Ifigenia in Tauride (Euripide - Romagnoli)/Parodo

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Parodo

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Euripide - Ifigenia in Tauride (414 a.C. / 411 a.C. / 409 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1929)
Parodo
Prologo Primo episodio


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Entra il coro, composto di giovani schiave greche.

coro

Tacete tacete,
o voi che abitate le rupi1
che duplici vengono al cozzo
del pelago inospite.
O Dittinna, Signora dell’alpi,
di Latona figliuola, al tuo tempio,
de le belle colonne ai fastigi
che brillano d’oro,
il mio piede virginëo pio
sospingo io, l’ancella
della pia tua ministra: ché d’Ellade
dai vaghi corsieri, le torri
e le mura ho lasciate, i giardini
d’Europa dagli alberi belli,
e il soggiorno dei lari paterni.
Su la soglia del tempio appare Ifigenia, seguita da ancelle che portano suppellettili per offrire i libami.

Son giunta. Di nuovo
che c’è? Che pensiero t’angustia?
Accorrere al tempio perché mi facesti,
o figlia dell’uom che alle torri
di Troia giungea, mille navi,

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mille e mille guerrieri guidando,
o stirpe dei celebri Atridi?

ifigenia

Ahi, mie ministre,
con che gemiti amari mi lagno,
con che nenie di canto inarmonico,
senza lira, ahimè, ahi, con che lagni
luttuosi, da quali sciagure
sono oppressa! Ché piango perduta
del fratello la vita: sí tristi
m’inviava parvenze la notte,
la cui tènebra or ora si sperse.
Son perduta, perduta. Del padre
piú non sono le case: finita
è, ahimè!, la progenie.
Ahimè d’Argo sventure sventure!
Ahimè demone ahimè, che mi rubi
il fratello che solo restava,
lo inviasti nell’Ade! Per lui
a cospargere il dorso m’accingo
della terra con questi libami,
con questi crateri dei morti,
questi fonti d’alpestri giovenche,
umore di bacchiche viti,
travagli di fulgide pecchie,
che placano il cuore ai defunti.
Si rivolge ad un’ancella.

Il calice d’oro, i libami
dell’Ade or tu porgimi.
Compie il rito di offerta.

O germoglio che giaci sotterra
d’Agamènnone, come a defunto

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queste offerte ti reco. E gradiscile:
ché la bionda mia chioma e le lagrime
non potrò su la tomba versarti.
Poiché ben lontana è la tua,
la mia patria, o tapina, ov’è fama
ch’io giaccia sgozzata.

coro

I cantici alterni,
la barbarica voce degl’inni
asïatici intòno a risponderti,
Signora, la Musa
delle nenie diletta ai defunti,
dai Peani diversa, onde Averno
intona gli accenti.
Ahimè, nelle case d’Atrèo
degli scettri la luce si spenge,
ahimè della casa paterna
il raggio, il dominio
dei principi d’Argo felici.
Ed erompono mali da mali,
dal giorno che l’orma
si sviò delle alate cavalle,
e per nuovi sentieri la luce
Elio effuse dei raggi divini.
E sciagura piombò su sciagura
per l’ariete d’oro2, e sterminio
su sterminïo, doglia su doglia.
Dai Tantàlidi un dí posti a morte
la vendetta provien, che s’aggrava
sulle cose. Ed un Demone affretta
le piú orribili pene su te.

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ifigenia

Il mio tristo destino comincia
dalla notte che fu di mia madre
disciolta la zona. Le Parche
che presiedono ai parti, costrinsero
dal principio la mia fanciullezza
in via cosí dura.
La misera figlia di Leda
a luce mi die’, mi nutrí,
perché vittima io fossi del fallo
paterno, promessa a un infesto
sacrificio. E i cavalli ed il carro
alle sabbie mi trassero d’Aulide,
ahimè, sposa e non sposa, al figliuolo,
ahimè, della figlia di Nèreo!
Ed or, dell’inospite mare
nelle sedi dell’aspre foreste
io soggiorno, e son priva di nozze,
di figli, di patria, d’amici,
dalle nozze rapita agli Ellèni.
Né i cantici intono per Era
in Argo, né sopra i sonori
telai con la spola ricamo
l’effigie di Pàllade Atena,
né i Titani; ma tingo di sangue
la sorte di sangue stillante
dei foresti, cui suono di lira
non s’accorda, ma i flebili gridi
che levan, le misere lagrime
che versan. Ma ora oblio d’essi
mi colga. Ora piango il fratello
che in Argo moriva, che pargolo

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ancora poppante lasciai,
ancora bambino, germoglio
ancora sul seno materno,
Oreste, che reggere in Argo
doveva lo scettro.

Note

  1. [p. 321 modifica]Le rupi ecc. Sono le Simplegadi; cfr. p. 238, v. 6.
  2. [p. 321 modifica]L’ariete d’oro; allude alla pecora dal vello d’oro trafugata da Tieste al fratello Atreo, per la quale Tieste ebbe fraudolentemente il regno d’Argo; onde l’ira di Atreo che uccise i figli del fratello e glieli diede a mangiare. Cfr. p. 267, v. 3.