Il Baretti - Anno II, n. 8/Araquistain come scrittore di teatro

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Mario Puccini

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Rupert Brooke Smelov

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Letteratura spagnuola

Araquistain come scrittore di teatro

Da polemista a romanziere satirico, Araquistain passò, si può dire naturalmente; ma ben altro sforzo gli occorse il giorno in cui la sua visione della vita egli volle costringerla nelle strettoie di una tecnica che ha esigenze e limiti presso che assoluti. I due drammi che egli ha scritto fino ad oggi risentirebbero peraltro pochissimo di questo sforzo, almeno in quello che sono tecnica e stile teatrali, se egli si fosse accontentato di restar nello stesso piano di vita al quale lo obbligavano il suo temperamento e la sua vena, decisamente battagliero il primo, sottilmente ironica la seconda. Ma al teatro egli è venuto con ambizioni non so se più vaste ma certamente più profonde: ed ecco allora l'inevitabile: vale a dire la sovrapposizione ideologica alla passione nuova e cruda degli uomini, lo sforzo d’una dimostrazione a compimento d'un dramma d’anime. «La vita e i suoi morti» (che sarà presto conosciuto anche in Italia) è certo fino ad oggi una delle opere più tipiche di teatro uscite dalla penna di un occidentale e d’un meridionale per giunta; ma sarà difficile persuadere un lettore colto che Araquistain, scrivendola, non abbia sofferto il ricordo di Ibsen, o, in ogni modo, degli scrittori nordici. Per mio conto, sono propenso a credere che il dramma sia nato da una passione reale autentica; ma è indubbio d’altronde che lo scrittore il giorno in cui questa passione volle vederla teatrale non seppe sfuggire il peso di una tesi, pur sapendo benissimo che questa lo avrebbe costretto a pensare e, che è anche peggio, a non pensare liberamente. Ma veniamo al dramma. Un giovane di forte intelletto e anche di scrupolosa coscienza. Ottavio, affacciatosi appena alla giovinezza, sa che il padre è morto dopo lunghi anni di sofferenza, tisico. Nessuno ha pensato a nasconderglielo: e, dato il suo temperamento ombroso e indagatore, non sarebbe forse stato possibile. Ricco, figlio unico, libero di sè, sano, Ottavio non avrebbe neppure ragione per dolersi della sua nascita se a un bel momento, o brutto, non cominciasse a pensarci su. Comincia a roderlo il pensiero: prima lentamente e debolmente ma a poco a poco febbrilmente: e infine un giorno tutta la sua anima n’è vinta ed anche il corpo. Egli non sente più neppure la salute fisica che ieri godeva; e allora, ecco, sopravviene la disperazione, il senso dell’inutilità del vivere, la decadenza spirituale. Invano i familiari lottano contro questo male che è solo morale; ogni sforzo a questo fine non solamente non placa il malato ma lo abbatte vieppiù. Comincia allora quello stato morboso della solitudine interiore che nessun medico sa vincere c neppure forse la stessa madre natura. Ma un rimedio la madre lo avrebbe; lo ha anzi dentro di sé ben chiuso da anni; ma come usarlo questo rimedio se nasconde uno dei segreti più gelosi che donna possieda e la cui rivelazione può far germinare nuovi mali ed anche meno sanabili? Come, come dire od un figlio: io ho ingannato tuo padre; tu non sei suo? Ma un medico di famiglia, consiglia alla madre proprio cotesto eroico rimedio: beninteso come menzogna ché egli ignora la verità o forse appena, ma vagamente la intuisce. Il giovane non può essere salvato che a questo patto: perchè il suo male è solo interno e non ci sono farmachi atti a guarire i mali dello spirito. Tentenna tuttavia la madre: chè ella sa quanto geloso amore il figlio nutra per lei: e tra due crolli è difficile una donna scelga: e una madre! Qui il dramma tocca momenti di rara potenza artistica: e queste poche scene fino alla chiusa del secondo atto, sono certamente le più belle del teatro contemporaneo. Ma dopo, si precipita: chè mentre Ottavio lotta tra i due abissi della propria infelicità e per salvarsi dall’uno non vuole precipitare nell’altro, un fatto nuovo sopravviene che lo sospinge a cercare, a costo dell’affetto materno, la propria salvezza fisica e morale: la venuta cioè in paese dell’uomo che la madre un giorno ha amato. La finzione consigliata dal medico s’è insomma risolta in una confessione di avvenimenti reali; ma se questo riesce a rendere più perfetto e più vivo il dramma di martirio della madre, ci lascia poi perplessi nei riguardi di quello di Ottavio: la cui umanità viene troppo a rasentare in queste ultime battute il simbolo o, se volete, l’idea. Infatti Ottavio non è ancora contento della salute recuperata, sia pure a così caro prezzo; e come ieri voleva rifiutare la vita che gli veniva da un tisico, così oggi da un immorale; per crearsela da solo, senza tradizioni e senza pesi atavici. Di qui, il suo ultimo gesto che sa di follia: la distruzione di ogni cosa che gli venga dai morti: e lo slancio deciso ed autonomo verso una vita propria.

«La vita e i suoi morti» che è quanto dire, il diritto di ogni giorno di non guardare indietro ma solo dinanzi a sé; e di non tener conto di quelli che lo hanno generato, inconsapevoli o malvagi o malati e in ogni modo egoisti. Questo, il dramma: che nasconde, come vedete, una tesi, se non nuova, robusta: e che in parte anche la risolve. Dico in parte: perchè quest’uomo, Ottavio, che ha l’esasperazione del libero arbitrio (assoluto non relativo) non sempre soddisfa la nostra sensibilità: e a volte ci appare quasi patologico. Ma questo peraltro non è che il secondo lavoro teatrale di Araquistain (il primo, rappresentato solo per poche sere, non è stato ancora stampato): e non c’è bisogno di riconoscersi profeti dicendo che con un primo passo di questa forza si può fare lungo cammino, ed esprimere in opere più fuse e più umane i problemi e le ansie della nostra inquieta generazione.

Mario Puccini.