Il Baretti - Anno II, n. 5/Il nostro Carducci

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Luca Pignato

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Il Baretti - Anno II, n. 5 Romanelli

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IL NOSTRO CARDUCCI

Un discorso intorno al Carducci non può essere, allo stato attuale, che un tentativo di presentare, con modestia e chiarezza, una nuova posizione d’idee e di gusto.

Quelli che non credono alla possibilità della storia dell’arte c tuttavia la fanno, si van preoccupando da tempo della necessità di allogare il Carducci in cotesta storia, cioè nella tradizione: perchè in fondo, la tradizione, noi crediamo, non sarà altro che la storia. Ed ecco ora fa il giorno della critica, della giovane critica e della vecchia, questo luogo comune: che il Carducci chiuse la tradizione classica, e le rotture si ebbero col D’Annunzio e col Pascoli, all’inaugurazione dello poesia moderna. Suggerito un chiarimento sul concetto di tradizione, ci sembra che la tradizione il Carducci non potesse, nè chiuderla nè aprirla; ma in sè dovesse necessariamente, nella sua necessità creativa, far l’uno e l’altro, risolvere cioè la tradizione nello sbocco originale della sua poesia. Questa non è una mia presunzione, ma esplicita consapevolezza del Carducci. Egli disse un giorno: «Odio l’usata poesia».

Ma a quel punto in cui si aprono le Odi Barbare e questa nuova coscienza del Carducci, la critica chiude il testamento del Poeta. All’altezza del Comune rustico, di Faida di Comune, della Canzone di Legnano è sembrato che il genio carducciano brillasse un poco, e subito si spegnesse in un tramonto malinconico. Queste sono le conclusioni del Croce, e su per giù passate all’archivio.

Tentativi non sono mancati per stabilire un Carducci diverso e «moderno». Ma Carducci non è moderno, come non è antico: è Carducci. Un Carducci che chi voglia dargli un posto nella storia letteraria, deve intenderlo storicamente, e dargli sì la propria passione di rilievo, ma non frantumarlo arbitrariamente in un pittorismo, che non si ricompone e non s’include in quella coscienza di arte che presiede alla poesia del Carducci. Ogni storia è moderna, per noi: e ogni poeta; ma è tanto semplicistico dirlo, quanto è semplicistico porla «moderna in sè».

Peraltro, alla fine, si trattava di un Carducci ben segnalato del Croce, e da ricercarsi nelle prose, in pezzi e quadri coreografici, affini al mondo letterario e storico delle Odi Barbare.

Nessuno, o pochi certamente, hanno avvertito il significato di quell’«odio l’usata poesia». Pure, è possibile pensare che senza l’esempio (e si voglia pure, quanto agli effetti, letterario cd esterno) delle Odi Barbare, non ci sarebbero nello rigidezza del clima accademico e provinciale del nostro paese certe rotture della vecchia tecnica, e aiuti al farsi d’una lingua più vivo e leggera, che si riscontrano precisamente nel Carducci, e via sfavillarono da lui sino a quel collegio abbruzzese dove furono scritte le significative ingenuità del Primo Vere d’annunziano.

Dentro la più vistosa e solenne accademia maturò il germe del canto, esile canto, ma delicato e puro, del Carducci, e suo, senza riscontri e precedenti. Vorremmo sapere se in quel senso d’atrocità belluina e machiavellica dello Faida di Comune si posson trovare umanità e universalità, che sian d’ogni sorta, e, come si sostiene, liriche: a questo punto il Croce (che si vuol dire carducciano impenitente) non si fermo tanto che ci sia possibile tirarne una qualsiasi risposta.

Ma quel vecchio cuore indurito di letterato e di «vate», dovette sentire in verità che la poesia non pesa più d’una farfalla, quando si sciolse, fuor delle morte tecniche, in una ritmica sua. tocca dalla grazia. E’ un’apparizione di nascita, dopo un cammino tortuoso, in un paio di versi di quell’Aurora che apre come una promessa le Odi Barbare:

Inchinaronsi i cieli, un dolce chiarore vermiglio ombrò la selva e il colle, quando scendesti, o dea.

Un disordine si avverte in un mondo che si era concluso e costituito praticisticamente, e fa meraviglia pensare che il Carducci abbia avuto tale coraggio. Egli ebbe consapevolezza dei tempi, ed aveva letto tutti i libri... Ma questa consapevolezza voleva essere aiutata e non frantesa. In Italia si credette a uno scherzo. Si discusse, con mentalità archeologica, intorno alle innovazioni metriche; e non si capì l’originalità di quella forma personale di ritmo che introduceva prima in Italia che in Francia, il verso libero; e che collaborava, creativamente, alla poesia europea. Non è senza interesse ricordare un Viélé-Griffin che fa discendere dalle sue esperienze di metrica latino il gusto, e la finezza dell’orecchio, nella nuova metrica e certo nessuno di noi prenderà sul serio i metri barbari come tecnica oggettiva e adeguante quella classica, tanto è personale e inimitabile l’accento delle odi carducciane e tutt’uno con le movenze e il modellarsi degli spiriti in quella lirica. Nei distici il Carducci sentì più sciogliersi e rinfrescarsi la sua asprigna natura, c certamente in essi si ritrovan fili di melodia e d’incanto che son cosa nuova nella poesia italiana. Veramente a lui cosi solido e greve, il mondo si fa leggero, c l’anima gli respira in una melanconia di compiuta bellezza, seppure incapace di rifarsi capace della costruzione d’una nuova visione della vita:


Dicono i morti — Beati, o voi passeggeri del colle circonfusi de’ caldi raggi de l’aureo sole. Fresche a voi mormoran l’acque pe ’l florido clivo

scendenti,

cantan gli uccelli al verde, cantan le foglie al

vento.

A voi sorridono i fiori sempre nuovi sopra la

terra:

a voi ridon le stelle, fiori eterni del cielo. Dicono i morti — Cogliete i fiori che passano adorate le stelle che non passano mai.

Questi accenti si staccano in una limpida levità, come sbocci refrigeranti, dalla prosa sassona della costruzione, consapevoli del loro atteggiarsi melodico e cantati dall’io profondo del poeta, che si trasferisce nei simboli evocati.

Qui sono i morti; altrove sono le acque del lago che suadono al loro molle amplesso Valerio Catullo:

A lui da gli umidi fondi la ninfa del lago cantava; — Vieni, o Quinto Valerio. Qui ne le nostre grotte discende anche il sole,

ma bianco

e mite come Cintia. Qui de la vostra vita gli assidui tumulti un lontano d’api sussurro paiono e nel silenzio freddo le insante e le trepide cure in lento oblio si sciolgono. Qui il fresco, qui il sonno, qui musiche leni ed i

cori

de le cerule vergini mentr’Espero allunga la rosea face su l’acque e i flutti al lido gemono. —

Dopo questi stacchi, il tono scade alla prosa discorsiva e riflessiva; e la composta e gelida saffica trae il poeta a compromessi solenni e grossolani con l’usata poesia, o peggio l’alcaica gli spezza ogni discorso noto e gli preclude ogni nuova possibilità. Ragioni metriche che adduciamo, per comodità di riferimento, a indicare le forme della poesia nel loro definitivo slancio con tutto il peso dello materia che impedisce il volo, se non le rotondità oratorie dell’eloquio. Certo è che il poeta ha coscienza, una nuova coscienza, di qualche cosa di ineffabile che non sembra scaturire do un mondo posseduto come quello culturale e storico ch’egli adopera di solito, e quell’ineffabile traduce il canto, mentre quel vecchio mondo domina e dispone con tutta In sua sapienza di retore. Un Carducci noto e che si costruisce con tutto il suo materiale d’erudizione e di passione presiede all’architettura delle odi e domina le più grandi e celebri di esse; ma un Carducci ignoto, più intimo, più delicato, e che si riconosce poeta nella sua universale commozione e indefinita aspirazione al sogno e al dolore del mondo, al sogno e allo gioia eterno del canto, poeta certamente se non vate, si confessa inatteso in queste pause.

Da una parte sta il Carducci umanista, dall’altra sta il Carducci poeta. Questo stacco si può fare in tutta la poesia italiana, la quale ha forse le sue origini, non in Dante, ma in Petrarca: quivi è il duplice aspetto oratorio e lirico di tutta la nostra letteratura. Il Petrarca maggiore, quello del’Africa e quello dell’«Italia mia, benché il parlar sia indarno», l’umanista che guarda al mondo antico, ne vuol resuscitar l’ideale nell’ordine pratico nazionale; l’umanista che ha presente il modello letterario romano e che spregia e, per gusto di pompa, arresta il farsi originale della poesia italiana annunziata gloriosamente nel trecento. E di contro ad esso, il Petrarca minore, quello che ci ricorda, semmai, la poesia greca, alle grandi intenzioni epiche ed oratorie del Petrarca maggiore contrappone gli accordi più delicati e dolorosi di un originale sentimento della vita, il Petrarca di «Quel rosignol che si soave piagne» (tanto per citare una sua melodia, e ricordarcene cantandola) e che non ha i suoi precedenti in Orazio ma in Saffo. Cioè la poesia italiana che era nata col Cavalcanti e con Dante, stroncata nel suo sviluppo dell’umanesimo, sopravissuta come gusto di sobrietà e di linearità ma senza grandi risultati nel Poliziano, venuta a patti con l’umanesimo e rifusa con esso nel Rinascimento in modo da salvarsi come pura Idea della forma: sino a Leopardi, che ne reintegrerà la pienezza e l’universalità e spezzerà, con consapevolezza spregiudicata, l’equivoco e «tornerà» a Petrarca, al Petrarca minore delle «Rime».

Il Carducci non comprese il Leopardi: la sua critica ne è una testimonianza, O meglio, non lo comprese che tardamente. Tutta la sua estetica è conclusa nel «Congedo» di «Rime e Ritmi»:

Il poeta, vulgo sciocco......

che è, infine, l’estetica naturale, compiuta e grandiosa dell’umanesimo.

Senonchè, a questo punto, la stessa maturità saziata si discioglie nel «vecchio cuore». L’«Odio l’usata poesia» è l’espressione di questa sazietà. Essa colpiva la forma, perchè aveva concepito la poesia come sapienza umanistica. E si sfoggiò il «metro barbaro» che doveva esserne a un tempo epilogo e negazione. La poesia, come alle sue origini, e in ogni tempo, si ritrova come musica.

E’ una ricerca di ritmi nuovi, che sboccherà in un mondo nuovo.

Questo era stato il verso, questo sarà il metro o barbaro o libero. Questo è il significato delle Odi Barbare, e del Carducci.

Non più il grande nriterc, nè il poeta della sua stirpe: questa coscienza, nella malinconia del suo tramonto, non gli mancò certamente. Non avrebbe scritto, quel giovane e grande Carducci che è passato alla storia,


O piccola Maria
di versi a te che importa?
Esce la poesia,
O piccola Maria,
Quando malinconia

Batte del cor la porta.

Questo è un Carducci in tono minore, e alla fine è un Carducci nuovo di intenzioni, con tutta la tristezza della sua enorme opera fallita. E’ il Carducci non più della Faida di Comune, del Comune Rustico, della Canzone di Legnano e nemmeno quello decorativo e paesistico dell’ode Alle Fonti del Clitunno, è il Carducci del Vere Novo, del Sogno d’estate, di Ad Annie.

Questo Carducci ha fatto le sue esperienze di ricerca ed è caduto anche nel barocco, e sentiva cominciare un nuovo tempo

Calvi, aggrondati, ricurvi, si come becchini alla

fossa

stan radi alberi in cerchio della sucida riva.

Egli ha scritto. Oppure:

I poggi sembran capi di tignosi nell’ospitale, l’un fastidisce l’altra da finitimi letti.

Disgusto, certamente, di chi è vissuto, anche nelle cose che apparirono più fresche, nel convenzionale e nell’accademico.

Com’eri bella, o giovinetta, quando Tra l’ondeggiar de’ lunghi solchi, uscivi Un tuo serto di fiori in man recando.

Questa contadina che reca i fiori in man, e per giunta un serto, stabilisce i confronti, e suggerisce le linee d’un giudizio. Ora egli farà forse di peggio, quando ricercherà, e dirà che i fanali sbadigliano la luce sul fango e che le nubi «bevono dal mare con pendule trombe». Perchè quando non c’è necessità lirica, non ci posson essere nè felicità di scoperta nè musica. Ma dalla frattura o dal rigetto d’una morta tecnica — chè questa è la tradizione, se posta fuori d’un farsi e d’un risolversi nell’originalità — nacquero Vere Novo,Ad Annie, Sogno d’estate; di cui non si vuol citare, perchè non si pensa a un Carducci frammentario e verbale, nemmeno un rigo.

***

Ma di questo Carducci consapevole d’un suo svolgimento, insomma critico in seno alla sua poesia; e che spezza in sè un gusto accademico, e quindi una tradizione letteraria; e che alla fine è il Carducci che si fa vivo in noi, e concretamente vivo come poeta, conviene pur chiedersi perchè mai non abbia aperto tra ciò che precede le Odi Barbare e queste, un abisso soltanto formale, lasciando che la necessità intima che rodeva la roccia e affiorava in uno zampillo non fosse limpidamente riconosciuta come la causa del franamento (perchè franamento ci fu). Perchè, ecco la risposta, il Carducci acquistò consapevolezza che «la poesia esce quando malinconia batte del cor la porta» soltanto nel suo tramonto, e con dolore che volle ricacciare nel petto: fino a quel momento, e spinto dalla prepotenza delle sue intime necessità, si era illuso che la poesia fosse — com’egli diceva — per tre quarti forma. Ma gli sarebbe convenuto pensare, nel suo linguaggio empirico, che la poesia era tutta questione di contenuto e che si trattava di riconoscere tutti i diritti, tardamente avvertiti, del vii muscolo nocivo alla grand’arte. Forma, era appunto, nel discorso carducciano, tecnica: morta forma, astratta forma, forma in sè. Egli non aveva possibilità d’intendere, del linguaggio desanctiano, quella forma che è la vita, il pieno esprimersi, cui nulla precede se non il caos psicologico. Tutta la sua vita era là, in quel penetrare forme morte, e mai nell’intendere il farsi, dall’intimo, dalle forme, se non per avventura il contrasto ai suoi chiari e pratici strumenti di filologo. Il sentimento doveva esser per lui il sentimento praticistico e psicologico, fuori dell’arte, epperò «nocivo alla grand’arte»; ma diventò, in un equivoco che non durò poco, anche la passione che investe, nel disinteresse per le contingenze, l’universale e perciò anche quella, dell’umano ed eterno dolere e sentire, che risuona, tutt’uno con la poesia, fuori del tempo e dello spazio.

Cotesti equivoci, della forma che è sintesi e della forma che risulta, dall’analisi, astrazione e morte, e del sentimento che è lirica e del sentimento che è pratica, sono i problemi lasciati dal Carducci al Croce, in quella cronologia ideale che si deve stabilire se si attenda a ordinare in noi l’insegnamento della loro opera.

Luca Pignato.