; nella Planudèa, come d'ignoto. [p. 277 modifica]

INDICE

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Callino |||
   » 1
Archiloco |||
   » 15
Simonide d'Amorgo |||
   » 117
Mimnermo |||
   » 143
Ipponatte |||
   » 163
Ananio |||
   » 237
Focilide |||
   » 245
Demodoco |||
   » 255
Cleobulo |||
   » 261
Cleobulina |||
   » 267
Esopo |||
   » 273
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Immagine dal testo cartaceo

  1. I Lirici greci tradotti, I, 33.
  2. Τὸ γὰρ Κιμμερίων στράτευμα τὸ ἐπὶ τὴν ᾿Ιωνίην ἀπικόμενον, Κροίσου ἐὸν πρεσβύτερον, οὐ καταστροφὴ ἐγένετο τῶν πολίων, ἀλλ’ ἐξ ἐπιδρομῆς ἁρπαγή.
  3. Vedi il mio libro Nel regno d’Orfeo, pag. 205 sg.
  4. I dubbi sulla paternità archilochea di questo frammento non sono del tutto esclusi. Certo d’Ipponatte non parrebbe. Ma neanche mi sembra che sia, come vorrebbe adesso Goffredo Coppola, una imitazione alessandrina.
  5. Ricordo per tutti Cervantes. Caratteristica, nella sua opera, la novella La Ilustre Fregona. Il suo eroe, don Carriazo, sui tredici anni fu preso dalla inclinazione picaresca, non per alcun maltrattamento del padre, ma per pura inclinazione. E la seguí, «tan contento de la vida libre, que en la mitad de las incomodidades y miserias que trae consigo no echaba menos la abundancia de la casa de su padre, ni el andar á pie le cansaba, ni el frío le ofendía, ni el calor le enfadaba». Sempre allegro, in qualunque stagione, «con tanto gusto se soterraba en un pajar de un mesón como si se acostara entre dos sábanas de Holanda; finalmente el salió tan bien con el asunto de pícaro, que pudiera leer cátedra en la facultad al famoso de Alfarache».
  6. Vedi, in questa collezione, le prefazioni ai due poemi.
  7. Qui, come nelle analoghe esemplificazioni, colorisco gli schemi con qualche accento melico, senza, s’intende, la menoma pretesa artistica. Tocchi d’acquerello, per rendere piú perspicue le parti di un disegno. E, per lo piú, desumo gli accenti mèlici dai frammenti superstiti della musica greca.
  8. Vedi il mio studio «Il verso» nel volume Nel Regno d’Orfeo, pag. 205 sg.
  9. Vedi Nel Regno d’Orfeo, pag. 180.
  10. Vedi Nel Regno d’Orfeo, pag. 221, 230-31.
  11. Nel Regno d’Orfeo, pag. 225 sg.
  12. Come tale è presentato in un classico e prezioso passo del De Musica di Plutarco (28), dove poi gli sono anche attribuiti l’invenzione del cretico: — ⏑— , e quella del peone epíbato: — — — — — , metri che non si trovano fra i suoi frammenti, e che probabilmente non adoperò mai. Sul peone epibato vedi il De Musica di Plutarco, ediz. Weil e Reinach, nota 281.
  13. Conviene però osservare che anche i detrattori condannavano la parte morale, ma rispettavano, sembrerebbe, l’artista. Gli Spartani, secondo Valerio Massimo (VI, 3), fecero bandire dalla loro città i suoi libri perché poco verecondi e pudichi. Eraclito scrisse che egli ed Omero avrebbero dovuto esser banditi dagli agoni, e percossi con le verghe; ma perché tanto l’uno quanto l’altro crescevano prestigio, con la loro arte, a un mondo di finzioni che egli voleva filosoficamente abolite.
  14. Il «bianco loto» è il flauto: i lacci sono quel singolare bavaglio con cui i suonatori assicuravano lo strumento alle labbra, e che impediva il turpe aspetto delle enfiate guance». Non sappiamo chi fosse questo Esàmia.
  15. De Musica (ediz. Weil e Reinach, 86).
  16. Nel De Musica di Plutarco (203 ediz. Weil Reinach) si dichiara che gli antichi erano piú vaghi del ritmo, i moderni del mèlos: οἱ μὲν γὰρ νῦν φιλομελεῖς, οἱ δὲ τότε φιλόρρυθμοι.
  17. Anche questo particolare era narrato da Mimnermo: lo afferma Strabone (XIV, 634): Κολοφώνα δ᾽ ᾿Ανδραίμων κτίζει... ὥς φησι καὶ Μίμνερμος ἐν Ναννοῖ (Bergk, framm. 10).
  18. I Lirici greci tradotti (Torino, Bocca, 1910), p. 148 sg.
  19. L’obiezione capitale del Fraccaroli alla attribuzione archilochea, piú comunemente accettata, è fondata sul nome Ipponatte, che chiaramente si legge nell’altro frammento, trovato nello stesso papiro accanto al primo. — Dice il Fraccaroli che sarebbe stato davvero un bel caso se un secolo prima uno dei conoscenti d’Archiloco avesse avuto per l’appunto un tal nome, rarissimo. Ed esclude che questo brano possa essere d’Ipponatte e il precedente di Archiloco, perché non esiste nei, papiri esempio d’un florilegio senza scopo didattico o gnomico. Ma il fatto che non esiste non prova che non possa essere esistito. lo credo appunto che i frammenti appartengano il primo ad Archiloco e il secondo ad Ipponatte.
  20. Studi italiani di Filologia classica, 1929, p. 155 seg.
  21. Il Knox (The first greek Antologist, p. 29), mutando l’ἔβωσε del frammento in βώσω δὲ. Però lo scoliaste a Licofrone, che riporta il frammento, dice esplicitamente che la poesia era diretta contro Búpalo. E Búpalo sarebbe dunque il gentiluomo che invocava Ermète dio dei ladri, e era con ciò qualificato come ladro.
  22. SARTIAUX, Villes mortes d’Asie Mineure, 62 sg.
  23. Non è sicura la paternità archilochea del frammento: «tendo la mano e méndico». Ad ogni modo, non è certo da pitocco il tono generale delle poesiè d’Archiloco.
  24. Per quanto non creda, come lo Knox (Proceedings of the Philological Society, 1926), che Ipponatte si costringa a mantener breve la quarta sillaba.
  25. Studi italiani. di Filologia classica, 1929, p. 155.
  26. In Rivista di Filologia e d’istruzione classica, 1928, pag. 500 sg.
  27. Annali delle Università Toscane, vol. XII (Nuova Serie) fasc. 1.