I promessi sposi (Ferrario)/Capitolo XXVII

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Capitolo XXVII

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Capitolo XXVI Capitolo XXVIII

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CAPITOLO XXVII.


Già più d’una volta c’è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva, per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga, secondo di quel nome; ma c’è occorso sempre in momenti di gran fretta: sicchè non abbiamo mai potuto darne più che un cenno alla sfuggita. Ora però, all’intelligenza del nostro racconto si richiede proprio d’averne qualche notizia più particolare. Sono cose che chi sa di storia le ha da sapere; ma siccome, per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiamo supporre che quest’opera non possa esser letta, se non da ignoranti; così non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne chi ne avesse bisogno.

Abbiam detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato, in linea di successione, Carlo Gonzaga, capo d’un ramo cadetto trapiantato in Francia, dove possedeva i ducati [p. 55 modifica]di Nevers e di Rhétel, era entrato al possesso di Mantova; e ora aggiungiamo, del Monferrato: chè la fretta appunto ce l’aveva fatto lasciar nella penna. Il ministero spagnuolo, che voleva ad ogni patto (abbiam detto anche questo) escludere da quei due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno d’una ragione (perchè le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste), s’era dichiarato sostenitore di quella che pretendevano avere, su Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena. Don Gonzalo, che era della casa del gran capitano, e ne portava il nome, e che aveva già fatto la guerra in Fiandra, voglioso oltremodo di condurne una in Italia, era forse quegli che faceva più fuoco, perchè questa si intraprendesse: e intanto, interpretando le intenzioni e precorrendo gli ordini del ministero suddetto, aveva conchiuso col duca di Savoia, un trattato d’invasione e di partigione del Monferrato; e ne aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione dal conte duca, persuadendogli molto agevole l’acquisto di Casale, che era il punto più difeso della parte pattuita al re di Spagna. Protestava però, in [p. 56 modifica]nome di questo, di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla sentenza dell’imperatore; il quale, tra per gli uficii altrui, tra per suoi proprii motivi, aveva intanto negata l’investitura al nuovo duca, e intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro gli stati controversi: egli poi, intese le parti, li rimetterebbe a chi di ragione. Al che il Nevers non s’era voluto piegare.

Aveva egli pure amici d’importanza: il cardinale di Richelieu, i signori veneziani, e il papa. Ma il primo, impegnato allora nell’assedio della Roccella, e in una guerra coll’Inghilterra, attraversato dal partito della regina madre, Maria de’ Medici, contraria, per certe sue ragioni alla casa di Nevers, non poteva dare che speranze. I veneziani non volevano muoversi, nè manco dichiararsi, se prima un esercito francese non fosse calato in Italia; e, aiutando sotto mano il duca come potevano, colla corte di Madrid e col governatore di Milano stavano sulle proteste, sulle proposte, sulle esortazioni, placide o minacciose, secondo i momenti. Urbano VIII raccomandava il Nevers agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversarii, faceva progetti d’accordo; di metter gente in campo non ne voleva udir novella. [p. 57 modifica]

Così i due alleati alle offese poterono, tanto più sicuramente, cominciar l’impresa concertata. Carlo Emanuele eia entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don Gonzalo aveva posto, di gran voglia, l’assedio a Casale; ma non vi trovava tutta quella soddisfazione che se n’era promessa: che non credeste che nella guerra sia tutto rose. La corte non lo serviva, a gran pezza, di tutti i mezzi ch’egli chiedeva; l’alleato lo serviva troppo: voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, ne andava prendendo di quella assegnata al re di Spagna. Di che don Gonzalo arrovellava quanto si possa dire; ma temendo, se faceva appena un po’ di romore, che quel duca, così attivo ne’ maneggi e mobile ne’ trattati, come prode nell’armi, si volgesse alla Francia, doveva chiuder l’occhio, rodere il freno e far buon viso. L’assedio poi andava male, in lungo, talvolta all’indietro, e pel contegno saldo, avvertito, risoluto degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al dire di qualche storico, pei molti spropositi che faceva. Su di che noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente così, a trovarla una bellissima cosa, se fu cagione, che in quella impresa sieno restati morti, smozzicati, storpiati qualche uomini di meno, [p. 58 modifica]e, ceteris paribus, anche soltanto un po’ men danneggiati i tegoli di Casale. In questi frangenti, gli sopravvenne la nuova della sedizione di Milano, per lo che egli ci accorse in persona.

Qui, nel ragguaglio che gli si diede, fu fatta anche menzione della fuga ribelle e clamorosa di Renzo, dei fatti veri e supposti che avevano dato cagione alla presa di lui; e gli si seppe anche dire che questo tale s’era rifuggito sul territorio di Bergamo. Questa circostanza fermò l’attenzione di don Gonzalo. Era egli informato da tutt’altra parte, come a Venezia s’era preso grand’animo, per la sommossa di Milano; come, da principio, vi s’era creduto ch’egli ne sarebbe costretto di levar le tende d’attorno a Casale; e come vi si teneva tuttavia ch’egli ne stesse a capo basso e in gran pensiero: tanto più che, subito dopo quell’avvenimento era giunta la notizia, sospirata da que’ signori e temuta da lui, della resa della Roccella. E sentendo dispiacere assai, e come uomo e come politico, che que’ signori avessero un tal concetto dei fatti suoi, spiava ogni opportunità di farneli ricredere, e di persuaderli, per via d’induzione, che non aveva rimesso in nulla dell’antica baldanza; giacchè il dire esplicitamente, non ho paura, è come non [p. 59 modifica]dir niente. Un buon mezzo è di fare il disgustato, di querelarsi, di reclamare: e perciò, essendo venuto il residente di Venezia a fargli un complimento, e ad esplorare insieme nella sua faccia e nel suo contegno, come egli stesse di dentro, (notate tutto; che questa è politica di quella vecchia fina) don Gonzalo, dopo d’aver parlato del tumulto, leggermente e da uomo che ha già messo riparo a tutto; fece quella passata che sapete intorno a Renzo; come sapete anche quel che ne venne in seguito. Dopo di che, non s’occupò altro d’un affare così minuto e, quanto a lui, terminato; e quando poi, buon tempo dopo, gli pervenne la risposta, al campo sopra Casale, dov’era tornato, e dove aveva tutt’altro per la mente, alzò e dimenò la testa, come un baco da seta che cerchi la foglia; badò un istante, per farsi tornar vivo nella memoria quel fatto, di cui non vi rimaneva più che un’ombra; si risovvenne della cosa, ebbe un’idea fugace e in nebbia del personaggio; passò ad altro, e non ci pensò più.

Ma Renzo, il quale, da quel poco che gli s’era fatto vedere in nube, doveva presupporre tutt’altro che una così benigna non curanza, stette un pezzo senz’altro pensiero e, per dir meglio, senz’altro studio, che di viver [p. 60 modifica]nascosto. Pensate se si struggeva di mandar sue nuove alle donne, e di averne in ricambio; ma v’era due grandi difficoltà. L’una, che sarebbe stato mestieri anche a lui di confidarsi ad un segretario, perchè il poveretto non sapeva scrivere, nè anche leggere, nel senso esteso della parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal dottor Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu mica un vanto, una sparata, come si dice; ma era il vero che lo stampato lo sapeva leggere, con un po’ di tempo: lo scritto è un’altra cosa. Gli conveniva dunque mettere un terzo a parte dei suoi interessi, d’un segreto così geloso: e un uomo che sapesse tener la penna in mano, e di cui uno si potesse fidare, a quei tempi non si trovava così facilmente; massime in un paese, dove non si avesse nessuna antica conoscenza. L’altra difficoltà era d’avere anche un corriere; un uomo che andasse appunto da quelle parti, che volesse incaricarsi della lettera, e darsi davvero il pensiero di ricapitarla; tutte cose anche queste, difficili a riscontrarsi in un uomo solo.

Finalmente, a forza di cercare e di tastare, trovò chi scrivesse per lui. Ma, non sapendo se le donne fossero ancora a Monza, o dove, stimò bene di far chiudere la lettera [p. 61 modifica]diretta ad Agnese in una sopraccarta coll’indirizzo al padre Cristoforo, e con due righe anche per lui. Lo scrivano prese anche l’assunto di far ricapitare il plico; lo consegnò ad uno che doveva passare non lontano da Pescarenico; questi lo lasciò, con molte raccomandazioni, in un albergo della via, al punto il più vicino; trattandosi che il plico era indirizzato ad un convento, vi pervenne; ma che ne avvenisse di poi non s’è mai saputo. Renzo, non vedendo comparir risposta, fece stendere un’altra lettera, a un dipresso come la prima, e acchiuderla in un’altra ad un suo conoscente di Lecco, o parente che fosse. Si cercò un altro portatore, si trovò; questa volta la lettera arrivò a cui era indiritta. Agnese trottò a Maggianico, se la fe’ leggere e spiegare da quell’Alessio suo cugino: concertò con lui una risposta, ch’egli mise in iscritto; si trovò mezzo d’inviarla ad Antonio Rivolta nel luogo del suo domicilio: tutto questo però non così speditamente come noi lo raccontiamo. Renzo ebbe la risposta, e col tempo mandò la replica. In somma, si avviò fra le due parti un carteggio, nè rapido nè regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli, continuato.

Ma, per avere un’idea di quel carteggio, bisogna sapere un po’ come andassero allora tali [p. 62 modifica]cose, anzi come vadano; perchè, in questo particolare, credo ci sia poco o nulla di mutato.

Il forese che non sa scrivere, e che si trova al punto di avere a scrivere, si rivolge ad uno che conosca quell’arte, pigliandolo, per quanto può, fra quelli della sua condizione, perchè degli altri si perita o si fida poco; lo informa, con più o meno ordine e perspicuità, degli antecedenti; e gli espone nello stesso modo i concetti da descriversi. Il letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cangiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, tira come può, dalla lingua parlata alla scritta il concetto che ha ricevuto, lo corregge a suo modo, lo migliora, carica la mano, oppure smorza, omette anche, secondochè gli pare tornar meglio alla cosa: perchè, non c’è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere stromento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare a suo modo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non vien sempre fatto di dire tutto quello che vorrebbe; talvolta gli accade di dire tutt’altro: accade anche a noi, che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così conchiusa perviene alle mani del corrispondente, che egualmente non ha pratica [p. 63 modifica]dell’abbicì, egli la porta. ad un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela dichiara. Nascono delle quistioni sul modo di intendere; perchè l’interessato, fondandosi sulla cognizione dei fatti antecedenti, pretende che certe parole vogliano dire una cosa; il lettore, stando alla pratica ch’egli ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un’altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l’incarico della risposta: la quale, fatta al nodo della proposta, va poi soggetta ad una interpretazione simile. Che se, per giunta, il soggetto della corrispondenza è un po’ geloso, se vi si ha a trattare di affari segreti, i quali non si vorrebbe lasciare intendere ad un terzo, caso che la lettera andasse in sinistro; se, per questo riguardo vi si mette anche l’intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono ad intendersi fra loro come altrevolte due scolastici che da quattr’ore disputassero sulla entelechia: per non prender similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto.

Ora, il caso deí nostri due corrispondenti era appunto quello che abbiam detto. La prima lettera scritta in nome di Renzo [p. 64 modifica]conteneva molte materie. Da prima, oltre un racconto della fuga, più conciso d’assai, ma anche più malcomposto di quello che abbiam dato noi, un ragguaglio delle circostanze attuali di lui; dal quale, tanto Agnese quanto il suo turcimanno furono ben lontani di ricavare un concetto lucido e intero: avviso segreto, cangiamento di nome, essere sicuro, ma dovere star nascosto; cose per sè non troppo famigliari ai loro intelletti, e nella lettera, dette anche un po’ in cifra. V’era poi delle dimande affannose, appassionate, sui casi di Lucia, con dei cenni scuri e dolenti, intorno alle voci che n’erano venute fino a Renzo. V’erano finalmente speranze incerte, e lontane, disegni lanciati nell’avvenire, e intanto. promesse e preghiere di mantener la fede data, di non perdere la pazienza nè il coraggio, di aspettar tempo.

Passato un po’ di questo, Agnese trovò un mezzo fidato di far pervenire alle mani di Renzo una risposta, coi cinquanta scudi, assegnatigli da Lucia. Al veder tant’oro, egli non sapeva che si pensare; e, coll’animo agitato da una maraviglia e da una sospensione che non davan luogo a compiacenza, corse in cerca del segretario, per farsi interpretar la lettera, e aver la chiave d’un così strano mistero. [p. 65 modifica]

Nella lettera, il segretario d’Agnese, dopo qualche lamento sulla poca perspicuità della proposta, veniva a descrivere in un modo per lo meno altrettanto lamentevole, la tremenda storia di quella persona (così diceva); e qui rendeva ragione dei cinquanta scudi; poi scendeva a parlare del voto, ma per via di perifrasi, aggiungendo, con parole più dirette e spieganti, il consiglio di mettere il cuore in pace, e di non pensarci più.

Renzo, poco mancò che non se la pigliasse col lettore interprete: tremava, inorridiva, s’infuriava, di quel che aveva inteso, e di quel che non aveva potuto intendere. Tre e quattro volte si fece rileggere il doloroso scritto, ora intendendo meglio, ora divenendogli buio ciò che gli era paruto chiaro da prima. E in quella febbre di passioni, volle che il segretario desse subito mano alla penna, e rispondesse. Dopo le espressioni più forti che si possano immaginare di pietà e di terrore, pei casi di Lucia: a “scrivete,” proseguiva dettando, “che il cuore in pace io non lo voglio mettere, e non lo metterò mai; e che non sono pareri da dare a un figliuolo par mio; e che i danari io non li toccherò; che li ripongo, e li tengo in deposito, per la dote della giovane; che già la [p. 66 modifica]giovane ha da esser mia; e che io non so di promessa; e che ho ben sempre inteso dire che la Madonna c’entra, per aiutare i tribolati, e per ottener delle grazie, ma per far dispetto e per mancar di parola, non l’ho inteso mai; e che codeste non può stare; e che, con questi danari, abbiamo a far casa qui; e che, se adesso sono un po’ imbrogliato, l’è una burrasca che passerà presto.” E cose simili. Agnese, ricevè poi quella lettera, e fece riscrivere; e il carteggio continuò, al modo che abbiam detto.

Lucia, quando la madre ebbe potuto, non, so per qual mezzo, farle sapere che quel tale era vivo e in salvo. e avvertito, sentì un gran sollievo, e non desiderava più altro, se non che egli si dimenticasse di lei; o, per dir proprio la cosa appuntino, ch’egli pensasse a dimenticarla. Dalla sua parte, ella faceva, cento volte il giorno, una risoluzione simile riguardo a lui; e adoperava anche ogni mezzo, per mandarla ad effetto. Stava indefessamente al lavoro, cercava di attaccarvi tutto l’animo: quando l’immagine di Renzo le si presentava, ed ella a dire o a cantare orazioni colla mente. Ma quell’immagine, proprio come se avesse avuto malizia, non veniva per lo più, così alla [p. 67 modifica]scoperta; s’intrometteva di soppiatto dietro alle altre, in modo che la mente non s’accorgesse d’averla ricevuta, se non dopo qualche tempo ch’ella v’era. Il pensiero di Lucia stava sovente colla madre: come non vi sarebbe stato?; e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi in terzo, come il reale aveva fatto tante volte. Così con tutte le persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si veniva a ficcare. E se la poveretta si lasciava andar qualche volta a fantasticare nella oscurità del suo avvenire, anche lì egli compariva, per dire, se non altro: io, a buon conto, non vi sarò. Pure, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarvi manco, e manco intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia vi riusciva fino ad un certo segno. Vi sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma v’era donna Prassede, la quale tutta impegnata dal canto suo a torle dall’animo colui, non aveva trovato migliore spediente che di parlargliene spesso. “Ebbene?” le diceva: “non pensiamo più a colui?”

“Io non penso a nessuno,” rispondeva Lucia.

Donna Prassede non si lasciava appagare da una risposta simile; replicava che [p. 68 modifica]volevano esser fatti e non parole, si stendeva sul costume delle giovani, le quali, diceva ella, “quando hanno posto il cuore a uno scapestrato, (ed è lì che hanno proprio il pendìo) non ne lo vogliono più staccare. Un partito onesto, ragionevole, d’un galantuomo, d’un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte; son subito rassegnate; ma uno scavezzacollo, è piaga incurabile.” E allora cominciava il panegirico del povero assente, del ribaldo venuto a Milano, per metterlo a bottino e a macello; e voleva far confessare a Lucia le bricconerie che colui aveva fatte, anche al suo paese.

Lucia, colla voce tremante di vergogna, di dolore, e di quella indegnazione che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna, asseverava e attestava, che, al suo paese, quel poveretto non aveva mai fatto dire di sè, altro che bene; avrebbe voluto, diceva, che fosse presente un qualunque di là, per domandare il suo testimonio. Anche sulle avventure di Milano, nelle quali ella non poteva venire ai particolari, lo difendeva, appunto colla conoscenza che aveva di lui e de’ suoi portamenti fino dalla fanciullezza. Lo difendeva o si proponeva di difenderlo, [p. 69 modifica]per puro dovere di carità, per amore del vero e, a dir proprio la formola colla quale ella spiegava a sè stessa il suo sentimento, come prossimo. Ma da queste apologie donna Prassede traeva nuovi argomenti, per convincer Lucia che il suo cuore era tuttavia perduto dietro a colui. E per verità, in quei momenti, non saprei ben dire come la cosa fosse. L’indegno ritratto che la vecchia faceva del poveretto, risvegliava, per opposizione, più viva e più distinta che mai nella mente della giovane l’idea che vi s’era formata in una cosa lunga consuetudine; le memorie soffocate a forza, si svolgevano in folla; l’avversione e il disprezzo richiamavano tanti antichi motivi di stima e di simpatia; l’odio cieco e violento faceva sorgere più forte la pietà: e con questi affetti, chi sa quanto vi potesse essere o non essere di quell’altro che dietro ad essi s’introduce così facilmente negli animi; figuriamoci che cosa farà in quelli, donde si tratti di cacciarlo per forza. Comunque sia, il discorso, per la parte di Lucia, non sarebbe mai andato molto in lungo; chè bentosto le parole si risolvevano in pianto.

Se donna Prassede fosse stata mossa a trattarla a quel modo da un qualche odio inveterato contro di lei, forse quelle lagrime [p. 70 modifica]l’avrebbero vinta e fatta tacere; ma, parlando a fin di bene, toccava innanzi, senza lasciarsi smuovere: come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno ben rattenere l’arme d’un nemico, ma non il ferro d’un chirurgo. Fatto però bene il suo dovere per quella volta, dai rinfacciamenti e dalle bravate veniva alle esortazioni, ai consigli, conditi anche di qualche lode, per temperar così l’agro col dolce, e ottener meglio l’effetto, operando sull’animo in tutti i versi. Certo, di quelle batoste, (che avevano sempre a un dipresso lo stesso principio, mezzo e fine) non rimaneva alla buona Lucia propriamente astio contro l’acerba sermonatrice, la quale poi nel resto la trattava umanissimamente, e anche in questo, mostrava una buona intenzione. Le rimaneva bensì un ribollimento, una sollevazione di pensieri e d’affetti, tale, che ci voleva non poco tempo e molto travaglio, per tornare a quella qualunque calma di prima. .

Buon per lei, ch’ella non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicchè le batoste non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della famiglia, tutti cervelli che avevano bisogno, più o meno, d’essere raddirizzati e guidati; oltre tutte le altre occasioni che le si offrivano, o ch’ella sapeva [p. 71 modifica]trovare, di prestar lo stesso uficio, per buon cuore, a molti verso cui non era obbligata a niente, aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davano assai più da pensare, che se vi fossero state. Tre erano monache, due maritate; di che donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più ardua, che due mariti; spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, due badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, urbane fino a un certo segno, ma attive, sempre veglianti: era in ognuno di quei luoghi una attenzione continua a scansare la sua sollecitudine, a chiuder l’adito ai suoi pareri, ad eludere le sue inchieste, a far ch’ella fosse al buio, quanto si poteva, d’ogni faccenda. Non parlo dei contrasti, delle difficoltà ch’ella incontrava nel maneggio di altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza. Dove il suo zelo poteva esercitarsi e giucar liberamente, era in casa: ogni persona quivi era soggetta, in tutto e per tutto, alla sua autorità, salvo don Ferrante, col quale le cose andavano in un modo affatto particolare. [p. 72 modifica]

Uomo di studio, egli non amava nè di comandare nè di obedire. Che, in tutte le cose della casa, la signora moglie fosse la padrona, in buon’ora; ma egli servo, no. E se, richiesto, le prestava all’occorrenza l’uficio della penna, egli è perchè vi aveva il suo genio; del rimanente, anche in questo sapeva dir di no, quando non fosse persuaso di ciò ch’ella voleva fargli scrivere. “La s’ingegni,” diceva in quei casi; “faccia da sè, giacchè la cosa le par tanto chiara.” Donna Prassede, dopo d’aver tentato per qualche tempo invano di tirarlo dal lasciar fare al fare, s’era ristretta a brontolar sovente contro di lui, a nominarlo uno schifapensieri, un uomo di suo capo, un letterato; titolo nel quale, insieme col dispetto, entrava anche un po’ di compiacenza.

Don Ferrante passava di molte ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali egli era più o meno versato. Nell’astrologia, era tenuto a buon diritto per più che un dilettante; perchè non ne possedeva soltanto quelle nozioni generiche e quel vocabolario comune, d’influssi, di aspetti, di congiunzioni; ma sapeva parlare a proposito, e come [p. 73 modifica]in cattedra, delle dodici case del cielo, dei circoli massimi, dei gradi lucidi e tenebrosi, di esaltazione e di deiezione, di transiti e di rivoluzioni, dei principii in somma più certi e più reconditi della scienza. Ed erano forse vent’anni che, in dispute frequenti e lunghe, sosteneva la domificazione del Cardano contro un altro dotto attaccato ferocemente a quella dell’Alcabizio, per mera ostinazione, diceva don Ferrante; il quale, riconoscendo volentieri la superiorità degli antichi, non poteva però sofferire quel non voler mai arrendersi ai moderni, anche dove hanno evidentemente ragione. Conosceva anche, più che mediocremente, la storia della scienza; sapeva a un bisogno citare le più celebri predizioni avverate, e ragionar sottilmente ed eruditamente sopra altre celebri predizioni fallite, per dimostrare che la colpa non era della scienza, ma di chi non l’aveva saputa applicare.

Della filosofia antica aveva appreso quanto poteva bastare, e ne andava continuamente apprendendo di più, dalla lettura di Diogene Laerzio. Siccome però quei sistemi, per quanto sieno belli, non si può tenerli tutti; e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva scelto [p. 74 modifica]Aristotele, il quale, soleva egli dire, non è nè antico nè moderno; è il filosofo, senza più. Teneva anche varie opere de’ più savii e sottili seguaci di lui, fra i moderni: quelle de’ suoi impugnatori non aveva mai volute leggerle, per non gettare il tempo, diceva; nè comperarle, per non gettare i danari. Solo, in via d’eccezione, dava luogo nella sua biblioteca a quei celebri ventidue libri De sublilitate, e a qualche altra opera arti-peripatetica del Cardano, in grazia del costui valore in astrologia; dicendo che chi aveva potuto scrivere il trattato De restitutione temporum et motuum cœlestium, e il libro Duodecima geniturarum, meritava d’essere ascoltato anche quando spropositava; e che il gran difetto di quell’uomo era stato d’aver troppo ingegno; e che nessuno può immaginare dove sarebbe arrivato, anche in filosofia, se si fosse tenuto nella strada retta. Del rimanente, quantunque, nel giudizio dei dotti, don Ferrante passasse per un peripatetico consumato, pure a lui non pareva di saperne abbastanza; e più d’una volta ebbe a dire, con gran modestia, che l’essenza, gli universali, l’anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose tanto chiare, quanto si potrebbe credere.

Della filosofia naturale si era fatto più un passatempo che uno studio; le opere stesse [p. 75 modifica]di Aristotele su questa materia, le aveva piuttosto lette che studiate: non di meno, con questo, colle notizie raccolte incidentemente dai trattati di filosofia generale, con qualche scorsa data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium, plantarum, del Cardano, al Trattato dell’erbe, delle piante, degli animali, d’Alberto Magno, a qualche altra opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una brigata di colte persone, ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamentele forme e le abitudini delle sirene e dell’unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senz’ardere: come la remora, quel pesciatello, abbia la forza e l’abilità di arrestare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada divengano perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte si pascoli d’aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, coll’andare dei secoli, si formi il cristallo; ed altri dei più maravigliosi segreti della natura.

In quelli della magia e della stregoneria si era internato di più, trattandosi, dice il nostro anonimo, di scienza molto più in voga e più necessaria, e nella quale i fatti sono di [p. 76 modifica]ben’altra importanza, e si hanno più alla mano, da poterli verificare. Non occorre dire che, in un tale studio, egli non aveva mai avuta altra mira che d’istruirsi e di conoscere appunto le pessime arti dei maliardi, per potersene guardare, e difendere. E, colla scorta principalmente del gran Martino Delrio (l’uomo della scienza), era in grado di discorrere ex professo del maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio ostile, e delle infinite specie che, pur troppo, dice ancora l’anonimo, si veggono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malìe, con effetti così dolorosi.

Non meno vaste e fondate erano le sue cognizioni in fatto di storia, massime universale: nella quale erano suoi autori, il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana, il Guazzo, i più riputati in somma.

Ma che è mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica? Una guida che va e va, con nessuno dietro che impari la strada, e per conseguenza butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina senza guida. V’era dunque nei suoi scaffali un palchetto assegnato agli statisti; dove, tra molti di picciol sesto e di secondo grido, campeggiavano, il Bodino, il [p. 77 modifica]Cavalcanti, il Sansovino, il Paruta, il Boccalini. Due però erano i libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e d’un bel tratto, in questa materia; due che, fino ad un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a quale deí due convenisse unicamente quel grado: l’uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; birbo sì, diceva don Ferrante, ma profondo: l’altro, la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva egli pure, ma acuto. Ma, poco innanzi appunto al tempo nel quale è circoscritta la nostra storia, era venuto in luce il libro che terminò la quistione del primato, prendendo la mano anche sulle opere di quei due matadori, diceva don Ferrante; il libro in cui si trovano racchiuse e come stillate tutte le malizie, per poterle conoscere, e tutte le virtù per poterle praticare; quel libro scarso di mole, ma tutto d’oro; in una parola, lo Statista Regnante di don Valeriano Castiglione, di quell’uomo celeberrimo, di cui si può dire, che i più grandi letterati lo esaltavano a gara, e i più grandi personaggi facevano a rubarselo; di quell’uomo, che il papa Urbano VIII onorò, come è noto, di magnifici encomi; che il cardinal Borghese e il vicerè di Napoli, [p. 78 modifica]don Pietro di Toledo, sollecitarono a descrivere, il primo i fatti di papa Paolo V, l’altro le guerre del re cattolico in Italia, l’uno e l’altro invano; di quell’uomo, che Luigi XIII re di Francia, per suggerimento del cardinale di Richelieu, nominò suo istoriografo; a cui il duca Carlo Emanuele di Savoia conferì lo stesso uficio; in lode di cui, per tacere d’altre gloriose testimonianze, la duchessa Cristina, figlia del cristianissimo re Enrico IV, potè in un diploma, con molti altri titoli, annoverare “la certezza della fama che egli ottiene in Italia, di primo scrittore de’ nostri tempi.”

Ma se, in tutte le scienze suddette, don Ferrante poteva dirsi addottrinato, una ve n’era in cui meritava e godeva titolo di professore: la scienza cavalleresca. Non solo ne ragionava con vera padronanza, ma, richiesto sovente ad intervenire in affari d’onore, dava sempre qualche decisione. Aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tale materia: Paris del Puzzo, Fausto da Longiano, l’Urrea, il Muzio, il Romei, l’Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso, di cui aveva anche in pronto, e all’uopo sapeva citare a memoria, tutti i passi della [p. 79 modifica]Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che possono far testo in materia di cavalleria. L’autore però degli autori, nel suo concetto, era il nostro celebre Francesco Birago, con cui si trovò anche, più d’una volta, a dar giudizio sopra casi d’onore; e il quale, dal canto suo, parlava di don Ferrante in termini di stima particolare. E fin da quando venner fuori i ''Discorsi Cavallereschi'' di quell’insigne scrittore, pronosticò egli, senza esitazione, che quest’opera avrebbe rovinata l’autorità dell’Olevano, e sarebbe rimasta, insieme colle altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso ai posteri: profezia, dice l’anonimo, che ognun può vedere come si sia avverata.

Da questo passa egli poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare, se veramente il lettore abbia una gran voglia di andare innanzi con lui in questa rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividersi coll’anonimo sullodato, per averlo bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella quale probabilmente egli non s’è tanto disteso, che ad intento di sfoggiar dottrina, e di mostrare che non era indietro del suo secolo. Però, [p. 80 modifica]lasciando scritto quel che è scritto, per non perdere la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci nel cammino della storia: tanto più che ne abbiamo un buon tratto da percorrere, senza incontrare alcuno dei nostri personaggi, e un più lungo ancora, prima di trovar quelli ai di cui successi certamente il lettore s’interessa di più, se a qualche cosa s’interessa in tutto questo.

Fino all’autunno del seguente anno 1629, rimasero essi tutti quanti, qual di grado, quale per forza, nello stato a un di presso in cui gli abbiamo lasciati, senza che ad alcuno accadesse, nè che alcun altro potesse far cosa degna d’essere riferita. Venne quell’autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di ritrovarsi insieme; ma un grande avvenimento publico fe’ tornar fallito quel conto: e fu questo certamente uno de’ suoi più piccioli effetti. Seguirono poi altri grandi avvenimenti, che però non apportarono cangiamento notabile nella sorte dei nostri personaggi. Finalmente nuovi casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di loro, secondo la scala del mondo: come un turbine vasto, incalzante, vagabondo, sradicando alberi, arruffando tetti, strappando comignoli di torri, e sbattendone qua [p. 81 modifica]e là i rottami, solleva anche le festuche nascoste fra l’erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri, che un minor vento vi aveva confinate, e le porta attorno involte nella sua rapina.

Ora, perchè i fatti privati, che ci restano da raccontare, riescan chiari, ci conviene, anche qui, assolutamente premettere un racconto tal quale di quei publici, facendoci anche un po’ più da alto.