I solitari dell'Oceano/13. Gli antropofagi

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13. Gli antropofaghi

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CAPITOLO XIII.

Gli antropofagi.


Una piroga scavata probabilmente nel tronco di qualche enorme cedro, lunga dodici metri e larga quasi due, imboccava in quel momento il canale che metteva nella baia. [p. 92 modifica]

Era montata da tredici selvaggi, quasi interamente nudi. Dodici remigavano e l’ultimo, forse un capo, stava seduto a poppa tenendo un lungo remo che doveva servirgli da timone.

Scorgendo la nave, quei selvaggi si erano arrestati a circa quattrocento metri dalla poppa, facendo atti di stupore e mandando acute grida.

— Che siano sudditi di Tafua? — si chiese l’argentino.

— Invitiamoli ad accostarsi, — disse Cyrillo. — Non sono che tredici e abbiamo il cannone in batteria. —

Sao-King, senza nemmeno aspettare l’ordine, era salito sul coronamento di poppa e agitava uno straccio bianco, facendo contemporaneamente dei gesti amichevoli.

I selvaggi dopo una lunga conferenza avevano ripresi i remi, avanzandosi verso la nave. Procedevano però con diffidenza, arrestandosi ogni quindici o venti metri come per consigliarsi prima di accostarsi definitivamente.

Giunti a mezzo gomena, avevano ritirati i remi impugnando i loro archi di manghiero colle corde di scorza fibrosa dell’olonga ed incoccando le frecce di canna colle punte di legno duro di casuarena.

Erano tutti begli uomini, essendo la razza polinesiana di gran lunga superiore a quelle malese ed all’australiana.

Avevano la statura alta, la corporatura ben fatta, largo il petto e muscolose le membra. I loro volti ovali, i loro occhi bellissimi ed i loro lineamenti poco dissimili da quelli della razza caucasica, nulla avevano di selvaggio nè di feroce.

Anche la loro pelle d’una tinta un po’ oscura a riflessi rossicci non era spiacevole.

Erano tutti quasi nudi, non avendo che un perizoma di fibre di moro papirifero che nascondeva malamente le loro anche e pochi braccialetti di conchigliette bianche e di peli di cane intrecciati.

Solamente quello che stava al timone portava una specie di mantello formato di fibre legnose e dipinto di rosso.

Vedendo che gli uomini della nave continuavano a fare segnali d’amicizia, dopo qualche minuto deposero gli archi e le frecce e si spinsero fino sotto la poppa, legando la loro piroga ad una fune che Ioao aveva calata.

Sao-King si provò ad interrogarli nella lingua che aveva imparata dal capo Tafua.

— Da dove venite?

— Da Hifo, — rispose colui che pareva il capo.

— Dove si trova quel villaggio?

— A tre ore da qui.

— Conosci il capo Tafua?

— Sì, — rispose il selvaggio. — Noi siamo suoi sudditi.

— Noi siamo suoi amici. — [p. 93 modifica]

Il selvaggio fece un gesto di stupore, poi riprese con un sorriso che mise in mostra i suoi denti acuti come quelli d’una tigre.

— Siete venuti a portare del ferro?

— Sì, — rispose Sao-King.

— Un uomo che comandava a tanti uomini bianchi che montava una grande piroga simile alla vostra, ne aveva promesso molto per fabbricare punte di frecce e di lance.

— Io sono quello, — disse Sao-King, senza esitare, quantunque non avesse mai promesso nulla. — Sali sul nostro vascello e te ne faremo vedere tanto e ti daremo anche da mangiare.

Il capo della piroga interrogò i suoi compagni in una lingua sconosciuta, poi riprese:

— Non mi mangerete?

— Gli uomini bianchi non hanno mai mangiata carne umana, — rispose Sao-King. — Noi invece ti daremo dei regali. —

Il selvaggio rassicurato da quelle parole ed incoraggiato da quelle promesse, s’aggrappò alla fune e con un’agilità da quadrumane si issò fino sul coronamento di poppa.

Quell’isolano era il più alto ed il più nerboruto di tutti quelli che montavano la piroga.

Numerosi tatuaggi gli coprivano buona parte del petto, disposti in varie linee ed aveva il naso traforato da una spina di pesce lunga una diecina di centimetri.

Si fermò un momento sulla murata, guardando con stupore il ponte della nave ed i compagni di Sao-King, poi saltò leggermente sul cassero.

Suo primo atto fu quello d’accostarsi al cannone, dicendo:

— Bum! Io conosco questi grossi fulmini.

— Dove ne hai veduti di eguali? — chiese Sao-King.

— Su di una nave naufragata, molti anni or sono, sulle coste meridionali di Vavau.

— Ed i suoi marinai si sono salvati? —

Il selvaggio lo guardò sospettosamente, poi fece un movimento colle mascelle molto significativo.

— Sono stati mangiati, — disse l’argentino, mentre un brivido gli correva per le ossa. — Questo briccone s’è spiegato abbastanza.

— Domandiamogli se vi sono degli uomini bianchi su queste isole, — disse Cyrillo. — Forse sapremo chi sono i nostri misteriosi nemici.

Sao-King interrogò il selvaggio.

— Degli uomini bianchi! — esclamò il capo. — Sì, ve ne sono alcuni.

— Dove? — chiese ansiosamente il chinese.

— A Vavau.

— Quanti?

— Non lo so.

— Quando sono giunti? [p. 94 modifica]

— Da molto tempo.

— Perchè sono stati risparmiati?

— Hanno portato del ferro.

— Sono giunti su una grande piroga grossa come questa?

— Sì, — rispose il selvaggio, dopo un momento di esitazione.

— È naufragata la loro nave?

— Lo credo.

— E su Pagai-Modu non ne hai veduti?

— Mai, — rispose il capo prontamente.

— Eppure ieri sera uno di quegli uomini bianchi ha tentato di salire sulla nostra nave. —

Il selvaggio guardò il chinese per qualche istante, poi disse:

— Io non so nulla; a Pagai-Modu non ho mai veduto uomini bianchi.

— Su queste coste vi è qualche villaggio?

— Sì, quello di Hapai.

— Lontano?

— È in mezzo ai boschi, laggiù, — disse il capo, indicando le coste meridionali dell’isola. — Anzi i suoi abitanti sono in guerra con Tafua.

— Per quale motivo?

— Gli hanno mangiato un figlio.

— E tu...

— Basta, — disse il capo. — Tu mi hai promesso del ferro e non me lo hai ancora dato ed i miei uomini hanno fame.

— Diamo a loro da mangiare, — disse l’argentino, dopo d’aver udita la traduzione di quelle parole. — Poi torneremo ad interrogarlo.

— E cercherò d’indurlo a trasportarmi da Tafua, — disse Sao-King.

— Ti fidi di questo antropofago? — chiese Cyrillo.

— Sapendo che io sono amico di Tafua non oserà toccarmi, — rispose il chinese.

— Ed io ti accompagnerò, — disse Ioao. — In due correremo minor pericolo. —

Vuotarono una cassa contenente alcune dozzine di biscotti che offersero al selvaggio.

Questi appena li vide, ne afferrò avidamente uno, stritolandolo come fosse un semplice crostino, poi ne gettò alcuni ai suoi uomini rimasti nella piroga.

Sao-King che voleva amicarselo, gli offrì anche un pezzo di prosciutto salato e mezza bottiglia di aguardiente, mentre l’argentino portava in coperta vari pezzi di ferraccio che facevano parte della zavorra.

L’antropofago non si era mai trovato ad un così lauto pranzo.

I suoi denti, duri come l’acciaio, sgretolavano i biscotti con una ingordigia prodigiosa e strappavano grossi pezzi dal prosciutto. [p. 95 modifica]

La mezza bottiglia poi fu vuotata in una sola sorsata.

— Che voracità! — esclamò Ioao. — Può fare il paio con uno squalo. —

Mentre il capo divorava, Cyrillo, l’argentino e Sao-King, discutevano animatamente sul da farsi e sulle risposte ottenute.

Quello che maggiormente li preoccupava era la presenza di quegli uomini bianchi.

Chi potevano essere? Da dove erano giunti? Erano stati essi a tirare in secco la nave, oppure gli abitanti di Hapai? E chi era quell’inglese che aveva staccate le catene delle ancore?

— In conclusione, — disse l’argentino, — sembra che il capitano Carvadho non sia approdato qui e che non abbiamo da fare coi suoi bricconi. Il selvaggio ha parlato d’una nave, mentre l’equipaggio montava delle scialuppe.

— Che gli uomini bianchi che si trovano a Vavau siano dei forzati? — chiese Cyrillo. — Se non fossero tali, quell’inglese non ci avrebbe staccate le ancore per mandare la nave sul banco.

— Lasciatemi andare da Tafua a cercare aiuti e tentiamo di abbandonare questi paraggi presto, — disse Sao-King. — Se quegli uomini bianchi sono forzati, non possiamo attenderci che delle brutte sorprese.

— Vuoi tentarlo? — chiese Vargas.

— Sì, — rispose il chinese con accento risoluto.

— Sia.

— Ed io verrò con te — disse Ioao.

— Fratello! — esclamò Cyrillo.

— Questi selvaggi non mi fanno paura, — rispose il coraggioso giovane. —

Tornarono dal selvaggio, il quale stava esaminando i suoi pezzi di ferro e Sao-King gli fece la proposta di condurlo da Tafua.

— Sì, purchè mi regali uno dei tuoi coltelli, — rispose il capo. — Le nostre scuri di pietra tagliano male gli arrosti umani.

— Te ne darò due, — rispose Sao-King, — e quando mi ricondurrai qui avrai uno di quei tubi che mandano fiamme e che tuonano.

— E m’insegnerai ad adoperarlo! — chiese il selvaggio con un sorriso crudele.

— Te lo prometto.

— Allora ucciderò il capo Horo e lo mangerò.

— Farai ciò che vorrai, — disse Sao-King. — Però t’avverto che se alzerai una mano su di noi, ti fulmineremo.

— Ho troppo paura delle vostre armi.

— Partiamo, — disse il chinese, risolutamente. — Domani se nulla succede, noi saremo di ritorno con Tafua ed i suoi guerrieri. —

Il commissario, più commosso di quanto dava a vedere, aveva abbracciato il giovane Ioao, tenendoselo lungamente stretto al petto. [p. 96 modifica]

— Io tremo per te, — gli disse. — Non vorrei vederti a partire.

— Sao-King è valoroso, Cyrillo, — rispose il giovane. — D’altronde rimanendo qui non riusciremo mai a rimettere in acqua l’Alcione. Corri forse più pericolo tu che noi.

— Abbiamo i due cannoni, Ioao.

— Forse quei cattivi uomini bianchi hanno fatto dei sinistri progetti sull’Alcione.

— Veglieremo. —

Si strinsero la mano un’ultima volta, poi il giovane, salutato l’argentino, varcò la murata lasciandosi scivolare lungo la fune.

Il chinese lo aveva già preceduto portando due moschetti, due scuri, munizioni abbondanti e parecchie cianfrusaglie da regalare a Tafua.

Il capo della piroga aveva fatto un cenno ai suoi uomini ed i remi si erano tuffati.

Cyrillo e l’argentino, dall’alto del cassero, seguivano cogli sguardi i loro compagni, già lontani. Entrambi erano in preda ad una viva commozione.

Sao-King e Ioao invece parevano tranquilli e fidenti nel buon esito della loro missione.

Si erano seduti a prora, tenendo i moschetti fra le ginocchia, pronti a servirsene al primo indizio di pericolo.

I tonghesi, curvi sui banchi, arrancavano con vigore, facendo scivolare rapidamente la piroga.

Usciti dal canale, si erano accostati alla spiaggia di Pagai-Modu, tenendosi ad una trentina di metri dalle prime punte corallifere.

L’acqua era tranquilla, essendo protetta da una doppia fila di scogliere madreporiche e d’una limpidezza tale da poter distinguere nettamente il fondo della baia.

Miriadi di pesci dai colori brillanti, fuggivano dinanzi alla veloce piroga, descrivendo fulminei zig-zag, e celandosi fra i crepacci delle madrepore, mentre più sotto dei grossi polpi allungavano le loro braccia irte di ventose.

Sulla fina sabbia del fondo si vedevano apparire truppe di chaetodintidae di forme strane e dalle tinte smaglianti, rosse, verdi gialle e nere; dai buchi delle madrepore si vedevano sorgere splendidi anellidi delle branchie penniformi simili a nastri azzurri, verdi, aranciati, mentre a fior d’acqua vagavano meduse a campana, e grosse pysaglia in forma di vesciche color dei zaffiri e le code strascicanti.

La piroga, girata una punta che si spingeva molto innanzi sull’oceano, si era accostata vieppiù a terra, sfilando dinanzi ai superbi boschi composti quasi esclusivamente di alberi del pane e di banani formanti macchie immense.

Il capo si era alzato e guardava con particolare attenzione sotto quei boschi, come se avesse cercato di scoprire qualche cosa di sospetto. [p. 97 modifica] — Peuh! — rispose, respingendo la tazza. (Cap. XVII). [p. 99 modifica]

— Che cosa cerchi? — chiese Sao-King, che era diventato un po’ sospettoso.

— So che su questi luoghi vagano le bande di Hapai, — rispose asciuttamente il capo.

— E tu invece d’allontanarti cerchi d’accostarti a terra?

— Io non temo quei guerrieri.

— Una freccia è presto scoccata ed io non ho alcuna intenzione di cimentarmi in un combattimento.

— Non hai le canne che tuonano? — disse il selvaggio.

— Non mi sono imbarcato per fare la guerra. Prendi il largo e fa’ raddoppiare la corsa alla tua piroga. —

Il capo brontolando spinse l’imbarcazione in mezzo al canale, ma non diede ordine ai suoi uomini di affrettare la battuta dei remi, quantunque da qualche tempo la corsa fosse stata notevolmente diminuita.

— Hai qualche sospetto? — chiese Ioao al chinese.

— Non so.

— Mi sembra che questo selvaggio cominci ad annoiarci. E qualche po’ che ci guarda con certi occhi che non mi piacciono.

— Ha troppa paura delle armi da fuoco per ingannarci, signor Ioao. Se dovessi accorgermi di qualche cosa, non esiterei a cacciargli una palla nel cranio.

— Non precipitiamo dei sospetti che forse non esistono che nella nostra immaginazione. —

La piroga per un’altra mezz’ora continuò la corsa, girando parecchi promontori boscosi, poi improvvisamente si arrestò dinanzi ad un piccolo corso d’acqua che sboccava attraverso uno squarcio della costa corallifera.

Il capo ed i suoi uomini s’erano alzati interrogando ansiosamente l’orizzonte e manifestando una viva agitazione.

— Che cosa avete? — chiese Sao-King, armando il moschetto e alzandolo.

— Vi sono delle piroghe nemiche che si avanzano, — rispose il capo.

— Dove?

— Sono ancora lontane.

— Io non vedo nulla, eppure i miei occhi valgono quanto i tuoi.

— Noi tutti le abbiamo scoperte, — rispose il selvaggio. — Si sono celate or ora dietro quel promontorio che si delinea laggiù.

— È tanto lontano da non poter distinguere una piroga, e nemmeno una squadra intera.

— Tu non hai gli sguardi acuti come i nostri, — ribattè il selvaggio con tono stizzito.

— E che cosa intendi di fare?

— Di cercare un rifugio entro questo fiumicello e attendere che quelle piroghe se ne siano andate.

— Non saranno qui prima di questa sera, — osservò Sao-King. [p. 100 modifica]

— Salperemo questa notte; già Hifo non è molto lontano.

— Andiamo nel fiume, — concluse il chinese, vedendo che tutto sarebbe stato inutile per smuovere quell’ostinato dalle sue intenzioni.

La piroga virò subito di bordo, superò facilmente la barra formata da scoglietti a fior d’acqua e da banchi di sabbia ed entrò nel fiumicello.

Era quello un piccolo fiume, largo non più di sette od otto metri ed incassato fra due fitte muraglie di verzura.

Enormi fichi, i cui tronchi misuravano trenta e più metri di circonferenza e alti più di cento piedi, crescevano sulle sue rive, mescolati a casuarine, a cocchi ed a banani i quali proiettavano una cupa ombra.

I rami s’intrecciavano al di sopra del fiume, formando una vôlta compatta che impediva ai raggi del sole di penetrarvi.

Alcuni piccioni selvatici e qualche caralva attraversavano velocemente il fiumicello, fuggendo dinanzi alla piroga, mentre sulle rive si vedevano saltellare branchi di piccoli porci selvatici.

Il capo fece risalire la piroga per un trecento metri, poi la fece spingere verso la riva destra, dove si vedevano degli enormi ammassi di rizophore mangle, piante munite di radici innumerevoli e sottili che lanciano in alto dei fusti di mediocre grossezza.

Questi vegetali che s’incontrano dovunque nelle terre polinesiane e presso la foce dei fiumi, concorrono colle madrepore ad ingrandire le isole del Grand’Oceano Pacifico.

Le loro radici raccolgono e trattengono gli avanzi vegetali che il mare trasporta da lontano, i quali poi crescendo incessantemente, fanno scomparire la pianta primitiva dando luogo, col tempo, ad una flora ben diversa.

In tal modo s’inoltrano sempre più verso il mare e finiscono col riunire il suolo delle isole a quelle delle scogliere e degli isolotti, ingrandendo la terra primiera.

Il selvaggio, trovato un passaggio fra quella parete di verzura, vi fece cacciare dentro la piroga, in modo da nasconderla completamente, poi comandò di sbarcare.