I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Fra gl'indiani

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Fra gl'indiani

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Un eroe persiano Il piccolo esploratore

FRA GL'INDIANI


Nell'America settentrionale ancora oggidì, non ostante le stragi commesse dalle truppe degli Stati Uniti durante le numerose e frequenti insurrezioni, vivono ancora non poche tribù di indiani, le quali conducono una esistenza assolutamente selvaggia.

Alcune, dopo tanti secoli di lotta spietata, si sono sottomesse e un po' civilizzate; parecchie altre, rifugiate presso i confini della Columbia, vivono di rapina e di caccia, sdegnando la coltivazione del suolo.

Come i loro antenati, quest'indiani, hanno conservato un odio profondo contro gli uomini di razza bianca, che a poco a poco hanno invasi i loro territori e decimate le tribù colle armi e con liquori, di frequente composti con veleni.

Guai adunque ai coloni che hanno la disgrazia di cadere nelle mani di quei feroci guerrieri! Il meno che possa toccare ai disgraziati che vengono presi, è di perdere la capigliatura, mutilazione atroce, spesso mortale, poiché assieme ai capelli gl'indiani strappano pure la pelle della testa.

Ciò nondimeno tutti gli anni, carovane composte d'uomini risoluti, s'avanzano sui territori di caccia degli indiani, fondando de' villaggi che più tardi diventeranno città.

Il suolo vergine di quei prati è d'una ricchezza favolosa. I raccolti riescono splendidi e abbondanti, i bestiami ingrassano rapidamente trovando colà praterie opulente e per di più la terra nasconde di frequente oro e argento in grande quantità.

Pochi anni or sono, una colonia di emigranti, dopo aver attraversato i territori bagnati dall'Atabasca e dai suoi affluenti, s'era spinta nelle regioni scorrazzate dagli indiani. Si componeva di dodici famiglie, con donne e fanciulli, e di parecchi carri di dimensioni gigantesche, tirati da dieci e perfino da dodici paia di buoi e di un gregge numerosissimo di montoni e di parecchi cavalli.

Trovata una località opportuna, gli emigranti s'affrettarono a erigere parecchie capanne riparandole con solide stecconate, sapendo già di dover affrontare presto o tardi i guerrieri indiani.

Ciò fatto, dissodarono parte della prateria, seminando granaglie e ortaggi, i quali, in quella terra, mai da nessuno sfruttata, in breve crebbero meravigliosamente.

L'esistenza della colonia pareva completamente assicurata. I montoni aumentavano rapidamente, trovando pascoli eccellenti, le mucche prolificavano straordinariamente ed i raccolti non potevano essere più abbondanti.

D'indiani, fino allora, nemmeno l'ombra.

Un giorno una lieta novella si sparge fra la piccola colonia; in un piccolo affluente dell'Atabasca sono state trovate, fra le sabbie, delle pagliuzze d'oro.

La febbre della ricchezza s'impadronisce di quel minuscolo popolo. Gli agricoltori disertano i campi e accorrono tutti a esplorare le sabbie del fiume, lasciando nel villaggio solamente le donne ed i fanciulli.

L'oro abbondava; il lavaggio delle sabbie dava una produzione sorprendente, perciò gli uomini non s'occupavano più né dei campi, né del villaggio.

Al mattino partivano in massa pel fiume e non facevano ritorno alle capanne che a notte molto inoltrata, dovendo percorrere non meno di quattro leghe.

Per un po' di tempo tutto era andato bene. Nessun indiano era apparso nelle vicinanze del villaggio, ma che quei feroci guerrieri, non si fossero già accorti della presenza di quei coloni, era da dubitarne.

Ed ecco infatti un mattino, apparire in lontananza una banda di cavalieri piumati. Venivano dal settentrione e non erano meno di duecento.

Non era possibile ingannarsi sulle loro intenzioni. Essi muovevano diretti verso il villaggio, coll'evidente intenzione di distruggerlo. Di certo avevano spiata la partenza degli uomini e sicuri di non trovare molta resistenza da parte delle donne, s'avanzavano certi della vittoria.

Uno spavento indescrivibile si era sparso nel villaggio. Come resistere a quei fieri uomini armati di lance, di scuri e di fucili?

Vi erano bensì delle armi da fuoco nel villaggio, ma non tutte le donne sapevano adoperarle.

Lo spavento aumentava di passo in passo che gl'indiani s'avvicinavano, le donne piangevano, i ragazzi strillavano e nessuno pensava alla difesa.

Fortunatamente si trovava nel villaggio un valoroso. Era questi Tom Lipp, figlio di uno dei più vecchi coloni, un bel pezzo di ragazzo, conosciuto da tutti per la sua bravura e per la sua audacia.

Non aveva che quindici anni, eppure un giorno aveva avuto il coraggio di affrontare un orso nero e d'ucciderlo con due moschettate.

– Io vi salverò – diss'egli, slanciandosi in mezzo alle donne.

– In qual modo, Tom? – gridarono quelle povere madri.

– Salgo a cavallo e mi reco al fiume ad avvertire i minatori del pericolo che ci minaccia.

– Gl'indiani ti uccideranno!

– Io tenterò egualmente la sorte – rispose Tom con voce risoluta. – Sì, non vi lascerò trucidare senza nulla aver fatto per impedirlo. Presto, chiudete le porte, levate i ponti e cercate di resistere fino al ritorno dei nostri padri e dei vostri mariti.

Il bravo giovane, quantunque sapesse di andare incontro ad una morte certa, balza sul miglior cavallo che si trova nel villaggio, afferra un fucile e si slancia nella prateria, deciso a sacrificarsi eroicamente per la salvezza di quelle donne e di quei fanciulli.

Aveva appena varcato il ponte che passava sul fossato, quando urla feroci scoppiano da tutte le parti; gl'indiani, accortisi delle intenzioni di Tom, staccano dieci uomini e li mandano dietro a lui coll'incarico di catturarlo o di ucciderlo prima che possa giungere al fiume.

La caccia in breve diventa furibonda. Tom Lipp, a cui preme di giungere al fiume e anche di salvare la propria pelle, frusta disperatamente il cavallo per guadagnare via o almeno per mantenere la distanza.

I dieci indiani, vociando ferocemente, si sforzano di raggiungerlo. Punzecchiano coi coltelli i loro cavalli e di tratto in tratto sparano qualche colpo di fucile che va a vuoto a causa delle disordinate scosse.

Il cavallo che Tom montava era uno dei migliori. Quasicché la brava bestia avesse compreso che la salvezza del giovane stava tutta nelle proprie gambe, divorava lo spazio con lena crescente.

Gl'indiani però possedevano pure dei buoni cavalli di prateria, e questi non rimanevano indietro, anzi uno, montato da un giovane guerriero che brandiva una lunga lancia, accennava a guadagnare via.

Tom, di quando in quando, si voltava per vedere se manteneva la distanza.

Quantunque fosse ben deciso di sacrificarsi pur di salvare le donne ed i fanciulli, cominciava a provare delle vive inquietitudini.

Se veniva preso prima di giungere in vista del fiume a che cosa sarebbe servito il suo ardito tentativo? I minatori nulla avrebbero saputo dell'irruzione degli indiani e al loro ritorno non avrebbero trovato che delle fumanti rovine e forse un ammasso di cadaveri.

Rianimando sempre il cavallo, Tom aveva già percorso più di mezza via, quando in lontananza udì alcune scariche.

– Gl'indiani hanno assalito il villaggio – mormorò. – Bisogna tentare un colpo disperato.

Si volse e vide che il giovane guerriero non distava che quindici passi. Ancora pochi minuti e lo avrebbe certamente raggiunto e ucciso con un buon colpo di lancia. Gli altri invece cominciavano a perdere terreno.

Tom non esitò più. Era riuscito un bravo bersagliere, avendo cominciato a cacciare per tempo. Fermò per un istante il cavallo e armò risolutamente il fucile.

Prima d'allora non aveva mai fatto fuoco contro un uomo. Il pensiero di dover uccidere quel giovane guerriero lo atterrì e gli fece tremare le braccia.

Non era però il momento di esitare. L'indiano gli si precipitava addosso colla lancia in resta, pronto a trafiggerlo.

– Dio mi perdoni – mormorò Tom.

E scaricò risolutamente il fucile.

L'indiano mandò un urlo di dolore e cadde di sella. Era stato però solamente ferito. Reso furioso pel dolore, scagliò la lancia contro l'avversario, colpendolo in una spalla. Il dolore provato da Tom fu tale, che per poco non stramazzò a terra. L'imminenza del pericolo infuse nel giovane eroe un coraggio disperato. Sentendosi venire meno, s'appressò al collo del cavallo, gridando:

– Avanti, Morello!

Il destriero aveva ripresa la corsa, sbalzando fra le alte erbe della prateria. Aveva già compreso, l'intelligente animale, dove voleva recarsi il suo giovane padrone e si dirigeva precisamente verso il fiume.

Il povero Tom intanto si sentiva venire meno le forze e la vista gli si oscurava.

Dalla ferita non grave, ma però molto dolorosa, il sangue gli sfuggiva in gran copia.

I nove indiani, quantunque fossero rimasti indietro, perseguitavano sempre accanitamente il fuggiasco, sperando di vederlo cadere da un momento all'altro. Sapendolo ferito contavano sull'indebolimento prodotto dalla perdita del sangue.

– Avanti, Morello, avanti – ripeteva il povero giovane, tenendosi disperatamente stretto al collo del veloce corsiero.

Già il fiume non doveva essere molto lontano, quando in mezzo alle alte erbe, si alzarono tre nuovi indiani.

Quei bricconi, sapendo che gli uomini si trovavano sulla riva del fiume, si erano imboscati in quel luogo onde impedire che qualche abitante del villaggio si fosse recato ad avvertirli.

– Ferma! – gridarono, slanciandosi verso Tom.

– Sono preso – mormorò questi.

Nondimeno volle tentare ancora la fuga. Fece volteggiare il cavallo e lo lanciò attraverso la prateria, cercando di dirigersi verso un bosco che si delineava all'orizzonte.

D'improvviso si udì uno sparo.

Il povero Morello, colpito nella testa da una palla, si drizzò sulle zampe posteriori, poi cadde su di un fianco, sbalzando il cavaliere a dieci passi di distanza.

L'erba, per buona ventura, era così folta, da smorzare completamente il colpo, sicché Tom poté quasi subito alzarsi senza aver riportata la più lieve contusione.

Prima che avesse potuto prendere il fucile, i tre indiani gli erano piombati addosso colle scuri in mano.

– Arrenditi, giovanotto! – gli gridò il più attempato dei tre guerrieri.

– Non ho alcuna arma per difendermi – rispose Tom. – Il mio fucile è rimasto sotto il mio cavallo. Cosa volete fare di me?

– Innanzi tutto ci dirai dove ti recavi.

– Andavo a caccia – rispose Tom.

– Tu menti, viso-pallido – disse l'indiano alzando minacciosamente la scure. – Tu andavi ad avvertire gli uomini che cercano l'oro sulle rive del fiume.

– Allora era inutile chiedermelo!

– Tu hai del coraggio, giovanotto.

– E me ne vanto.

– Vedremo però più tardi se ne avrai molto – disse l'indiano. – Ci dirai ora quanti uomini difendono il villaggio.

– Sono in cinquanta, e bene armati – rispose Tom. – Vi consiglio a non tentare nemmeno l'assalto.

– Ah! Tu lo credi? – disse l'indiano con un sorriso feroce. – Lo vedremo! Prendete questo giovanotto e conduciamolo al villaggio.

Essendo giunti anche gli altri nove indiani, il povero Tom fu legato per bene, piedi e mani, e coricato su un cavallo come fosse un sacco di stracci. Quei furfanti non s'erano nemmeno presa la cura di arrestargli il sangue che gli usciva ancora dalla ferita, sebbene in minor copia.

Gli indiani, dopo essersi brevemente consigliati, spinsero i cavalli al galoppo, dirigendosi verso il villaggio occupato dalle donne dei minatori.

Il povero Tom sia per la ferita, sia per la sua incomoda posizione e per la violenta scossa che gl'imprimeva il cavallo, soffriva assai, pure si guardava bene dal lamentarsi.

E teneva a mostrarsi forte dinanzi a quei selvaggi e poi sapeva che se si fosse mostrato debole e vile lo avrebbero certamente ucciso.

Quei fieri guerrieri disprezzano gli uomini che dànno segno di essere paurosi o di avere poco animo. Anche sottoposti alle più orribili torture, dimostrano un coraggio straordinario. Deridono i loro carnefici, li eccitano a raddoppiare le torture, li insultano e li chiamano uomini da poco perché non sanno trovare maggiori tormenti.

– Tu sei una femmina – diceva un giorno un guerriero sioux ad un indiano appartenente ad un tribù nemica, e che gli metteva delle micce solforate sotto le ascelle. – Tu non sai strappare un grido di dolore ad un uomo par mio. Noi, agli uomini della tua tribù che cadono nelle nostre mani, strappiamo le unghie.

Il carnefice esasperato e anche per spirito vendicativo, afferra una tenaglia e gli strappa le unghie.

– Stupido – rispose il torturato – credi tu che un guerriero sioux, possa provare un dolore? Agli uomini della tua tribù noi strappiamo gli occhi e al loro posto mettiamo dei carboni ardenti.

Il carnefice, manco a dirlo, si affretta a fare altrettanto collo sciagurato prigioniero; ma questo non perde la sua calma, non ostante l'atroce supplizio.

– Vile! – grida. – Io a tuo fratello ho aperto il petto e gli ho morso il cuore!

Poco dopo lo sciagurato esalava l'ultimo sospiro mentre il suo avversario, orribile a dirsi, gli mordeva il cuore.

Tom sapeva con quali fieri selvaggi aveva da fare e non ignorava la loro crudeltà; pure cercava di mostrarsi tranquillo, anzi si sforzava, quando gli si offriva il destro, a deriderli.

Dopo una buona ora il drappello giungeva dinanzi al villaggio.

I guerrieri indiani l'avevano circondato, però non avevano ancora osato a spingersi all'assalto, temendo che dietro le palizzate si trovassero parecchi coloni.

Le donne, spronate dall'esempio del giovane Tom e rese audaci dall'imminenza del pericolo, avevano barricato tutte le entrate e le più valorose avevano salutato la comparsa degli indiani con nutrite scariche di moschetteria, infliggendo al nemico già qualche perdita.

– Se continuano, terranno a bada gl'indiani fino all'arrivo dei minatori – disse Tom udendo quegli spari.

I suoi guardiani invece di arrestarsi al villaggio, lo condussero verso un bosco che si trovava a mezzo chilometro dalle palizzate difese dalle donne, lo gettarono ruvidamente al suolo e lo trascinarono in una grande tenda formata di pelli di bisonti cucite insieme e di forma conica.

Un vecchio indiano, d'aspetto feroce, col capo adorno di piume ed i calzoni abbelliti da capigliature strappate probabilmente ai nemici da lui uccisi, stava seduto su d'una pelle d'orso, stesa nel mezzo della tenda. Vedendolo entrare, il vecchio afferrò prontamente una scure che si trovava dinanzi a lui e l'alzò come si preparasse per fracassare la testa al prigioniero.

– Sei un ragazzo del villaggio? – gli chiese, guardandolo biecamente.

– Sì – rispose Tom, sforzandosi a mostrarsi calmo.

– Tu hai ucciso uno dei miei guerrieri.

– Io mi sono difeso.

– Bene – disse l'indiano. – Giacché tu, alla tua età, hai dimostrato tanto coraggio, io voglio farti dono della vita ad una condizione.

– A quale? – chiese Tom.

– Che tu costringa i difensori del villaggio ad arrendersi senza combattimento.

– Mai! – gridò il coraggioso ragazzo, con voce ferma. – Io mai commetterò una simile vigliaccheria.

Il vecchio indiano aveva rialzata la scure mentre un lampo di furore gli animava gli sguardi. Tom credette davvero che la sua ultima ora fosse suonata.

Invece, dopo una breve esitazione, l'indiano aveva lasciata ricadere la scure, dicendo:

– Ti costringeremo egualmente.

Pochi minuti dopo il povero giovane veniva attaccato sul dinanzi di un furgone e spinto verso le palizzate del villaggio. Dietro a quel riparo si erano nascosti venti o trenta indiani armati di lance, di scuri e di fucili.

Le donne, vedendo avanzarsi quel carro ed immaginandosi che dovesse servire di riparo agli assedianti, avevano ricominciato a scaricare le armi. Quando però nel giovane legato sulla cassa anteriore riconobbero Tom, subito cessarono.

– Tom! Tom! – gridarono tutte.

– Oh! Povero ragazzo!

– Lo hanno preso!

– Lo uccideranno!

– Tom! Salvati!

– Noi veniamo in tuo soccorso!

– Guardatevi! – gridò Tom con quanta voce aveva in gola. – Fate fuoco!

– Non vogliamo ucciderti!

– Dietro il carro vi sono gl'indiani – ripeté il valoroso. – Fate fuoco!

Le donne esitavano, temendo che le palle uccidessero il disgraziato giovane.

Gl'indiani intanto approfittavano per avvicinare sempre più il carro alle palizzate. Se vi potevano giungere, era forse finita pel villaggio.

Già il carro non distava che venti o trenta passi e gl'indiani si preparavano all'assalto, quando in lontananza si udirono delle urla e dei nitriti.

Un grido di gioia si alzò fra le donne:

– I nostri uomini!

Erano precisamente i minatori che si avanzavano a briglia sciolta pronti a dare addosso agli assedianti.

Come mai tornavano così presto, mentre di solito non abbandonavano le rive del fiume che dopo il tramonto del sole? Ecco come era stata la cosa. Un minatore, avendo scorto in un boschetto dei tacchini selvatici, li aveva inseguiti colla speranza di guadagnarci un buon arrosto. Avendoli veduti fuggire attraverso le alte erbe della prateria, si era slanciato dietro le loro tracce ed il caso lo aveva guidato là dove era caduto l'indiano ucciso da Tom.

Quella scoperta gli aveva fatto nascere dei gravi sospetti, tanto più che il selvaggio perdeva ancora sangue dalla grave ferita ricevuta. Molto inquieto era subito ritornato al fiume ad avvertire i compagni.

I minatori, temendo che qualche grave avvenimento fosse succeduto al villaggio, senza perdere tempo, erano saliti sui loro cavalli spingendoli a gran galoppo attraverso la prateria.

Non si erano ingannati sui loro timori. Gl'indiani si preparavano ad assalire il villaggio.

La loro improvvisa comparsa sgomentò i guerrieri dalla pelle rossa. Cercarono di far fronte a quei nuovi nemici; ma dopo alcune scariche si diedero a fuga precipitosa rifugiandosi nei loro inaccessibili deserti.

Quando Tom fu levato dal carro, non si reggeva più in piedi, a causa della grande perdita di sangue. La sua ferita non era grave ed una settimana di riposo fu più che sufficiente per guarirlo.

In memoria di quel suo atto eroico, i minatori gli regalarono un cavallo ed un fucile e le donne un vestito da cacciatore di prateria, filato dalle loro mani.

Ora Tom, che ha fatto fortuna sulle rive del fiume dalle pagliuzze d'oro, è uno dei più ricchi allevatori di bestiame.