Idilli (Teocrito - Romagnoli)/XVII - Encomio di Tolomeo

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XVII - Encomio di Tolomeo

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
XVII - Encomio di Tolomeo
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XVII

ENCOMIO DI TOLOMEO

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Da Giove si cominci, con Giove si termini, o Muse,
quando esaltare nei carmi vogliamo l’eccelso dei Numi.
E Tolomeo fra i mortali si canti al principio, alla fine,
ed a metà: ché molto prevale fra gli uomini tutti.
Gli eroi, di Semidei figliuoli, che ai tempi dei tempi
gesta compierono eccelse, sorte ebber di saggi poeti,
ed io che il bello so, cantare, lodare nell’inno
vo’ Tolomeo: grato dono son gl’inni perfino ai Celesti.

Il boscaiolo che all’Ida molteplice d’alberi giunge,
guarda, fra tanta abbondanza, di dove cominci il lavoro:
ed io, che dirò prima? Ché mille e poi mille, a ridirli,
i doni son che al primo dei re concedettero i Numi.
Per cominciare dai padri, che uomo da compiere imprese
fu Tolomèo Lagíde, quand’egli proposto un disegno
si fosse tal, che un altro neppure potea concepirlo!
Onor simile a quello dei Numi che vivono eterni,
gli volle il padre Giove concedere: un trono in Olimpo,
sculto nell’oro. Benigno gli siede vicino Alessandro,
ai Persi, mitre multicolori, terribile Nume;

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e d’Èrcole, che fe’ dei Centauri sterminio, di fronte
si leva il seggio, tutto costrutto nel rigido acciaro.
Quivi con gli altri Uràni beati si gode al banchetto,
e pei nepoti dei suoi nepoti gli giubila il cuore,
cui dalle membra tolse vecchiezza il figliuolo di Crono.
Poi ch’è progenitore d’entrambi l’Eràclide prode,
ed ambi Ercole al sommo rammentan di loro progenie.
Perciò, quando già sazio di nèttare aulente, l’Alcìde
lascia il banchetto, e alla stanza s’avvia della sposa diletta,
ad uno l’arco dà, la farètra, che quei sotto il braccio
pone, la clava all’altro, di ferro, tutta aspra di nodi.
D’Ebe cosí dal bianco mallèolo al talamo ambrosio
l’armi, e lo stesso figlio barbuto conducon di Giove.

E poi, come prevalse fra tutte le donne assennate
l’inclita Berenice, gran vanto dei suoi genitori!
La Diva a cui die’ vita Dïona, che Cipro tutela,
a lei plasmò, con mani mollissime, il seno odoroso:
perciò nessuna mai delle femmine piacque al suo sposo
dicono, come amò Tolomeo la diletta consorte.
Ed essa molto piú l’amava. E sicuro ai suoi figli
allora un uomo può trasmettere tutta la casa,
quando egli entra amoroso nel letto di sposa che l’ama;
ma d’una donna disamorata la mente è distratta:
facili i parti; ma i figli non nascono simili al padre.
O veneranda Afrodite, piú bella di tutte le Dive,
a te cara fu quella. Per tua volontà, Berenice
bella, non valicò d’Acheronte la triste riviera;
ma la rapisti, prima che presso la cerula nave
ella giungesse, presso l’esoso nocchiere dei morti;
e nel tuo tempio, a te compagna d’onor la volesti.
E spira adesso, mite per gli uomini tutti, soavi
amori; e miti fa le pene d amore a chi brama.

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Argía, pupilla azzurra, commista a Tidèo, Dïomede
sterminatore, eroe di Calídone, a luce tu desti:
Tètide, l’altoprecinta, al figlio d’Eàco Pelèo,
Achille die’, maestro di lancia; ed al pro’ Tolomèo
te generava, pro’ Tolomeo, Berenice la bella.
E ti cresceva Coo, mentre eri ancor tenero infante,
che da tua madre, quando vedesti la luce, pria t’ebbe:
ché qui, nell’aspre doglie, la figlia d’Antígone, ad alte
grida, chiamò la Dea che i parti facilita, Ilizia;
ed essa a lei vicina benevola stette, e disciolse
d’ogni dolor le membra. E un pargolo amabile nacque,
simile al padre. Coo, vedendolo, un grido di gioia
alto levò, le braccia levò sopra il bambolo, e disse:
«Felice, o bimbo, sii! Tanto onore a me render tu possa
quanto ne rese a Delo dal velo ceruleo Febo;
e nello stesso onore comprendi anche il divo Triòpo:
onor comparti a lui, come ai Dori che presso gli sono:
ché Febo anch’egli amò cosí l’isoletta Renèa».
Cosí l’isola disse. Tre volte dall’alto il suo grido
l’aquila, uccello grande, propizio, dai nuvoli emise
Di Giove è questo il segno: ché a Giove figliuolo di Crono
sono diletti i re venerandi; ed eccelle su gli altri
chi predilesse dal dí che nacque: gli accorda potenza
molta, son grandi i suoi domini di terra e di mare.

Genti infinite, tribú d’infiniti mortali, nei campi
gittano il seme nei solchi, lo crescon le piogge di Giove;
ma niuna terra è quanto la bassa d’Egitto ferace,
quando straripa il Nilo, ne stempera l’umide zolle.
Sorgono tre centurie, per lui, di città popolose,
e poi tre volte mille, e poi diecimila tre volte
e poi. due triadi ancora, e poi conta il nove tre volte,
ed è di tutte quante signor Tolomèo valoroso.

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Ed una parte poi della terra Fenicia si taglia,
d’Arabia poi, di Siria, di Libia: e agli Etíopi negri
anche comanda, e stende l’impero sui Pànfili tutti,
sopra i Cilíci, maestri di lancia, e sui Lici e sui Càri
vaghi di guerra, e perfino su l’isole Cícladi: tanti
per lui battono il mare possenti vascelli: è la terra
soggetta, e il mare, e i fiumi sonori al gran re Tolomèo.
E cavalieri molti, pedoni che imbracciano scudi
molti per lui s’addensan, coperti di lucido bronzo.
E per dovizie, quanti re vivono, supera tutti:
le recan, dí per dí, d’ogni parte, alla casa opulenta.
Le genti, in santa pace attendono all’opra dei campi:
poiché nessun predone dal Nilo ferace di mostri
scese a portar l’assalto nemico agli estremi villaggi,
né sovra il lido alcuno balzò dalla cerula nave,
piombò con l’armi e il cuore nemico sui greggi d’Egitto:
tal su le vaste pianure distende l’impero un eroe,
il biondo Tolomèo, maestro a vibrare la lancia.

A cuor molto gli sta serbar le paterne ricchezze,
come a buon re conviene: ma molte ne acquista egli stesso.
Ma non che l’oro in casa gli giaccia disutile, come
delle formiche i beni, che solo conoscon l’entrata;
ché ne ricevono molto l’eccelse magioni dei Numi,
quando egli offre primizie frequenti, con altri presenti;
e molti anche largisce munifici doni ai sovrani,
e molti alle città, ai suoi prediletti compagni.
Né di Dïòniso fu ministro, che ai sacri certami
venuto, essendo sperto nell’arte dei cantici arguti,
a cui dell’arte sua non desse adeguato compenso.
E delle Muse i ministri inneggiano al re Tolomèo,
pei benefici suoi. Qual cosa piú utile all’uomo
beato, che lasciare fra gli uomini fama perenne?

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Anche agli Atrídi, resta la fama: gl’innumeri beni
ch’essi predarono, quando col (erro distrussero Troia;
giacciono sotto la terra, colà donde mai non si torna.

Solo costui fra quanti già vissero, e quanti tuttora
vivono, e l’orme loro pur calde la polvere serba,
alla sua madre, al padre fondò santuari fragranti,
fece l’effigie loro scolpir nell’avorio e nell’oro,
ché protettori fossero a tutti i mortali benigni.
E brucian molte cosce, volgendosi i mesi opportuni,
di pingui bovi, sopra gli altari vermigli di sangue,
egli e la prode sua consorte, di cui non esiste
donna che del consorte piú tenera s’offra all’amplesso:
ch’essa lo sposo e il fratello dilige dall’imo del cuore.
Anche le nozze cosí fûr compiute dei Numi immortali
cui generava Rea, Signori possenti d’Olimpo;
ed un giaciglio solo per Giove e per Era distende
Iride, vergine ancora, con mani che olezzan d’unguenti.

Re Tolomeo, salute! Te render vo’ celebre al pari
degli altri Seminumi. Dai posteri questo mio canto
spregiato non sarà: chiedo a Giove ch’eterno lo renda.




Nota

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XVII

ENCOMIO DI TOLOMEO

Questo «Encomio di Tolomeo» è scevro di qualsiasi contaminazione satirica o moralizzante, è un puro sacrificio sull’ara della Dea Adulazione.

Il Tolomeo qui elogiato, è il IIº, il Filadelfo, figlio di Tolomeo Iº e di Berenice. Era nato nell’isola di Coo, dove sua madre aveva accompagnato lo sposo durante la campagna navale del 309. E a 24 anni era salito sul trono, cedutogli dal padre.

Le sue benemerenze sono assai conosciute, e del resto, ampiamente ricordate qui da Teocrito. Il quale, per compiere senza omissioni il proprio ufficio d’incensatore, incomincia addirittura dal padre; e, affermato che, quando era in vita, non c’era cosa che si mettesse in capo, e poi non la facesse, assicura che adesso si trova in Olimpo, a scialare con gli altri Immortali. E qui, per gustare il quadretto che abbozza Teocrito, e che ha il suo sapore, sebbene forse assai differente da quello che il poeta immaginava, bisogna ricordare certe circostanze.

Secondo il contratto nuziale, Tolomeo era figlio di Arsinoe e di Lago, un soldato come tanti altri. Ma, secondo la fama piú diffusa, il suo vero padre sarebbe stato il re Filippo; il quale, amata Arsinoe, e deposto nel suo grembo una prova inequivocabile della sua simpatia, l’avrebbe poi concessa in giuste nozze al suo fido Lago. Ecco in che modo Tolomeo Lagide (Sotér) poteva dirsi fratello di Alessandro; e, poiché Alessandro, [p. 255 modifica]a sua volta, era presunto discendente di Ercole, anche Tolomeo era un Eraclide, sia pure di seconda mano.

Ora, Teocrito immagina questa bella scenetta in Olimpo. Ercole, siede, glorioso e trionfante, su un trono degno della sua durezza, tutto d’acciaro; e davanti a lui, su due altri troni (e quello di Tolomeo tutto d’oro), i due degni pronipoti, come scolaretti avanti alla cattedra del maestro. Ad Ercole, si sa, non dispiaceva il bicchiere; e quando ha un po’ alzato il gomito, consegna ad uno l’arco, all’altro la faretra, che dunque, da bravo Ercole decorativo, non abbandona neppure in Olimpo, neppure a pranzo, e si avvia alla stanza da letto, dove Ebe lo attende. E dal momento che quello dei due che riceve la faretra, sente il bisogno di mettersela sotto il braccio, s’intende che doveva adoperare antibraccio e mano per puntellare l’eroe non bene in gamba. Cosí dunque, con le due braccia girate stracche stracche intorno al collo dei due grandi discendenti, lo vediamo avviarsi al «talamo ambrosio». Alessandro e Tolomeo ci fanno una bella figura!

S’intende che in una commedia, in un dialogo di Luciano, questa immagine sarebbe al suo posto. Ma, purtroppo, anche qui Teocrito faceva sul serio.

Sbrigato Tolomeo, vien la volta di Berenice. Come Tètide generò Achille, come la «fanciulla argiva» Deìpile, figlia di Adrasto re d’Argo, generò Diomede, cosí Berenice generò Tolomeo, nell’isola di Coo. E l’isola si commosse, e diede le medesime prove di clamoroso lealismo per cui s’era distinta Delo, quando vi nacque il pargoletto Apòlline. Fa un po’ ridere, e un po’ stizza. Ma i tempi sono anche i tempi: non bisogna dimenticare quello che, a proposito della nascita del Filadelfo aveva inventato Callimaco. Aveva inventato che Latona, quando andava cercando per terra e per mare un luogo dove potersi sgravare d’Apollo, s’era avvicinata anche all’isola di Coo. Ma al[p. 256 modifica]lora, il pondo ascoso nel suo grembo divino, e cioè il profetico Dio nascituro, aveva egli stesso presa la parola.

Ma la trattenne la voce del pargolo, e disse: «No, madre,
non partorirmi qui! Non già perché biasimi, od abbia
prevenzïone contro quest’isola; è pingue, è di buona
pastura; ma per lei le Parche riservano un altro
Dio, della somma stirpe dei Re Salvatori».

Al confronto, Teocrito diventa un Alfieri. Per quanto egli seguiti con l’assicurare che anche Berenice non dové subire il comun fato dei mortali, di scendere nell’Acheronte, ma se ne sta nel tempio d’Afrodite, vicina alla Dea, e partecipe degli onori divini. Il che era poi vero, perché, dopo morta, Berenice fu divinizzata.

E viene, infine, l’elogio di Tolomeo Filadelfo. Ed è meritato elogio. Le benemerenze ricordate da Teocrito sono reali; e può essere che il poeta abbia piú tenute in ombra che non esagerate quelle verso i letterati. Il Filadelfo, sacro alle Muse già dalla fanciullezza, affidato alle cure del poeta Fileta e del grammatico Zenodoto, fu la vera provvidenza di tutti i piú o meno soporiferi cartofilaci alessandrini, da Callimaco a Teocrito. Iddio, Signore di misericordia gli avrà perdonato: in fondo egli non poteva proteggere se non quello che c’era. E tutte le testimonianze storiche concordano con questo panegirico di Teocrito nell’esaltare la floridità e la potenza del regno del Filadelfo; ma nessuno vorrà accettare per buono il numero delle città ricordate dal poeta; che sarebbero state, nientemeno, 33333. L’unico merito di questa rispettabile cifra, consiste, probabilmente, nell’essere un multiplo di tre. Occhio, anche in questi casi, alla filosofia.

Ed ecco, grazioso corollario, l’apologia di Arsinoe. Era anch’essa figlia di Tolomeo Iº e di Berenice; e dunque, sorella [p. 257 modifica]carnale del Filadelfo. Era andata in prime nozze a Lisimaco re di Tracia; poi al suo fratello uterino Tolomeo Cerauno; e, infine, oramai quarantenne, al Filadelfo, suo fratello, come abbiamo visto, da lato materno e da lato paterno. Per gli Egiziani, e massime per i re egiziani, non c’era nulla di male né di strano. Ad ogni modo, Teocrito, che, come greco, doveva pensarla, o, almeno, sentire in un modo un po’ differente, sente il bisogno di coonestare in qualche modo l’esaltato connubio, ricordando che Giove fece proprio lo stesso, e sposò la sorella Giunone.

Infine, Teocrito si rivolge a Giove, e lo prega, perché questo panegirico non sia spregiato dai posteri. E Giove gli ha procurata l’ammirazione di qualche innocente filologo. Ma il giudizio comune è invece che questa sia la cosa piú melensa uscita dalla penna di Teocrito.

Perché, morale a parte, l’arte si vendica.