I sette a Tebe/Terzo canto intorno all'ara

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Terzo canto intorno all'ara

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Eschilo - I sette a Tebe (467 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1922)
Terzo canto intorno all'ara
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TERZO CANTO INTORNO ALL’ARA


Strofe I
Pavento io, che la Diva, a niuno eguale
dei Celesti, che stermina
le progenie, del male
profetessa verace, l’imprecatrice Erine,
del dissennato Edipo non effettui
le fiere imprecazioni; e la discordia
sospinge i figli a esiziale fine.

Antistrofe I
Distributore dei dominî aviti
è lo straniero càlibo1,
colono degli Sciti,
il crudo ferro, amaro compartitor di beni,
che a ciascun d’essi tanta terra prodiga
quanta la spenta loro spoglia n’empia,
orbato ognun degli ampli suoi terreni.

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Strofe II
Quando, con mutua strage,
con mutuo scempio, essi trafitti cadano,
e sorbito abbia la terrestre polvere
il sangue sparso in livida compage,
chi mai riscatto, espïazione, porgere
potrebbe? Ahi, nuovi della casa affanni,
commisti a quelli antichi ormai negli anni!

Antistrofe II
Parlo del fallo antico
di Laio, a cui seguia la pena súbita,
ma su la terza stirpe ancora indugia.
Il Nume Apollo a lui, dall’umbilico
della terra, ove surge il pitio oracolo,
tre volte ripetea che la città,
se muoia orbo di prole, ei salverà.

Strofe III
Ma degli amici alle parole improvvide
cede’ poi vinto, e al suo fatal destino
diede la vita: ad Èdipo,
che fu del genitor suo l’assassino,
che il campo seminando ond’ebbe origine,
una progenie a sanguinosi eventi
sacra die’ a luce: insania
i due consorti strinse, ambi dementi.

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Antistrofe III
Un estuare di sciagure, simile
ad un mar, li sospinge. Un flutto piomba,
s’erge un altro, con triplice
artiglio: un terzo avvolge con gran romba
della città la poppa. A schermo tendesi
poco la torre entro l’immensità.
Ond’io nel cuore trepido
che coi suoi re sprofondi la città.

Strofe IV
Esito avran per essi le molteplici
imprecazioni avite: e poi che giunsero,
i rovinosi guai tardi dileguano.
Allor che aggrava troppa
dovizia il legno, debbono
lunge scagliarla i nauti da la poppa2.

Antistrofe IV
Or, qual mortale mai tanto onorarono
i Numi, o quelli che partecipavano
le sacre are di Tebe, o le molteplici
umane stirpi, quanto
Edipo, che fe’ libera
la patria sua dall’omicida incanto?

Strofe V
Ma reso conscio il misero

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dei nefandi sponsali,
con dissennato spirito,
male reggendo l’impeto
del cordoglio, due mali
compiva. Con la man che il padre uccise,
sé dalle care luci in bando mise;

Antistrofe V
e contro ai figli proprî,
per martirio di fame,
imprecazioni orribili
avventò: che il retaggio
con le omicide lame
compartissero. Onde or n’empie sgomento
che l’Erinni affrettar voglia l’evento.



Note

  1. [p. 353 modifica]I Calibi erano una tribú scitica famosa per la lavorazione del ferro. La spada — dice qui il poeta — distribuirà fra loro i ferri aviti: cioè, darà ad ognuno, dopo averlo ucciso, tanto di terra quanto basti a seppellirlo.
  2. [p. 353 modifica]Con questa allegoria si riafferma l’antico pregiudizio che l’invidia dei Numi si aggrava sui mortali troppo felici; e che questi possono evitarla sottoponendosi a qualche sacrificio.