Il Baretti - Anno II, n. 16/Croce, critico letterario

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Croce, critico letterario

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Il Baretti - Anno II, n. 16 Per la morte di Goethe
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Croce, critico letterario

Poiché Benedetto Croce é stato definito il «Don Antonio Cardarello della letteratura.», par chiaro che, nella sua qualità di clinico, egli non ha prodigato a tutti uniformemente, malati veri e immaginari, i momenti della sua attenzione, quando é entrato a far visita nel grande padiglione degli scrittori e dei poeti del secolo scorso. Secolo che, di siffatti malati, ebbe i più lunatici e sorprendenti che mai si vedessero. L’ascoltazione di Giuseppe Giusti é durata per sette pagine scarse. Con Manzoni sono occorse diciotto pagine delle meglio ispirate e minuziose. La sosta presso il Conte Giacomo Leopardi, che non é delle più brevi, pare non sia trascorsa in tutta tranquillità; e si vedrà più sotto quello che la nostra indiscrezione è riuscita a indovinare, più che a riferire, da codesto eccezionale colloquio. Nell’avvertenza premessa al volume che s’intitola, senza troppe cerimonie, «Poesia e non poesia», il Croce allega che la sua critica letteraria, come ogni altra degna di tal nome, deve intendersi in modo scientifico, onde un lettore frettoloso potrebbe immaginare di vederlo trattare la delicata materia con eccessivo scrupolo d’analista e con freddezza di storico, anche nel miglior senso. Accade, al contrario, che dove il pensiero gli si svolge al centro dell’idea, il suo discorso prende di un calore, non fisico ma ideale, che io non ritengo propriamente scientifico. Ritrovandosi in un’atmosfera morale adatta, dove cioè le convinzioni del cuore e dell’intelletto ottengono effusa conferma da tutto ciò che le contorna, la sua voce s’intiepidisce come di serena letizia, e par godere essa stessa di comunicare gli accenti di una verità fatta, per l’intelligenza, quasi propria. Quando, applicandosi a controllare, e quasi dirci a far combaciare i sentimenti elementari o la filosofia di uno scrittore sullo schema grande e universale di un suo classico «tipo», avverte che le parti combinano, e non c’é linea che non ritrovi la propria linea sorella, allora la sua mano, che immagino compia quasi praticamente quest’atto del provare ogni umana forma al modello mentale, prova, in un attimo solo, misti gratitudine e orgoglio, conforto e, in un certo senso, la felicità del dare una chiara coscienza ad un’opera. In un lavoro di tanta responsabilità, egli mette un’applicazione calma, e la sua modestia; e quella sorta di sorridente serietà che affiora da ogni angolo della sua pagina a far parere anche più indifferente e freddo un lavoro che é stato invece, inizialmente, pieno di riguardo, di fatica lenta, di accorato abbandono infine. E sulla superficie compatta, di codesta pagina quasi sempre priva di un segno d’interiezione, naufraga e si perde il lettore di complessione poco resistente. Difatti, taluno azzardoso e incredulo, avventuratosi da quelle parti, ne é ritornato accusando misteriosi sortilegi e stregonerie nel laboratorio del filosofo di via Trinità Maggiore! Altri, più avveduti, hanno preventivamente dichiarata una incompatibilità di carattere. Croce, in questi casi, non fa motto, o al massimo manda qualche ironica letterina ai giornali. Come uomo, è in buona fede, anzi la pone quale condizione indispensabile d’ogni dibattito; come letterato, talvolta fa la parte di avvocato del Diavolo. La sua ambizione critica, che è desiderio di tener vivo il sangue delle passioni umane, si soddisfa se può, come quando s’avvicina al vecchio cuore Manzoni, dimostrare e godere della forza di esse, ma calmamente. Amore, giustizia, pietà, son sensi che rintraccia con oscuro tremore sulle carte altrui, e ce ne fa sentire a noi il rispetto. Allora si capisce com’egli sin destinato a trascegliere e degno di pronunciare, con la dolcezza melodiosa di una musica di Verdi, questi versi del coro dell’Adelchi:

A torme, di terra passarono in terra,
cantando giulive canzoni di guerra.
ma i dolci castelli pensando nel cor.

Mi pare di accorgermi che il Croce, messo di fronte alla poesia di Leopardi, come a persona piena d’incanto ma acerba, provi qualche momento d’impazienza per la realtà che da essa nasce e che sembra non voler ottemperare a certe categoriche norme morali e letterarie che egli, d’altra parte, é decisissimo nel ritenere valide. Quando mostra di attribuire solo un valore di annotazione personale e privata ai versi di «A se stesso», sarei tentato di credere che senza volerlo, egli faccia ancora una questione di soggetto, o d’argomento letterario, come diceva un mio maestro d’italiano. Poiché parrebbe giusto intendere che in composizioni simili quello che fa il pregio lirico è il tono, e il modo disperato e serio con cui le parole, non tratte dal lessico, ma richiamate dalla lontananza della vita, si raggruppano, quasi fatalmente, a formare in un gelido quadro e come in un intarsio le riflessioni di ogni uomo presago della morte. Non diversamente Baudelaire, con una compostezza tragica, degna sorella di questa disperata serietà, scriveva: «Sois sage, ô ma Douleur, et tiens-toi plus tranquille». Mi avviene di notare che il Croce s’impazienti e faccia lo scettico, a fin di bene, s’intende, davanti a cotesta serietà e compostezza. In fondo, una persona di cuor generoso e di sensi onesti, com’egli dev’essere, non può provare diverso impulso. Direi anche che egli è troppo materialista per credere e prestar fede a simili esistenze astratte. E’ troppo vecchio conoscitore di quell’animale che si chiamò uomo, per non avvertire che con simili poeti le regole terrestri non bastano più all’identificazione antropologica, e occorre inventarne di nuove, che puzzerebbero d’eresia e per esempio non si concilierebbero con l’epiteto di «classici» riservato a codesti poeti. Oppure dovrebbe, contro ogni probabilità botanica, ritenere che da una nuda roccia nascano tenere fioriture di rose. Il suo inveterato amore per la conversazione dello spirito o per la laboriosa attività della storia, lo tiene naturalmente lontano da quelle opere che si compiono, quasi di sorpresa, e con così poco riguardo per i contatti terrestri, nei paesi impraticabili della fantasia e dello stile. Di tante credenze che il Croce deve, con l’età, aver abbandonato, quella nella vita dell’uomo resterà, credo, delle più ferme; tanto é, vero che anche lodando un verso che gli piace e soddisfa non trova miglior elogio che paragonarlo a «una dolce persona vivente». Anche dove egli tende a dare delle passioni più calde e mosse interpretazioni in un linguaggio freddo e quasi scientifico, sento prendere fiato in lui e respirare sulle sue parole stesse l’inguaribile nostalgia per la gioventù, che è il fiore dell’esistenza; e scorgo allora, attraverso questo sentimento, farsi presente qualcosa del suo carattere che bramerebbe, le passioni umane, sfiorarle alitanti, non allo stato di memoria, e non si rifiuterebbe di partecipare in qualche modo ad esse, sia pure con la cauta serenità dello studioso, ma sentirle vive e in atto. La qual cosa si rivela senza fatica a chi, con un poco di attenzione, vada a rileggere quelle pagine dove, col pretesto di riferire la mentalità dei personaggi di Maupassant, istintivo e sensuale autore, e mescolando osservazioni proprie, piene di sostenuta malinconia, a quelle di costoro, il Croce scopre, se non m’inganno, un aspetto della sua anima. Perciò, dico che, ad un temperamento di codesta specie, doveva riuscire per lo meno strano che affetti e sensi delicatissimi e pungenti un poeta, come Leopardi, si riduca a fermarli letterariamente quando siano giunti, per una illusoria distanza, allo stadio di idee, e non mandino più alcun reale segno di quella reale vita per la quale eran nati. Allora, se anche non lo dice, arriva al punto di giudicarli pura rettorica. La sua eccessiva cura di ricostruire l’ambiente storico non gli fa tener d’occhio quale finestra per la quale lo scrittore ha la possibilità di prendere, invece che per l’uscita della porta, qualche volta la via. Questo gli accade anche a proposito di Baudelaire, e noi, forse a torto, non ci sentiamo di condividerne il parere. Non vorremmo, d’altra parte, presumere troppo della nostra vista! Croce, prova qualche impazienza di fronte alla vita; di qualcosa gli dispiace, del tempo che passa o degli uomini che non vincono il tempo; e manifesta, con un lampo appena, la forza della sua ambizione di una chiara realtà.

Un pastore di Pescasseroli, di quelli che ogni anno conducon le greggi in Puglia, usando di poetare alla maniera popolaresca, dedicò al Croce tra gli altri, i seguenti versi:

Aristotele
e Platone
quello è buono
a confutar.

Ma quello che il Croce, pure nella sua logica singolare, dimostra di non aver confutato è l’opinione di certuni intorno a Leopardi. Sebbene si possa rintracciare l’origine delle sue argomentazioni morali e letterarie nel Saggio di F. De Sanctis, convien dire che egli le ha incalcolabilmente sviluppate e organizzate. Le ha tolte da quella specie di racconto impressionistico in cui tra parafrasi del testo, ricostruzioni pittoresche e molte perplessità di giudizio critico, esse affogavano nella scucitura di tutto l’assieme, non lasciando ferma, nella memoria del lettore, che qualche parola più propriamente adoperata. Croce, scrivendo, dà una forte unità, mette uno stretto legame fra le varie parti di un suo giudizio riflettente un determinato oggetto, in modo che il giudizio stesso riesca, per la complessità di tutti i particolari che seco si reca, il più chiaro e preciso possibile. Talvolta pare che anch’egli, come Stendhal, abbia preso a modello la prosa del Codice Civile. Ma appunto per tanta ordinata limpidezza, per un impegno speculativo così privo di equivoci e di scappatoie, un giudizio contrastante, risulta due volte contrastante, e senza rimedio. Questo è il guadagno dell’esser sinceri. Per esempio, quando dice che tutta l’opera di Leopardi mancò di una vera base filosofica e che la sua morale si concretò in una perenne petulante querela contro le vanità della natura e del pensiero umano, forse egli dimentica o finge di dimenticare, che la filosofia e la morale per Leopardi coincisero in quel punto in cui la serena e disillusa pace e la scettica rassegnazione dell’uomo si regolano e trovano la forza per continuare riconoscendosi nelle norme del patetico Manuale di Epitteto. Sulle quali, come si sa, non per caso egli insistette, con pretesto erudito, e nelle quali faceva consistere, genialmente, l’opinione del popolo sulla così detta filosofia della vita. Se ne avesse, di codesta tendenza della mente di Leopardi adulto, tenuto un qualche conto, si sarebbe anche persuaso che la vita spirituale di lui non fu quella «vita strozzata» che egli dice, ma che anzi, e proprio per codesta tendenza scettica e ironica, trovò il suo mezzo di respirare agevolmente. E quelle tali «Operette morali» ispirate da cosiffatta vita, non gli sarebbero parse fredde e inanimate, ma, per quello stesso respiro, più che umano, cosmico e sovrannaturale, anzi vive e alitanti. Non avrebbe, mi permetto di credere, affermato che taluni dialoghi sono, in quanto rappresentazioni cosmiche, mancate. Altrimenti mi sembrerebbe di mancar di rispetto al Croce, pensando che, di conseguenza, egli dovrà trovar sereno e lieto il fondo di quei dialoghi di Molière, per esempio, in cui è piuttosto un umore agghiacciante e nero, sempre malinconico che costituisce la apparente comicità del dialogo e della rappresentazione.

E il «Copernico», di comicità visibile, e direi così, comunicativa, ne contiene tanta, che verrebbe spontaneo di immaginarlo rappresentato. Avrebbe anche giustificata la sostanza di monologo di altri dialoghi, in cui, come in quelli classici di Galileo, é la pura fantasia e lo stile che si animano fino ad assumere la doppia persona del discorso, per il naturale ed eterno formarsi dell’ombra dalla luce, dello scuro dal chiaro, per una necessità quasi plastica e fisica che occorre alla parola quando vuol farsi atto. Leopardi visse una sua vita breve e favolosa, abitò un certo mondo, che non é quello del Palazzo paterno di Recanati, nè quello delle case di via Condotti a Roma e della via Santo Stefano, qui in Bologna, e per darne notizia, come un viaggiatore dei paesi incontrati, usò un particolare linguaggio, che è il suo stile. Pare ovvio perciò che in realtà di codesto mondo non debba essere giudicabile con i criteri consueti di buon senso e di buon gusto, ma con un sistema di proporzioni poeticamente adeguato, e di cui non si dà la controprova nei manuali di retorica. Onde m’azzardo a credere che la «donzelleta» e il «mazzolin di rose e di viole» sono degnissimi del rimanente, quando collocati insostituibilmente al loro posto, non meno che la «stanca vecchiarella». Simili diminutivi, dopo esser stati particolarissimi della poesia di Petrarca, godono, nelle melodie leopardiane, di un loro potere evocativo e pieno di grazia intensa, che il Croce poi nell’Autore delle «Operette» avverta una scarsa capacità umana, una adattabilità sociale rientrata e, per quello che è della politica civile, una tendenza reazionaria e avversa ad ogni forma democratica, questa mi par questione da trattare in altra sede, ma che non può, in alcun modo, infirmare il riconoscimento della realtà poetica di Leopardi. Più che ubbidire a delle tradizioni famigliari in senso stretto, anch’egli sottostava, forse inconsapevolmente, a delle inclinazioni che si portano addosso, come nelle vene il sangue, e che, come le consuetudini e le costumanze più esterne, costituiscono parte della irrefutabile eredità d’ogni figlio. Se a noi, figli e nipoti di democratici e di progressisti, che all’illusione di una nuova storia diedero qualcosa di più delle parole, ci accade di scoprirci a seguire, in pensiero o in atto, una farva di quella paterna illusione, perché dovremo vergognarcene e quasi rivoltarci? Nella nostra memoria, che cerca dei conforti affettuosi, ci pare, oggi, qualcosa di certo il non ritenerci dei figli ingrati. Quelle idealità anzi dette, che uomini covarono per una vita intera, francamente e a dispetto del nostro scetticismo di figli cresciuti avanti la grande guerra, ci sentiamo di aspettarle e di farle rispettare. Per questo, vorremmo insieme mostrarci non indegni delle norme di vita civile che Croce sa dettarci, ma anche, e sopratutto, degli insegnamenti di poesia di Leopardi ci ha prodigato e continua, quasi miracolosamente, e prodigarci. Insegnamenti utili, voglio credere, per un’altra vita. Ci perdoni, Benedetto Croce, il concetto di questa capitale distinzione che può parere avventata, ma non é, se é vero che ci é costata qualche anno di dubbio e la dura pratica di codesti anni; e sopporti quelle che possono parere, qui e nelle precedenti pagine, imprudenze di giudizio e di principio, riflettendo che siamo, come si dice, ancora giovani, e che dobbiamo pur sbagliare. Sbaglio di nuovo, dicendo che mi sento già un poco perdonato?

Giuseppe Raimondi.