I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Lo schiavo della Somalia (storia vera)

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Lo schiavo della Somalia (storia vera)

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Un dramma nel deserto L'uomo dei boschi

LO SCHIAVO DELLA SOMALIA

(storia vera)


– Una vela! All'armi!... In acqua il sambuco! Lesti!

Quel grido, lanciato con voce tuonante, si era alzato fra un gruppo di rocce che si spingevano verso il mare, formando la punta meridionale dell'isola di Socotra, situata nel vasto golfo di Aden.

In un baleno, da una quarantina di tuguri, nascosti dietro le scogliere, sbucò una moltitudine di brutti negri, alti, magri, con enormi turbanti in testa, con camiciotti corti, a righe rosse e bianche che lasciavano nude le gambe.

Erano armati di lunghi fucili con il calcio ripiegato, di sciaboloni, di scimitarre e di coltellacci.

– Dov'è questa vela? – chiedevano tutti, arrampicandosi come scimmie sulle scogliere.

– È uscita ora dallo stretto e s'avanza verso noi per girare il capo Guardafui – rispose colui che aveva dato l'allarme. – Non lasciamocela sfuggire; dev'essere ben carica.

Un negro di statura gigantesca, coi lineamenti feroci e che pareva il capo di quell'accolta di furfanti, gridò:

– Presto! In acqua il sambuco e preparate le armi. Faremo buona giornata.

I negri si erano precipitati come un solo uomo verso la spiaggia dove si vedeva arenata una di quelle grosse barche, fornita di vele immense, usate dai costieri del Mar Rosso e della Somalia, buoni velieri, che con un vento anche debole possono raggiungere delle velocità non comuni.

Era più lunga di quelle ordinarie, con la carena più stretta e armata di due cannoncini di buon calibro, caricantisi per la bocca, come la maggior parte delle artiglierie arabe.

Era già stata spinta in acqua, quando un moretto di tredici o quattordici anni, nero come un pezzo di carbone, dagli occhi grandi ed intelligentissimi, si precipitò fra gli arabi, gridando con voce affannosa:

– Fermate!... Taliani!... Taliani!... Miei benefattori! Miei...

Un manrovescio, datogli dal capo e che lo fece stramazzare pesantemente fra la sabbia, gli troncò la frase.

– Stupido! Miserabile schiavo! – gridò il capo. – Impazzisci, forse? Sali sul sambuco, se non vuoi che ti strigli il dorso col mio curbasc.

Il piccolo negro si era alzato coi lucciconi agli occhi, ripetendo con tono lamentevole:

– Taliani! Taliani! Io aver visto loro bandiera! Miei benefattori... no, quelli non toccateli.

Un calcio lo spinse verso il sambuco, accompagnato da una filza d'imprecazioni.

– Zitto, scimmia! Italiani o inglesi o turchi, noi non ci lasceremo sfuggire per te una così bella occasione. Lesti, tutti a bordo, e diamo la caccia a quella nave!

Il sambuco abbandonò a forza di remi la costa, a malgrado le incessanti proteste del piccolo negro e, appena fuori della scogliera, l'equipaggio spiegò le due immense vele, manovrando per modo da tagliare la via alla nave.

Era quella una piccola goletta che portava sulla cima dell'albero di maestra il vessillo tricolore e che pareva fosse diretta verso il capo Guardafui per poi sboccare forse nell'Oceano Indiano.

Doveva essere ben carica, essendo quasi tutta affondata e stentava a manovrare con quel debole vento che soffiava nel golfo di Aden.

Il sambuco che aveva uno sviluppo di vele superiore alla goletta, e che era anche assai più leggero, guadagnava a vista d'occhio, aiutato anche da una dozzina di remi manovrati da robusti marinari.

Il capo dei banditi, quel negro colossale, d'aspetto feroce, dopo d'aver ordinato di caricare i due cannoncini situati sulla prora, aveva comandato ai suoi uomini di stendersi dietro le murate e di non far fuoco se non erano prima certi di essere a buon tiro.

Il moretto, intanto, rannicchiato dietro l'albero di maestra, non cessava dal mormorare:

– Poveri taliani! Cattivi arabi!

E minacciava nascostamente col pugno quel briccone, digrignando i denti.

Accortasi delle manovre poco rassicuranti del sambuco, il quale dimostrava chiaramente di volerle tagliare la via, la goletta aveva fatto una bordata per tenersi lontana.

Il suo capitano doveva aver indovinato d'aver da fare con una barca di pirati che fino a poche settimane prima erano ancora numerosi nel Mar Rosso e nel golfo d'Aden, prima che le navi italiane infliggessero a quei predoni la severa lezione che ormai tutti sanno.

Per disgrazia, il vento era debole e anche non molto favorevole alla goletta. Si vedeva però che i marinari italiani, quantunque fossero pochissimi, sette o otto, si preparavano ad un'energica difesa.

Giunto il sambuco a breve distanza, il capitano italiano aveva imboccato il portavoce, gridando dall'alto del bastingaggio, in arabo:

– Che cosa volete?

– Ecco la risposta! – gridò il capo dei pirati, alzandosi rapidamente dietro la murata dove s'era tenuto fino allora nascosto.

Un colpo di fucile rimbombò tosto ed il povero capitano fu veduto portarsi ambe le mani al petto e poi stramazzare sulla coperta.

Il moretto aveva mandato un urlo di rabbia:

– Cani arabi!

La sua voce, per fortuna, era stata coperta da una violentissima scarica di moschetteria.

Gli arabi si erano smascherati e avevano aperto un fuoco terribile contro la povera nave coi due pezzi di cannone e coi loro lunghi fucili, tempestando le sue vele e le sue attrezzature.

I marinari italiani, quantunque fossero cinque volte inferiori di numero e non avessero nessun pezzo d'artiglieria, avevano subito risposto.

Non dovevano durarla a lungo contro forze così soverchianti. Dopo un solo quarto d'ora, gli alberi di maestra e quello di trinchetto erano caduti spaccati dalle palle dei due cannoni, ed una bomba aveva aperto, scoppiando, un largo foro, presso la linea d'acqua, facendo inclinare la nave sul fianco ferito.

Era il momento di abbordarli.

Il capo dei pirati, convinto che ormai ben pochi difensori si trovassero sulla goletta, non udendo in mezzo al fuoco che qualche raro colpo di fucile, ordinò d'impugnare le armi bianche e d'investire il veliero.

Il moretto aveva assistito impotente con le lagrime agli occhi, al massacro di quel pugno d'italiani, vomitando torrenti d'ingiurie contro quei predoni sanguinari.

Una collera terribile si era impadronita di lui, e voleva vendicare le vittime e impedire ai suoi feroci padroni di sterminare anche gli ultimi superstiti.

Ad un tratto, un'idea gli attraversò il cervello. Aveva veduto sulla coperta un pezzo di miccia da cannone ancora accesa, gettata inavvertentemente presso uno di quei barili di polvere che fornivano le munizioni ai due pezzi.

Balzare innanzi, raccoglierla, gettarla entro un barile e saltare in mare, fu l'affare d'un solo istante.

Un momento dopo, un lampo immenso balenava sul sambuco, seguìto da un rimbombo assordante che durò parecchi secondi.

Quando il moretto risalì a galla, la barca dei pirati, sventrata completamente dallo scoppio del barile di polvere, era scomparsa, ed assieme ad essa tutti i ladroni che la montavano.

Sulle acque, ancora agitate dallo scoppio, non erano rimasti che pochi rottami, pezzi d'alberi e di murate, frammenti di vele e qualche pezzo di fasciame.

– Tutti morti! – esclamò il moretto, che nuotava come un pesce fra i rottami del sambuco. – Taliani, miei benefattori, vendicati... Sadì Omar essere contento! Tutti inferno, cani arabi!

Vedendo a cinquanta metri la nave, la quale si era rovesciata su un fianco in causa del peso dei due alberi che erano caduti sulle murate, e anche in causa dell'acqua che doveva entrare dalla spaccatura prodotta dalla bomba, si diresse a quella volta, gridando nel suo fantastico italiano:

– Amico tutti taliani... non fare fuoco... Sadì Omar buon ragazzo...

Nessuno rispondeva. Si poteva credere che tutti i marinari fossero stati uccisi dalle ultime scariche degli arabi.

Il moretto, col cuore stretto dall'angoscia, si aggrappò ad un canapo che pendeva dall'albero di bompresso, e salì sulla coperta.

Un grido di dolore gli sfuggì. Sette uomini giacevano dietro le murate, tutti intrisi di sangue e crivellati di palle.

Un altro, un vecchio dalla barba quasi bianca, con un naso grosso e rosso come un peperone, si trovava sdraiato sul cassero e pareva che respirasse ancora.

– Poveri taliani! Canaglie arabi!

Si curvò sul vecchio marinaro e s'accorse che dava segni di vita. Non aveva ferite sul corpo; solamente sul capo aveva una larga laceratura, che pareva fosse stata prodotta più dalla caduta di qualche scheggia di pennone o di qualche carrucola, piuttosto che da una palla.

Sadì Omar prese ad un morto un fazzoletto, lo bagnò abbondantemente nella botte dell'acqua che sui velieri si trova a poppa, e lavò delicatamente la ferita, la quale mandava sangue in abbondanza.

Il marinaro, che doveva essere svenuto per l'intenso dolore provato, aprì quasi subito gli occhi.

Vedendo il moretto, fece un gesto come per impugnare una scure che si trovava a breve distanza, poi si arrestò subito, udendo il ragazzo gridare:

– Amico taliani! Non aver paura! Io essere qui venuto a guarirti!

– Chi sei? – chiese il vecchio, guardandolo con diffidenza – Come parli la mia lingua?

– Un povero schiavo di quei brutti cani di arabi. Io far saltare sambuco... Tutti morti i ladroni... tutti... tutti... Pum! Che colpo!

– Ah! Sei tu che hai mandato in frantumi quel sambuco! – esclamò il marinaro, stupito. – E perché hai ucciso tutti quei briganti del mare?

– Perché io essere amico dei taliani – rispose il moretto, mentre fasciava la ferita dell'ultimo superstite della goletta.

– Che cosa ti hanno fatto i miei compatrioti, per amarli?

– Mi avere liberato dalla schiavitù, uccidendo quelli che mi avere rubato a mio villaggio.

– E come sei caduto nelle mani di quei pirati?

– Mi avere fatto prigioniero, sei mesi fa, su di un sambuco somalo che doveva condurmi a Merca e affidarmi al governatore di quella città.

– Sei un somalo, tu?

– Sì, taliano, e mio padre era lo zio del Sultano On-Takor.

– Sei un bravo ragazzo – disse il marinaro commosso. – Nessuno, alla tua età, avrebbe avuto tanto coraggio. Peccato che il sambuco sia saltato troppo tardi. I miei compagni sono stati tutti uccisi, non è vero?

– Tutti morti, signore – rispose il moretto. – I pirati li hanno fulminati coi loro cannoni; ma sono in fondo al mare e non faranno più male a nessuno. Cani arabi! Cattive bestie!

Il marinaro si era alzato. La sua ferita, prodotta dalla caduta di un'antenna, era più dolorosa che pericolosa e si sentiva ancora in forze.

– Povero capitano e poveri compagni! – disse con voce triste, dopo di averli osservati a uno a uno e di aver constatato che erano veramente morti. – Che cosa farà ora il povero mastro Pappione, solo sulla Gorgona disalberata e quasi piena d'acqua?

– Esser anch'io, – disse il moretto, – ed esser pronto ad aiutarti, amico taliano.

– Non mi sarai di molto giovamento, mio bravo ragazzo – rispose il vecchio mastro. – La goletta fa acqua e non tarderà ad affondare; tutti i canotti sono stati sfondati dalle palle degli arabi.

– La costa della Somalia non essere lontana, ed io avere là amici e parenti. Noi salvarci, taliano.

– Vedremo – disse il mastro. – Orsù, non perdiamoci di coraggio. Diamo sepoltura ai morti prima che il sole li corrompa, poi cercheremo di raggiungere la costa somala che si comincia già ad intravedere.

La goletta, che i pirati arabi avevano assalita per saccheggiarla del suo carico, era una bella nave di trecento tonnellate e che avrebbe potuto navigare ancora lunghi anni, se le palle dei due cannoni non l'avessero ridotta in quel miserando stato.

Aveva lasciato il porto di Livorno un mese prima, con un carico svariato, composto per la maggior parte di chincaglierie, di terracotte, di vini e di liquori destinati ad alcuni negozianti italiani e greci di Merca, una delle principali cittadelle del nostro possedimento del Benadir.

Era partita con un equipaggio di otto uomini, tutti toscani, al comando di un valente capitano, il signor Mortello, un lupo di mare nel vero senso della parola e che aveva già fatto numerosi viaggi sulle coste della Somalia, sbarcando a Mogadiscio, a Merca ed a Brava.

La navigazione, attraverso il Mediterraneo prima ed il Mar Rosso poi, era stata felicissima, senza tempeste e senza pericolose raffiche, e la nave avrebbe certamente raggiunto Merca, senza il brutale attacco dei pirati, che era costato la vita a quasi tutto l'equipaggio.

Mastro Pappione, dopo aver gettato i cadaveri in mare, non senza lunghi sospiri, scese col moretto nella stiva per accertarsi se l'acqua aumentava e se vi era pericolo che la Gorgona affondasse prima di toccare la costa africana, verso cui veniva spinta da una corrente abbastanza forte.

La stiva era già mezza piena d'acqua, tuttavia dovette constatare con piacere che aumentava assai lentamente. Forse qualche cassa si era appoggiata contro lo squarcio prodotto dallo scoppio di quella maledetta bomba e ne rallentava l'entrata.

– Comincio a sperare – disse al moretto che lo guardava con ansietà.

– Arrivare costa? – chiese Sadì.

– Se potremo resistere tre o quattro ore, toccheremo terra.

Risalirono in coperta, entrambi soddisfatti della loro ispezione.

Un magnifico sole, già alto, versava torrenti di fuoco sul mare, ed il cielo era d'una purezza incredibile, senza la menoma nube.

L'isola di Socotra era già assai lontana e si distingueva vagamente, mentre la costa africana diventava sempre più visibile.

La corrente, che doveva essere rapidissima, spingeva la goletta in quella direzione.

Mastro Pappione ed il moretto ad ogni momento scendevano nella stiva per vedere se l'acqua saliva sempre. Tendendo gli orecchi la udivano gorgogliare fra le casse che erano quasi tutte sommerse e la vedevano aumentare a poco a poco.

La costa però era ormai prossima. Era una spiaggia arida, sabbiosa, con pochissimi alberi semibruciati dal sole equatoriale, senza capanne e senza abitanti.

In lontananza si scorgevano delle alture verdeggianti e poteva darsi che in mezzo a quelle piante si trovassero nascosti dei villaggi.

Il moretto, che la guardava attentamente, ad un tratto spiccò tre o quattro salti, mettendosi poi a ballare intorno a mastro Pappione.

– Ebbene, che cos'hai, ragazzo? – chiese il marinaro, sorpreso. – Sei diventato matto?

– Io conoscere quella costa! Sì, conoscere quelle tre montagne. Mio paese! Mio paese!

– Dov'è il tuo villaggio?

– Era là, fra le montagne.

– Sono felice che tu possa ritrovare i tuoi parenti, figliuol mio.

Il viso del moretto si era fatto improvvisamente triste.

– Miei parenti, – disse, – essere forse morti. Quando arabi cattivi giungere per fare schiavi, bruciato tutto villaggio. Bum! Bum! Fucili tanti e tanti morti.

– Chi sa che qualcuno dei tuoi non sia sfuggito alla strage, mio povero ragazzo!

– Io non sperare – disse il moretto con le lagrime agli occhi.

– Allora, mio caro, non andremo fino a quelle montagne. Cercheremo di tornare fra gl'italiani, se non ti spiace.

– Io amare taliani... sì, andare con taliani, miei benefattori.

– Il legname qui non manca – disse il mastro. – Costruiremo una zattera e cercheremo di ripassare lo stretto di Bab-el-Mandeb e di giungere ad Assab. Ti considero come mio figlio e ti condurrò con me. Lo vuoi?

– Taliani essere buoni; io ringraziare te come mio padre.

Un urto violento, che li fece cadere entrambi sul ponte, interruppe la loro conversazione.

Per alcuni istanti si udirono degli scricchiolìi, poi la poppa della goletta si sollevò, quindi lo scafo si rovesciò su un fianco con immenso fragore.

La Gorgona, trascinata dalla corrente, era naufragata tra le scogliere della costa, fracassandosi tutto il fianco destro.

– Non affonderemo più – disse mastro Pappione. – Già la Gorgona era ormai perduta e se non si arenava andava a fondo. Morettino mio, cerchiamo la colazione per ora, poi penseremo a costruirci una zattera. Il male è che temo che la dispensa sia rimasta sott'acqua e sarebbe una grave perdita per noi. Andiamo a vedere se possiamo trovare qualche cosa da porre sotto i denti.

Vi erano però ancora botti e casse in buon numero, piene forse di chincaglierie e di oggetti di scambio destinati ai mercanti di Merca e di Mogadiscio.

Il mastro cercò d'introdursi nella dispensa che si trovava a poppa e constatò, con dolore, che era invasa dall'acqua.

– Siamo fritti, mio povero moretto! – disse. – Che cosa metteremo ora sotto i denti?

– Non contenere viveri queste casse? – chiese Sadì.

– So che il capitano ha imbarcato un'infinità di cose affidategli dai negozianti di Livorno, ma non credo che vi sia roba pei nostri ventricoli.

Si era fermato dinanzi ad un'enorme cassa che era rimasta quasi interamente fuori dall'acqua. Sopra vi erano disegnate delle bottiglie.

– Per Bacco!... – disse, grattandosi il naso. – Se non troveremo da mangiare, avremo almeno da bere. Vediamo ciò che si nasconde qui dentro. Non avranno dipinto delle bottiglie per capriccio.

– Vedere altre casse con bottiglie, taliano caro.

– Le apriremo dopo.

Il mastro, che fiutava del vino toscano e dei liquori, prese il coltello e cominciò a schiodare le tavole.

Vi erano dentro bottiglie e pacchi e pacchetti in gran numero.

– Fulmine d'un fulmine! – esclamò, afferrando rapidamente una di quelle bottiglie. – Qui c'è un vero tesoro! È roba d'un nostro concittadino, del Vaccari! Roba fina che farebbe la fortuna d'una tribù di negri. Amaro Salus! Il mio liquore favorito! Nume d'un nume!... E questa bottiglia?... Liquore Galliano!

– E questa? – chiese il moretto, prendendo un'altra bottiglia.

Crema alla cioccolata! – lesse il mastro. – Un liquore che non ha rivali al mondo. Ti leccherai le dita, moretto mio, quando lo avrai assaggiato.

Decapitò una bottiglia di Salus e si mise a tracannare avidamente.

Aveva trovato il suo liquore favorito, quello che gli metteva indosso, diceva lui, una forza da leoni.

Aveva trangugiato tre o quattro sorsate del delizioso liquore, quando udì al di fuori delle grida.

– Fulmine d'un fulmine! – esclamò, impallidendo. – Chi viene a guastare la nostra colazione?

Entrambi si erano precipitati fuori senza abbandonare le bottiglie.

Quattro negri, sbucati non si sa di dove, stavano arrampicandosi sulla nave, approfittando dell'inclinazione dei fianchi.

Erano magrissimi, con grandi occhi che parevano di porcellana, con numerosi amuleti appesi al collo e alle braccia e quasi nudi, avendo solamente una pezzuola, d'un colore indefinibile, attorno ai fianchi.

Tutti e quattro erano armati di corte lance, specie di giavellotti che i somali scagliano con impareggiabile destrezza ad una distanza considerevole.

Vedendo i due marinari, si erano arrestati, osservandoli curiosamente e senza manifestare, pel momento, intenzioni ostili.

– Essere negri della montagna – disse Sadì, che li osservava attentamente.

– Sì, sono somali – rispose mastro Pappione. – Li riconosco dai loro lineamenti regolari e dai loro capelli che non sono cresputi come quelli degli altri negri. Li conosci?

– No – rispose il moretto.

– Cerchiamo di amicarceli o torneranno qui con altri e ci ammazzeranno come polli. Conosco anch'io un po' la loro lingua, essendo stato già parecchie volte a Merca, a Brava e anche a Obbia.

– Dare a loro bottiglie in cambio di viveri – suggerì il moretto.

– È quello che pensavo anch'io – disse mastro Pappione. – Quantunque la crema alla cioccolata del mio concittadino Vaccari non abbia eguali, non servirà per sfamarci.

Si avanzò verso i somali, tenendo in mano le due bottiglie, e fece a loro un discorsetto, che si riassumeva in una sola frase:

– Portateci da mangiare e vi daremo da bere.

I negri lo ascoltarono in silenzio, sorpresi, forse, che l'uomo bianco parlasse la loro lingua, poi allungarono le mani verso le due bottiglie.

Il mastro, che voleva mostrarsi generoso e che desiderava amicarseli, gliele offerse di buon grado, sperando di avere in cambio un po' di datteri e della dura, che è una specie di frumento coltivato dai somali.

I negri annusarono il contenuto delle bottiglie, facendo smorfie da macachi, poi si provarono ad assaggiare i liquori, mostrando la loro contentezza con scoppi di risa.

Ad un tratto, però, si lasciarono cadere sulla spiaggia e fuggirono a gambe levate in mezzo alle sabbie, lasciando il mastro ed il negretto con un palmo di naso.

– Fermatevi, bricconi! – urlò Pappione, che ci teneva a non lasciarsi corbellare.

Era fiato gettato al vento. I quattro negri, che correvano come lepri, erano scomparsi in mezzo alla duna con le bottiglie.

– Negri cattivi, quelli – disse Sadì. – Non essere amici dei taliani.

– Contenessero del veleno quelle bottiglie, anziché il Salus ed il Galliano! – gridò mastro Pappione, furioso.

– Non arrabbiare, noi avere molto ancora nella cassa.

– Maledetti ladroni! Non mi piace lasciarmi beffare! – gridò il mastro. – Spero che non saranno negri della tua tribù.

– Parlare stessa lingua – rispose Sadì.

– Lasciamo quei bricconi e pensiamo alla colazione. Possibile che non possiamo trovare nemmeno un biscotto? Aspetta, morettino mio.

Il mastro corse sotto prora, nella camera dell'equipaggio e frugò le casse dei suoi camerati. Poco dopo ricompariva, mostrando con aria trionfante alcune gallette che aveva scoperte nella branda del timoniere.

Le divise col negretto e, seduti sul boccaporto, le sgretolarono, bagnandole con la crema alla cioccolata e col Galliano.

– Ora, – disse il mastro quand'ebbero finito, – pensiamo a costruire una zattera. Non mi fido dei tuoi compatrioti, i quali potrebbero tornare in buon numero a farci la pelle. Tu sei un bravo ragazzo, ma gli altri! Hum! Non sono mica tutti amici dei taliani, come dici tu.

Il moretto sorrise, trovando il ragionamento più che logico.

– Prendi una scure e seguimi – disse il mastro, messo in buon umore dalla crema alla cioccolata e dal Galliano.

Legname ve n'era ad esuberanza, senza demolire il corpo della nave. Gli alberi ed i pennoni erano più che sufficienti per costruire un galleggiante, e la tela per fare una vela non mancava.

Il mastro ed il moretto, lavorando gagliardamente di scure, avevano già spaccato l'albero di trinchetto quando udirono in distanza un rullare precipitoso.

– I negri! – aveva gridato il negretto spaventato.

– Corri nella cabina del capitano e portami un fucile. Ve ne devono essere alcuni – disse il mastro.

Attraverso la landa sabbiosa s'avanzava un grosso drappello d'uomini, preceduto da alcuni suonatori, che percuotevano con una mazza di legno certe specie di tamburini scavati nel tronco d'un albero.

In mezzo al gruppo, su di un palanchino, formato di canne, e portato da quattro robusti negri, si vedeva un uomo di alta statura, molto abbronzato e avvolto in un manto di lana bianca.

– Dev'essere qualche capo o qualche sultanello – disse mastro Pappione con inquietudine. – Che quei negri vogliano farci prigionieri?

– Essere molti, cinquanta – disse il negretto. – Come resistere se vorranno prenderci? Ah, cattivi negri! Faremo quello che potremo.

I negri non pareva che avessero, però, cattive intenzioni. Anzi, s'avanzavano, cantando, intorno al palanchino con dimostrazioni di gioia.

Giunti sulla spiaggia, il sultanello si fece deporre a terra, poi si avanzò verso la nave e, volgendosi al mastro, gli chiese:

– Sei tu il possessore di quel magico liquore, che hai regalato ai miei uomini? Io l'ho assaggiato e non ne ho bevuto mai di così delizioso. Se puoi fornirmene dell'altro, io ti darò tutto quello che vorrai e ti prometto di aiutarti onde tu possa tornare nella tua patria per mandarmene un carico.

Mastro Pappione stava per rispondere, quando vide il moretto slanciarsi sulla spiaggia, aprirsi impetuosamente il passo fra i somali stupiti, e precipitarsi fra le braccia d'un uomo, che reggeva un ombrello di seta rossa per riparare il Sultano dal sole.

– Ubali! Ubali! – gridava, ridendo e singhiozzando ad un tempo.

Il negro aveva gettato via l'ombrello e aveva abbracciato il ragazzo, manifestando una gioia indescrivibile.

– Fulmine d'un fulmine! – esclamò il mastro. – Pare che il mio moretto abbia trovato qualcuno dei suoi. In tal caso tutto andrà pel meglio.

Sadì tornava, correndo verso la goletta, seguìto dal negro, gridando:

– Parente! Parente!... Non temere più, taliano! Amici! Tutti amici!

– Se sono amici, facciamoli bere – disse il mastro.

Scese rapidamente nella stiva, empì di bottiglie una cesta e si diresse verso il Sultano, dicendo:

– Sono tutte per te e per i tuoi guerrieri. Bevi liberamente ché ve ne sono delle altre.

Grida di gioia salutarono quell'inaspettata distribuzione. Il Sultano aveva gettato la sua zagaglia, imitato subito dai suoi uomini.

Mentre i somali decapitavano coi loro coltelli le bottiglie, vuotandole avidamente, il marinaro aveva raggiunto Sadì, che piroettava intorno al negro come se fosse improvvisamente impazzito.

– Ebbene, moretto mio, chi hai trovato dunque?

– Zio! Zio! Tutti morti mio villaggio, tutti bruciati... solo zio salvato correndo, correndo... Amico Sultano... tutti amici boni... noi non correre pericolo no, taliano, nessuno.

– Benissimo! – disse mastro Pappione. – Tu sei un ragazzo prezioso. È già la seconda volta che mi salvi la vita.

Sadì, che pareva avesse l'argento vivo in corpo, era già corso dal Sultano, prostrandosi dinanzi a lui ed impegnando una vivace discussione. Nessun dubbio che il bravo ragazzo perorasse per il suo amico, il buon mastro Pappione, perché il sultanello, dopo averlo ascoltato attentamente, fece segno al marinaro di accostarsi.

– Tu, – gli disse, – appartieni ad una nazione che è amica dei negri e da questo istante sei mio amico. Giacché vuoi tornare al tuo paese io ti darò un sambuco montato dai miei uomini, i quali ti condurranno fino alla costa araba. Giurami, però, che quando sarai tornato fra i tuoi, mi manderai un carico di queste squisite bottiglie, delle quali ormai non saprei più fare senza, e ti farò un bel regalo.

– Ti prometto tutto quello che vuoi, – rispose mastro Pappione, – ed il moretto resterà con te?

– No, desidera di tornare fra gl'italiani; te lo lascio onde lo regali all'uomo bianco che fabbrica quel buon liquore.

– Vedremo se il signor Vaccari lo vorrà – mormorò mastro Pappione, assai imbarazzato. – In caso di rifiuto lo terrò io! È così gentile e così intelligente! Ne farò un bravo marinaro.

La sera stessa sulla riva giungeva un bel sambuco che il Sultano aveva fatto venire appositamente da Handah affinché conducesse il marinaro ad Aden, che era il porto più vicino.

Per ordine del piccolo monarca, la navicella era stata caricata d'ogni ben di Dio, per testimoniare la sua amicizia verso l'uomo bianco.

Volle però fare di più. Nel momento in cui mastro Pappione e Sadì s'imbarcavano, diede al primo una borsa di pelle assai gonfia, dicendogli:

– È piena di polvere d'oro e te la do perché mi mandi delle altre bottiglie. Ed ora va' con Dio.

Cinque giorni dopo, mastro Pappione ed il negro sbarcavano ad Aden, dove prendevano subito posto sul primo piroscafo in partenza per l'Italia.

Mastro Pappione ha mantenuto scrupolosamente la promessa. Il moretto fu consegnato al suo concittadino, che ha mandato al sultanello un bel carico di Salus, di Galliano, e di crema alla cioccolata e ci ha fatto anche un buon affare per soprammercato.

Oggi mastro Pappione non naviga più e si vede sovente dal suo concittadino Vaccari a bere Salus a tutto pasto in riconoscenza di quelle bottiglie che l'hanno così miracolosamente salvato dalla schiavitù e fors'anche dalla morte.

Sadì Omar è ora un giovanetto, felice e contento del suo nuovo stato; il buon signore che lo ebbe, volle che la sua figura slanciata fosse impressa come marca di fabbrica dei suoi prodotti squisiti, ed il moretto sta là, quasi a dire:

Taliani carissimi, sono fra voi per il merito e la bontà di questi liquori; bevetene sempre, e, ricordando la mia giovinezza avventurosa, non dimenticate Sadì oggi chiamato da tutti: Il moro del Vaccari.