Idilli (Teocrito - Romagnoli)/X - I mietitori

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X - I mietitori

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
X - I mietitori
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X

I MIETITORI

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PERSONAGGI

Milone
Batto


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Milone
Lavoratore bifolco, tapino, che mai t’è successo?
Il solco piú non puoi tracciar, come prima, diritto?
Mietere in fila non puoi con gli altri, ma indietro rimani,
come dal gregge, quando urta nel cacto la pecora il piede?
Passato il mezzodí, verso sera, che cosa farai,
se non divori, adesso che appena cominci, il tuo solco?
Batto
O non mai stanco, o blocco d’indomita pietra, Milone,
non t’è seguito mai di bramare qualcun che sia lungi?
Milone
A me? No! Quale brama d’estranei può aver chi lavora?
Batto
Non t’è seguito mai di vegliar per amore la notte?
Milone
E non m’avvenga mai! Son dolori, se il can gusta l’unto!

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Batto
Ma io sono invaghito, Milone! Sono undici giorni!
Milone
Tu trinchi vin da la botte, si vede! A me manca l’aceto.
Batto
Vangato piú non ho, da la semina, innanzi a la casa.
Milone
E chi mai t’ha ridotto cosí?
Batto
                                                  Di Pascione la figlia,
che il flauto ai mietitori suonava da Scossacavalli.
Milone
Dio pizzicata ha la birba! L’hai tanto cercata, che l’hai.
Sicché, la saltabecca sarà tua compagna la notte?
Batto
Non cominciar coi rimbrotti! Di ciechi non c’è solo Pluto:
c’è pure Amore, testa sventata. Non dir paroloni.
Milone
Non dico paroloni. Ma tu, lascia un po’ quel mannello,
e per la bella intona un canto d’amore. Piú lieve
poi ti parrà la fatica. E un tempo eri caro alle Muse.

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IL CANTO D’AMORE


Batto
Muse pïerie, con me cantate la svelta fanciulla,
ché bello ciò che voi toccate, o divine, rendete.

Bòmbica, amore mio, tutti quanti ti chiamano Sira,
arsa dal sole, e magra. Per me, sei colore del miele.
Scura è la mammola anch’essa, è scuro il garofano scritto;
eppur, piú d’ogni fiore si colgono a tesser ghirlande.

Cerca la capra il trifoglio, il lupo cerca la capra,
la gru cerca l’aratro; per te sono pazzo io d’amore.

Deh, le ricchezze avessi che aveva, raccontano, Creso.
Sculti ne l’oro, tu ed io, d’Afrodite nel tempio staremmo:
tu con i flauti in pugno, con una rosa, una mela,
io con la veste nuova, coi sandali nuovi d’Amícla.

Bòmbica, amore mio, son dadi d’avorio i tuoi piedi,
nepente è la tua voce: il tratto che sia, non so dirlo.
Milone
Questi bei canti il bifolco comporre sapea! L’ignoravo.
Come ha saputo bene foggiar l’armonia dei suoi versi!
Povera la mi’ barba! Sei lunga quanto io sono corto.
Pure, tu ascolta questa canzon del divino Literse.

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IL CANTO DEL LAVORO


Dèmetra, tu che moltiplichi i pomi e le spiche, provvedi
che questo grano sia ben mietuto, e che renda buon frutto.

Lavoratori, i mannelli stringete, ché alcuno non dica:
«Gente di pasta frolla! Quanti altri quattrini buttati!»

Il taglio del covone di Zefiro al soffio esponete,
oppur del Tramontano: ché allora s’impinguano i chicchi.

Di mezzogiorno il sonno fuggite, se il grano battete:
ché proprio allor la pula si stacca piú presto dal grano.

Comincia a mieter quando si sveglia la lodola in cielo,
smetti quando s’addorme: riposa ne l’ore piú calde.

Vita beata il ranocchio, bimbi miei! Non deve angustiarsi
di chi gli mesca bere: n’ha lí, sin che vuole, nel botro.

Capoccia, quelle lenti le avresti a far cuocere meglio.
Quando spartisci il finocchio, fa’ piano, ti tagli le mani! —

Deve cantare cosí, chi al solco travaglia, o bifolco.
La tua canzone invece, d’amore, da morto di fame,
valla a cantare al letto di mamma che a brúzzolo s’alza.


Nota

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X

I MIETITORI

Anche sull’idillio decimo, non è il caso di spender lunghe parole; e per una ragione contraria a quella che ci ha trattenuti dinanzi al precedente. Perché questi «Mietitori» sono un vero e perfetto capolavoro; e, come tutti i capolavori genuini, non solo non hanno bisogno di commenti; ma, soprattutto, non li tollerano. I due caratteri, del sentimentale Batto, e dello scanzonato Milone, sono tra i meglio scolpiti da Teocrito. E mette conto [p. 245 modifica] paragonarli all’Eschine e al Tiònico dell’idillio quattordicesimo, che ci presentano, in vesti mutate, la medesima coppia.

A non tutti sarà familiare il nome di Litierse, che Milone ricorda come autore del canto ch’egli si appresta a cantare.

Litierse era un figlio bastardo del re Mida, e, attendeva all’opere dei campi. Quanti forestieri passavano, li invitava a mieter con lui; e poi, giunta la sera, li decapitava e nascondeva i corpi entro i mannelli, accompagnandosi con una canzone. Ci capitò anche Ercole, e naturalmente, ammazzò lui. Ma d’allora in poi, i mietitori di Frigia, memori di quel gran patrono, cantarono sempre un inno in suo onore. Quello, probabilmente, con cui lo stesso Litierse accompagnava le sue geniali manifestazioni d’ospitalità: quello che intona qui Milone per richiamare lo smidollato Batto ai suoi concreti doveri di buon bifolco.