Idilli (Teocrito - Romagnoli)/XXIX - Fra due fanciulli

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XXIX - Fra due fanciulli

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
XXIX - Fra due fanciulli
XXVIII - La rocca Epigrammi
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XXIX

PER DUE FANCIULLI

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I

Vino suol dirsi, o caro mio fanciullo, e verità:
ed anche noi che siam briachi, dire dobbiamo il vero.
Certo, io dirò quanto nel fondo giace del mio pensiero.
Amarmi tu non vuoi con tutto il cuore, lo vedo bene,
perché solo in me resta la metà della mia vita,
quando io le tue sembianze scorgo, e l’altra metà s’invola.
E quando tu mi vuoi, vivo una vita simile a quella
dei Numi; e quando tu non vuoi, sprofondo nel cupo buio.
Come ti può piacer, dare all’amante simil cordoglio?
Se credere a me vuoi che son piú vecchio, tu giovinetto,
dovrai, quando ne avrai còlto il vantaggio, darmene lode.
Sopra un albero solo intesser devi un solo nido
dove non possa mai fino a te giunger selvaggio serpe.
Adesso, invece, un giorno te la passi su questo ramo,
sopra quello dimani; e canti sempre dall’uno all’altro.
E se qualcuno mai scorge ed esalta la tua bellezza,
lo tratti come tu gli fossi amico già da tre anni,
e l’amico di pria come se fosse sol di tre giorni.
Ti piace, sembra a me, darti certe arie piú che da uomo:

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dovresti invece amar sempre lo stesso, finché tu vivi.
E se farai cosí, lucrerai fama di galantuomo
dai tuoi concittadini; e non sarà con te crudele
Amor, che degli umani agevolmente soggioga i cuori,
e morbido anche me rese che un tempo ero di ferro.
E adesso io ti scongiuro per la tua tenera bocca,
di rammentar che l’anno scorso fosti piú giovinetto,
che tutti vecchi si diventa, in meno che non si sputa,
vecchi rugosi; e mai riacciuffare la giovinezza
niuno potrà: ché a lei crescono sopra gli omeri l’ale,
e noi siam troppo tardi per ghermire gli esseri alati.
Rifletter devi a questo, e dimostrare cuore piú mite,
e amare me, che t’amo d’un amore scevro di frode.
Sicché, quando la guancia avrai di peli tutta coperta,
amici siamo l’uno e l’altro quali Patroclo e Achille.
Ora a predare moverei per te sin gli aurei pomi,
per te sino al custode degli spènti Cerbero andrei.
Ma se le preci mie tu lascerai sperdere ai venti,
e nel cuore dirai: perché mi secchi, benedett’uomo,
un giorno, quando la mia fiera brama sarà svanita
alla tua soglia non verrò, neppure se mi chiamassi.

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II


Ahimè, com’è tremendo questo mio nuovo morbo fatale,
questa d’amor quartana, che da due mesi di già mi strugge
per un fanciullo. E non è tanto bello; ma dovunque il piede
volge, s’effonde grazia; e dalle guance dolcemente ride.
Ed or, questo malanno, quando mi prende, quando mi lascia;
e tal presto sarà l’ardore, ch’io gustar non debba sonno.
Mi passò ieri accanto, e mi lanciò dalle ciglia un’occhiata
sottile, e vergognoso poi distolse gli occhi; e si fe’ rosso.
E Amor diede una stretta tanto piú dolorosa al mio cuore,
ed a casa tornai con la mia piaga, col cruccio nel seno.
E spesso mi rivolsi al cuore mio, con simili parole:
«Che stai facendo? Quale sarà l’ultima delle follie?
Non vedi i miei capelli che biancheggiano già su le tempie?
Smetti, ch’è tempo, di piú fare il giovane, quando non sei.
Tutto fai come quelli che di vita n’han vissuta poca.
E un’altra cosa ancor non vedi: è meglio che lungi rimanga
dai tristi amori dei fanciulli, dalle vane brame, l’uomo
che vede già la propria vita correre come cerbiatto,
e la nave diman forse dovrà spingere all’altra sponda.
Tra i giovani restar può; ma il soave fior di giovinezza
con lui non resta, e la brama lo rode sin ne le midolla,
quand’ei ricorda; e visioni in sogno lo cruccian la notte,
né basta un anno intero a liberarlo dal suo tristo morbo».

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Queste parole e molte altre al mio cuore sovente dicevo.
Ed ei cosí rispose: «Chi presume di vincere Amore,
macchinator d’inganni, quei presume di poter contare
quante di stelle ennèadi si volgono sui nostri capi».
Ed or, ch’io voglia, o ch’io non voglia, debbo portare sul collo
il grave giogo, se lo vuole il Dio che la profonda mente
domò di Giove, e della stessa Cípride. Me, lieve foglia
che un piccol soffio può rapire, turbina dove gli aggrada.



Nota

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XXIX

PER DUE FANCIULLI

I

Per questa poesia, dobbiamo ripetere le considerazioni fatte a proposito della precedente; ma con una conclusione diametralmente opposta. Infatti è dedicata ad un illustrissimo zanzerone; e non riescono a commuoverci gli sdilinquimenti amorosi di Teocrito per lui. [p. 270 modifica]

Il suddetto garzone pare che fosse un po’ incostante: era, avrebbe detto un arcade, come un’ape che svolazza di fiore in fiore. Questo contegno, garantisce Teocrito, non può essere che non gli rechi, gran disdoro. Ma se invece metterà testa a partito, e sarà tutto di Teocrito suo, tutte le persone serie gli accorderanno la loro stima. Il piú strano è che non potremmo trovare documenti per dimostrare che Teocrito non dicesse la verità.

2

Forse le poesie erotiche attribuite dai codici a Teocrito, non sembrarono al Dio Crono sufficienti per assicurare la riputazione amatoria del poeta; e allora, galantuomo, come sempre, fece sí che nell’anno 1864, lo Ziegler ne trovasse un’altra, che fu pubblicata dal Bergk nel 1865, e poi da molti altri. È indirizzata ad una delle solite bardasse; e per essa valgono le considerazioni già fatte per le sue sorelle. La sua autenticità è molto discutibile.