Idilli (Teocrito - Romagnoli)/III - La serenata

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III - La serenata

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
III - La serenata
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III

LA SERENATA

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PERSONAGGI

Un capraro
Titiro, personaggio muto


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Per Amarilli voglio cantare la mia serenata.
Pascon le capre mie frattanto sul monte: le spinge
Tftiro. — Ti’tiro, a me tanto caro, pastura le capre:
guidale, Titiro, presso la fonte, che bevano; e tieni
d’occhio quel becco petulco di Libia, che avesse a cozzare!
serenata
O grazïosa Amarilli, perché non fai piú capolino
sotto a quell’antro? Perché non mi chiami piú còccolo? Forse
tu m’aborrisci? Da presso, ti sembro davvero camuso?
Ti par ch’abbia la bazza? Farai, bella mia, ch’io m’impicchi.

Vedi, che dieci pomi ti reco. Li ho colti lì, proprio
dove tu mi dicesti: domani, altri ancora ne avrai.

Guarda il corruccio mio, che il cuore mi morde! Potessi,
deh!, tramutarmi in ape ronzante, e traverso l’intrico
d’ellera e felce, che fitto lo maschera, entrar nel tuo speco!

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Ho conosciuto adesso, Amore che sia. Crudo Nume!
Di lïonessa il latte succhiò: lo nutrí fra le macchie
la madre,sua: ché m’arde, che in fondo mi penetra l’ossa.

Occhi di grazia, pupilla d’azzurro, tòcco di burro,
abbraccia, Ninfa, questo capraro, ché un bacio ti scocchi:
anche nei vani baci si gusta serena dolcezza.

Tu farai sí ch’io sfrondi, ch’io spícini questa ghirlanda
d’ellera, che preparai per te, mia soave Amarilli,
e v’intrecciai petrosello fragrante, e corolle di fiori.

Povero me, che farò? Tristo me, dunque tu non m’ascolti?

Butterò via la pelliccia, mi scaraventerò nel mare,
da quella rupe dove siede Opi alla caccia dei tonni;
a quando sarò morto, tu allora sarai soddisfatta.

Ieri, l’avevo capita di già. Dimandavo se m’ami;
e del papavero il boccio percosso, non diede lo scoppio,
ma si schiacciò cosí, floscio floscio, sul molle del braccio.

Il vero detto già m’avea l’indovina del vaglio,
che quivi, presso a noi, coglieva le spighe: ch’io sono
di te perduto, e invece di me tu non fai verun conto.

Bianca una capra con due gemelli per te custodisco:
sempre la chiede a me l’ancella di Mèrnone bruna;
ed io glie la darò, perché tu fai con me la spocchiosa.

L’occhio diritto mi balza: che forse io la debba vedere?
A questo pino voglio poggiarmi cosí, vo’ cantare.
Forse, mi guarderà: ché poi, non è mica di ferro!

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Quando Ippomène volle sposar la fanciulla Atalanta.
i pomi d’oro sparse, correndo, pel suolo; e la bella,
come li vide, uscí pazza, piombò nell’abisso d’amore.

E l’indovino Melampo, dai monti dell’Otride, a Pilo
d’Ificlo spinse gli armenti. Cosí fra le braccia a Biante
d’Alfesibèa prudente la madre bellissima giacque.

E per i monti Adone, pascendo le greggi, non seppe
ridurre Citerèa la bella a tal furia d’amore,
che non lo sa dal suo seno staccare neppur dopo morto?

Degno è d’invidia per me quei che dorme un eterno sopore,
Endimïone; e invidio Giasone, mia bella, che tanta
ebbe fortuna, quanta, profani, giammai non saprete.

Mi duole il capo; e a te nulla ne importa. Non vo’ piú cantare.
Mi gitterò lungo a terra; e i lupi verranno a sbranarmi:
questo al cuor tuo sarà piú dolce che all’ugola il miele.





Nota

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III

LA SERENATA

La prima parte di questo idillio si svolge agile, diritta, pura, come uno stelo. Vi sbocciano motivi di poesia popolare (desiderio di tramutarsi in ape) e rusticana (pupilla d’azzurro, tòcco di burro), tratti graziosi e pittoreschi (perché non fai capolino?) o dolcemente puerili (perché non mi chiami piú còccolo? — mi poggerò a questo pino cosí, farò bella figura, e tu dovrai guardarmi), e reminiscenze di superstizioni popolari (il boccio di papavero schiacciato per consulto amoroso, il battito dell’occhio), e accenti tragici senza orrore (mi scaraventerò nel mare: mi lascerò sbranare dai lupi). Meravigliose corolle, tra un fitto intreccio di fresche foglie; e le agita un fresco vento primaverile.

Ma, presso all’apice, si appesantisce, si deforma, si macula: incominciano gl’inevitabili ricordi alessandrini; e non son pochi. Atalanta. — Gran corritrice, che proponeva ai suoi pretendenti la gara del corso: vincitori, avrebbero guadagnata la sua mano: sconfitti, avrebbero perduta la propria testa. Il fortunato Ippomene ottenne da Afrodite alcuni degli aurei pomi delle Esperidi; durante la gara, li lasciò via via cadere a terra; Ata[p. 235 modifica]lanta indugiò a raccoglierli, fu vinta, e finí anche lei madre di famiglia.

Melampo. — Nelèo re di Pilo, aveva deciso di concedere la figlia Pero solamente a chi gli recuperasse le greggi di suo padre, ora possedute dal tessalo Ificlo, sui monti dell’Otride, in Tessaglia. Biante amava Pero; e suo fratello Melampof famoso medico e indovino, riuscí, mercé dei suoi buoni consigli, ad averle, e le portò a Pilo. E cosí Biante sposò Pero, che poi divenne madre di Alfesibea.

Le leggende di Adone, di Endimione, di Giasone, amati da Afrodite, da Selene, da Demetra, sono assai note. Quest’ultima implicava la storia dei famosi misteri della Dea. E Teocrito non si lascia sfuggir l’occasione di scoccare ai profani una freccia ben intrisa di tossico alessandrino: essi non possono neppure immaginare quanta fortuna ebbe Giasone.

Non so che cosa avranno detto i profani d’allora. Quelli d’oggi, possono rispondere coi bellissimi versi di Goethe:

Allor, cinto il novizio d’una candida
tunica, simbol di purezza, stava
trepido ne l’attesa. Errava poscia
meravigliato, tra figure arcane
raccolte in cerchio; e gli parea sognare.
Ché quivi al suolo s’attorceano serpi,
lí chiuse ceste, di superbe spiche
inghirlandate, vergini recavano.
Pensosamente componeano il volto
i sacerdoti, mormorando: anelo
attendeva la luce e impazïente
l’alunno. E sol dopo assai prove, e molti
esperimenti, si svelava a lui
quanto ascondea sottessi strani simboli
il sacro cerchio. E quale era il segreto?


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Come a Demètra, Dea possente, piacque
a un eroe soggiacer: come a Giasone,
di Creta al forte re, delle immortali
membra largí gli amabili segreti.


Sia detto senza irriverenza verso la somma Dea delle spiche: era il segreto di Pulcinella.