I predoni del Sahara/Capitolo 21 - Un colloquio misterioso

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Capitolo 21 - Un colloquio misterioso

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Capitolo 21 - Un colloquio misterioso
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21 - Un colloquio misterioso


I Tuareg, che si preparavano già a caricare il drappello, udendo quelle parole, avevano rialzato le lance e arrestato lo slancio dei mehari, fissando i loro sguardi su El-Melah.

Un grido di sorpresa e anche di gioia sfuggì tosto al capo. “Ah!... L'algerino!...”

“Sì, sono io, Amr,” rispose El-Melah. “E questi sono miei amici che non desiderano altro che di vivere in pace.”

Attraversò lo spazio che lo separava dal capo dei Tuareg e accostatosi al mehari lo costrinse ad inginocchiarsi.

“Lascia questi uomini tranquilli,” mormorò agli orecchi del predone. “Nell'attesa non perderai nulla.”

“Chi sono costoro?”

“Dei francesi.”

“Fratelli degli altri?... di quelli che abbiamo scannato al sud dell'Algeria?”

“Silenzio, Amr.”

“Dove vanno?”

“A Tombuctu.”

“Per quale motivo?

“Non lo so ancora, nondimeno lo saprò presto.”

“Siamo in quaranta.”

“Hanno delle armi potenti e non sbagliano un colpo.”

“Perché ti sei unito con loro?”

“Mi hanno salvato.”

“Ah! E tu sei riconoscente ai tuoi salvatori?” ghignò il predone.

“Sì, per ora,” rispose El-Melah. “Obbedisci?”

“Và a dire loro che fra noi regnerà la pace.”

“Vuoi predare?”

“Cosa devo fare?”

“Và al nord. A quattro giornate da qui è stata distrutta una grossa carovana e troverai da raccogliere vesti e armi in quantità.”

“Chi l'ha assalita?”

“Quella canaglia di Korkol.”

“Perché lo chiami canaglia?” chiese il predone.

“Perché dopo che lo avevo informato dell'appressarsi della carovana ha cercato di disfarsi di me, seppellendomi fra le sabbie. Senza questi uomini io sarei a quest'ora morto e la mia testa avrebbe servito di cibo agli avvoltoi.”

“Quello non è riconoscente,” disse il Tuareg, sorridendo. “Ti aspetto a Tombuctu.”

“Vi seguirò da lontano, così vi giungeremo insieme. Bada però di non ingannarmi.”

“Il sangue dei francesi ci unisce. Addio, Amr-el-Bekr.”

El-Melah tornò verso il marchese ed i suoi compagni, i quali avevano atteso con pazienza la fine di quel colloquio, senza poter udire una sola parola, data la distanza che li separava dal gruppo dei Tuareg.

“La pace è conclusa, signore,” disse il sahariano, con voce lieta. “Ho persuaso i Tuareg a lasciarci tranquilli e ad andarsene altrove.”

“E come conosci quei banditi?” chiese il marchese guardandolo un pò sospettosamente.

“Quel capo mi deve la vita, avendolo io liberato da un leone che stava per divorarlo,” rispose El-Melah.

“Andiamo ai pozzi,” disse Ben. “La sete mi divora.”

Mentre s'inoltravano nell'oasi, i Tuareg, saliti sui loro mehari, uscivano dalla parte opposta dirigendosi verso l'est.

L'oasi non aveva che un'estensione molto limitata, appena un quarto di miglio tanto in lungo quanto in largo, tuttavia era ricca di verzura e d'ombra.

Il terreno, quantunque sabbioso, ma fecondato da qualche serbatoio sotterraneo, era coperto da macchie di splendide aloè, di fichi d'India, arbusti spinosi che producono delle bacche insipide; di erbe dure e amare che perfino i cammelli disdegnano, e di piccole mimose.

Sopra quella prima vegetazione, numerose palme dai tronchi eleganti distendevano le loro splendide foglie. Erano delle superbe camerope humilis, dal fusto cilindrico, nudo alla base e più sopra difeso da squame regolari, colla cima coronata da un ciuffo di trenta o quaranta foglie piumate. Sono piante preziose perché producono frutta simili ai datteri, ripiene di polpa zuccherina, mentre nel tronco nascondono una sostanza farinosa mangiabile.

Non mancavano però nemmeno le palme dattifere, già cariche di quelle belle frutta carnose, lucenti, d'una tinta giallo-bruna o rosso-giallastra.

Sotto quelle ombre non si vedevano animali. Abbondavano invece i volatili; grosse ottarde che s'inseguivano battagliando, falchi giocolieri, e altri uccelli simili alle gazze, colle ali azzurre e la coda, e il ventre più pallido.

Il marchese ed i suoi compagni, attraversato rapidamente quel minuscolo paradiso, dove si respirava una frescura deliziosa prodotta dall'umidità del sottosuolo, raggiunsero i pozzi, scavati quasi nel centro dell'oasi, a breve distanza l'uno dall'altro.

Come tutti quelli del Sahara, erano stati rivestiti di tronchi di palma, onde impedire al terreno sabbioso di franare, ed erano profondi dai sette agli otto metri.

Gli otri furono calati e tutti si dissetarono avidamente con quell'acqua fresca e limpida, felicità inapprezzabile specialmente per quei viaggiatori che da tanti giorni non avevano bevuto che un liquido corrotto dal caldo, puzzolente e tiepido.

“Ah!” esclamava Rocco, bevendo a crepapelle. “Cosa sono la birra, le gazose, il sidro in paragone a quest'acqua!”

Calmata la sete, abbeverarono abbondantemente i cammelli, i mehari ed i cavalli, poi rizzarono le tende, avendo deciso di fermarsi un paio di giorni in quel piccolo Eden.

Disgraziatamente quella felicità doveva essere di breve durata. Riposavano da quattro ore chiacchierando e fumando, godendosi quella frescura, quando videro Rocco, il quale si era spinto verso il margine settentrionale dell'oasi per cacciare una coppia d'ottarde, tornare di corsa.

“Signore, in piedi e prendete le armi!” gridò, precipitandosi verso le tende. “I predoni s'avvicinano.”

“Quali?” chiese il marchese, prendendo il fucile. “Quelli che ci hanno lasciato poco fa?”

“Non credo,” rispose Rocco. “Questi vengono dal nord-ovest.”

“Che siano quelli che ci hanno dato la caccia?” disse El-Haggar.

“Lo suppongo, ma sono cresciuti di numero. Devono essere per lo meno una trentina.”

“Fuggiamo, signore,” disse El-Haggar.

“E dove?”

“Cercheremo un rifugio nell'oasi di Eglif. Fra ventiquattro ore vi possiamo giungere e là troveremo delle rocce che ci permetteranno di resistere meglio.”

“E anche Tasili, il mio fedele servo,” aggiunse Ben, “e non sarà certo solo.”

“Fate le provviste d'acqua e ordinate la carovana,” disse il marchese. “E noi andiamo a ritardare la marcia di quei predoni. Vieni; Rocco, venite Ben.”

“Ed io?” chiese Esther.

“Non esponetevi per ora e poi la vostra presenza è necessaria qui,” le disse il marchese. “Siete la più valorosa e prenderete il comando della carovana.”

Salì sul cavallo, imitato da Ben, mentre Rocco montava il mehari, e si spinsero verso il margine dell'oasi. Intanto i due beduini ed El-Melah riempivano precipitosamente gli otri e riordinavano i cammelli con grida e bastonate.

I banditi, diventati prudentissimi, quantunque raddoppiati di numero, s'avvicinavano cautamente, tenendosi riparati dietro le dune. Non essendo però queste tanto alte da poterli coprire interamente, erano scesi dai loro mehari, tenendoci ora molto più alla loro pelle che a quella degli animali.

“Mi pare che non si sentano troppo sicuri di prenderci,” osservò il marchese, il quale si era arrestato dietro un gruppo di palmizi. “Si direbbe che abbiano paura.”

“O che vogliano invece attaccare contemporaneamente noi e la carovana?” chiese il marchese. “Avanti, amici! Tagliamo la via alla prima banda che gira al largo dell'oasi.”

Giunti a circa mezzo chilometro dalle prime palme, i banditi si erano divisi in due drappelli egualmente numerosi.

Mentre uno muoveva direttamente verso l'oasi, coll'intenzione di dare battaglia e trattenere i tre cavalieri, l'altro s'era spinto verso l'est per girare intorno a quell'isolotto di verzura e sorprendere la carovana nella sua ritirata.

“Rocco,” disse il marchese, “va' ad unirti ad Esther e non lasciarla fino al nostro arrivo.”

“E voi, signore?” chiese il sardo.

“Copriremo la ritirata meglio che potremo.”

Il sardo lanciò il mehari in mezzo alle palme, scomparendo dietro i folti cespugli.

“Ed ora a noi, Ben,” disse il marchese.

Si volse e vide, a circa un chilometro, la carovana. Aveva già lasciato l'oasi e s'inoltrava nel deserto rapidamente, muovendo verso il sud.

“A chi daremo battaglia?” chiese Ben.

“Al drappello che cerca di girare l'oasi,” rispose il marchese. Spronarono i cavalli attraversando l'oasi da occidente ad oriente e raggiunsero la punta estrema. nel momento in cui un primo drappello, composto di sedici predoni, passava a corsa sfrenata a circa duecentocinquanta metri.

Fermarono i cavalli, scesero da sella, si appoggiarono al tronco d'una grossa palma e fecero fuoco simultaneamente.

Un mehari ed un Tuareg, caddero fra le urla furibonde della banda.

A quella prima scarica ne seguì una seconda, poi una terza che fecero cadere un altro uomo e altri due animali.

“Cinque colpiti su sei palle! Un bel tiro!” gridò il marchese.

I banditi, arrestati in piena corsa da quelle scariche terribili, si gettarono in mezzo alle dune, abbandonando i loro corridori.

“Come li abbiamo fermati!” esclamò Ben.

“Questi, ma non gli altri,” rispose il marchese. “Stanno per piombarci alle spalle.”

Il secondo drappello, trovando la via sgombra, s'era spinto velocemente innanzi, occupando il margine dell'oasi.

Alcuni spari rimbombarono, senza offendere i due coraggiosi europei, i quali si slanciarono sui loro cavalli e partirono al galoppo, salutati da una seconda scarica dei pari inoffensiva.

“Che pessimi bersaglieri,” disse il marchese.

“Sono i loro fucili che valgono poco,” rispose Ben.

Vedendoli fuggire, i predoni si erano messi ad inseguirli vigorosamente, eccitandosi con alte grida e sparando di quando in quando qualche colpo di fucile, i cui proiettili non potevano certo giungere a buona destinazione a causa delle scosse disordinate dei mehari.

Il marchese e Ben, attraversata l'oasi in tutta la sua lunghezza, si slanciarono fra le dune di sabbia.

La carovana aveva già percorso due miglia e continuava la fuga. Rocco ed Esther, la quale aveva fatto abbassare la tenda per essere più libera, stavano alla retroguardia, coi fucili in mano.

“Cerchiamo di mantenere la distanza,” disse il marchese, rallentando la corsa del cavallo.

I predoni si erano nuovamente riuniti, vista l'impossibilità di sorprendere la carovana, ed eccitavano i loro mehari per guadagnare via.

Quattro o cinque, meglio montati, in pochi minuti si trovarono a soli quattrocento passi dai fuggiaschi.

“Ben,” disse il marchese. “Arrestiamoli.”.

“Gli uomini od i mehari?”

Si fermarono dietro una duna e incominciarono il fuoco.

Bastarono dieci secondi a quei valenti bersaglieri per smontare tre uomini. I tre mehari, gravemente feriti, erano caduti a poca distanza l'uno dall'altro.

Il marchese stava per ricominciare il fuoco, quando il suo cavallo s'impennò bruscamente mandando un nitrito di dolore, poi cadde sulle ginocchia posteriori, sbalzando di sella il cavaliere.

“Marchese!” esclamò Ben, spaventato.

“Un semplice capitombolo,” rispose il corso, risollevandosi prontamente. “Hanno colpito solamente il cavallo.”

Gettò uno sguardo furioso sui Tuareg. Il predone che gli aveva mandato quella palla stava ritto sul suo mehari, col fucile fumante ancora teso.

“Me la pagherai, briccone!” gridò il corso.

Le parole furono seguite da uno sparo, ma non fu l'animale che cadde, bensì il cavaliere.

Poi il corso guardò il suo cavallo. Il povero animale, colpito fra le zampe anteriori da un grosso proiettile, rantolava disteso sulla sabbia.

“È perduto!” esclamò egli con rammarico.

“Salite dietro di me e raggiungiamo la carovana,” disse Ben. “Presto, i Tuareg arrivano al galoppo!”

Il corso si slanciò sul cavallo, s'aggrappò a Ben ed entrambi partirono a corsa sfrenata, mentre i predoni, furiosi di vedersi sfuggire ancora una volta la preda, si sfogavano con imprecazioni e minacce senza fine.