Il Baretti - Anno II, n. 1/Stile e tradizione

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Eugenio Montale

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Guitry e Ruggeri La Nuova Antologia
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STILE E TRADIZIONE

Mi è assai piaciuto che nel primo numero di questa rassegna, accanto a parole di condanna, sue e d’altri, per la nostra appena trascorsa giornata spirituale e letteraria, il direttore del «Baretti» abbia accennato a spiriti rari e individui originali, con i quali non è dubbio che si debba mettere il lavoro a comune; e ad una sua volontà di conservare, riabilitare, trovare degli alleati. Se è inevitabile che gli scrittori delle riviste nuove ci appaiono in atteggiamento di polemica e di condanna verso il malcostume precedente, letterati e insieme confessori di nuove fedi e di nuove speranze; è altrettanto certo che in siffatti processi e requisitorie non è facile serbare buona misura e non dare nell’avventato o nel generico.

A tutti sono in mente le carte problematiche e programmatiche che han deliziato più volte la nostra vigilia; le zuffe ideologiche o appena verbali — verba sesquipedalia — onde più volte fummo distratti e delusi in cammino. Evitare il generico, costruirsi dei limiti e dei piani concreti, e siano pure modesti, è questa la difficoltà maggiore a cui va incontro, oggi più che ieri, una rassegna di letteratura; ed una rivista come la presente la quale non ha temuto di rifarsi esplicitamente all’insegnamento di quel maestro di chiarezza che è il Croce. Pensando al quale, e ai frutti tuttora incerti e controversi della sua scuola, che accettiamo in più parti come nostra, non è facile davvero resistere alla tentazione di crearsi storici del tempo presente e suoi giudici, se non proprio suoi giustizieri.

Il problema della tradizione è il problema di tutti noi, e porlo con chiarezza è già impresa difficile; chè tanto varrebbe averto risolto per metà. Ma siamo lontani da questo.

Quanto c’è di vero e quanto d’illusione nella nostra tendenza a crearci critici e giudici dei nostro tempo? Mancanza di prospettiva, passioni e accidenti individuali, ci creano ostacoli da ogni lato. Nei nostri inventari e bilanci di coltura, nei moti che ci persuadono a erigere in leggi e in imperativi i nostri estri più incontrollabili, noi non sappiamo quanto sia di capriccio e quanto di verità. Il concetto di tradizione che ci guida, i propositi di chiarezza e di concretezza che ci vengono dall’insegnamento crociano, sono, per esempio, assai chiari, e per nostro conto decisivi, per quanto si riferisce a problemi di cultura e di critica, e ai programmi di lavoro pel futuro, che a questi si riferiscono. C’è qui materia per l’opera di più d’una generazione; e intanto già si parla, d’attorno, di superamenti, misticismi e dualismi. Se i poeti hanno perduta la fiducia nelle parole, i critici che non vogliono essere da meno si raccomandano quando alla provvidenza, quando a pretesti freudani ed einsteniani; è in tutti un gran disprezzo dell’arte e un palese desiderio di pescare nel torbido.

Un primo dovere potrebb’essere dunque nello sforzo verso la semplicità e la chiarezza, a costo di sembrar poveri. In Italia non esiste quasi, forse non esisterà mai, una letteratura civile, colta e popolare insieme; questa manca come e perché manca una Società mezzana, un abito, un giro di consuetudine non volgari: come a dire un diffuso benessere e comfort intellettuale senza cime ma senza vaste bassure. Costì è mestieri lavorare in solitudine, e per pochi: di fronte non è che grossezza, e non solo quella borghese, ma quell’altea verniciata di cultura e di sufficienza.

Il diffuso e appena larvato discredito in cui è tenuto nel nostro paese il letterato e l’intellettuale, non dev’essere l’ultima causa della smania che dimostrano gli scrittori esordienti di atteggiarsi a profondi filosofi, al disopra della mischia. Ma in realtà non c’è oggi miglior dimostrazione della propria cultura filosofica, che quella di dimenticarla, muovendosi nei fatti concreti. Non vorremmo accettare alcuna mitologia;1 ma alle nuove che si pretendesse d’imporci preferiremmo decisamente quelle del passato che hanno una giustificazione e una storia. Al furore relativistico o attualistico è ben sicuro che anteporremo lo splendore cattolico. Al desiderio di frontiere troppo vaste, di cieli troppo distanti, porremo innanzi il confine del nostro paese, la lingua della nostra gente. Troppo lavoro rimane da compiere oggi, perché ci tentino questi salti nel buio; ed è — oltre i precisi e maggiori compiti storici che l’esempio crociano ci addita — un ingrato travaglio senza luce e senza gioia: la creazione di un tono, di una lingua d’intesa che ci leghi alla folla per cui si lavora, inascoltati; che ci conceda l’uso del sottinteso e dell’allusione, e la speranza di una collaborazione; la creazione di un centro di risonanza che permetta alla poesia di tornare ancora a costituire il decoro e il vanto del nostro paese, e non più una solitaria vergogna individuale.

Con tutto questo, che può di certo formare la base d’intesa per una lunga attività che noi non vediamo di certo compiuta, non s’è però usciti, è chiaro, dal campo della critica e della cultura. Per ciò che riguarda la poesia, preoccupazione segreta e costante di tanti, i lumi sono assai minori; come ausilio minore può darci, tutto sommato, il concetto di tradizione che da più parti, e giustamente s’invoca. Dove per tradizione non s’intenda un morto peso di schemi, di leggi estrinseche e di consuetudini — ma un intimo spirito, un genio di razza, una consonanza con gli spiriti più costanti espressi dalla nostra terra; allora riesce alquanto difficile proporsene un modello esteriore, trarne un preciso insegnamento. Non continua chi vuole la tradizione, ma chi può, talora chi meno lo sa. A questo intento poco giovano i programmi e le buone intenzioni.

Noi riteniamo che il nostro tempo ha cominciato, in qualche modo a trovare la sua voce e la sua espressione; e crediamo di poter affermare che gli uomini migliori d’oggi saranno un giorno veduti meglio inquadrati nella storia del nostro paese, che non li esclude dal loro posto di cittadini europei. Ma intanto questo destino di vivere alla giornata è parso ad alcuni troppo precario. Fu notato cioè che il problema dello stile, inteso come qualcosa di organico e di assoluto, momento supremo della creazione letteraria, è tuttora aperto al punto in cui lo lasciarono il Manzoni e il Leopardi; e parve non vi fosse dopo che abbassamento, compromessi, dialetto e falsetto.

Non si potrebbe negare che qualche cosa di vero sia in questo sconfortante rilievo; come è certo che l’esagerarne la portata ha condotto a risultati incredibilmente inattuali e generici.

Non fu tenuto abbastanza presente che nell’ordine di taluni atteggiamenti superiori il Manzoni, poeta e punto d’arrivo di tutto un ramo secolare della nostra stirpe, si giovò della soluzione cattolica; che nel Leopardi stesso dopo i quattro o cinque momenti più alti e più leggiadri, c’è già scadimento e autoretorica; e che, prima di questi, il Foscolo dello Sterne e delle «Grazie» è già vicino in spirito a certo odierno superiore dilettantismo.

Se questi sommi non seppero, essi stessi, tenersi molto sulle cime conquistate, come pericoloso deve apparirci questo isolare e idoleggiare alcuni attimi cristallini e irripetibili dell’arte loro, considerati in astratto e al di fuori dell’opera che coronarono e giustificarono.

Se giunti a queste altezze fu necessario un ritorno al piano, non è una ragione valida per negare giustificazioni agli scrittori che vennero in poi. S’è vista la poesia d’oggi giovarsi, con risultati d’indiscutibile concretezza, d’un tono più comunale; e si son visti fallire l’uno dopo l’altro i trovatori più baldanzosi, che cantano per universali e ripetono ingenuamente le forme del passato considerate come realtà estrinseche valide di per sè. Più di costoro che dello stile tradizionale non serbano che le apparenze — e altro non è possibile in questo senso a meno che nuove condizioni storiche non sorgano e nuove fedi — più di costoro, diciamo, ci sembrano nella tradizione coloro che riflettendo nell’opera propria i caratteri del nostro tempo complesso e difficile, tendono a un dilettantismo superiore, saturo d’esperienze umane ed artistiche.

In Italia — altri l’ha già osservato — pochi si figurano quel che può essere un dilettante di grande classe; e metteremo anche questa tra le riprove della nostra scarsa civiltà, non solo letteraria. Noi per conto nostro ci riterremmo fortunati se con l’opera nostra potessimo collaborare alla formazione di un ambiente cordiale, di allusione e di intesa, in cui potesse sorgere senza fraintendimenti un’espressione d’arte, anche modesta. Invece si continua ad attendere il Messia, che non verrà.

La verità è un’altra; ed è che, debba o non debba risorgere la nuova arte dal tormento critico, essa non sarà cosa nostra se non risponderà alle più imperiose esigenze che in noi si sono maturate. La sua semplicità dovrà essere ricca e vasta; e chi non sente venir meno la fiducia nei profeti ingenui è davvero persona di buona fede. Oggi ci si attarda in condanne e in processi, ma nessuno potrebbe immaginarsi di rinunziare, senza sentirsi impoverito, a certi toni che sono nell’aria e rappresentano tutta la poca ricchezza che abbiamo sortito.

Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianismo ed altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che del rifar le gente. In tempi che sembrano contrassegnati dall’immediata utilizzazione della cultura, dal polemismo e dalle diatribe, la salute è forse nel lavoro inutile e inosservato: lo stile ci verrà dal buon costume.

Se fu detto che ii genio è una lunga pazienza, noi vorremmo aggiungere ch’esso è ancora coscienza e onestà. Un’opera nata con siffatti caratteri non abbisogna di molto di più per approdare, come la «bouteille à la mer» di de Vigny, ai tempi più lontani.

E’ chiaro che tutto si deve tentare per mettere in salvo quel che s’è fino ad ora realizzato, i tre o quattro punti d’intesa che rischiano di essere scancellati e sconvolti. Su questo minimum comune di programma c’è lavoro per tutta la nostra generazione: non è per noi tempo di dissensi, di posizioni singolari e di camarille.

Aristarco-Baretti reincarnato lascerà di certo questi lussi agli uomini del domani, di noi più fortunati. E per ora: — buon anno, Scannabue.

Eugenio Montale

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