Il Baretti - Anno II, n. 13/La lirica tedesca del Novecento

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La lirica tedesca del Novecento

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Il Baretti - Anno II, n. 13 George

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La lirica tedesca nel novecento.

La lirica tedesca, sin che non fanno inaspettata irruzione nei suoi confini le prime puntaglie del simbolismo, si mantiene tenacemente, caparbiamente nazionale. Il suo sviluppo, le sue medesime condizioni d’esistenza sono strettissimamente contessute ai fenomeni della «gens». La poesia sboccia, se pur in leggiadrie non dissuete, dall’umo ferace del sentimento collettivo: esprime il giòlito e il dolore, l’ansia o la speranza di tutta una comunità che convive su un territorio.

Detlev von Liliencron.

Il barbarismo opaco di Detlev von Liliencron non è che il riverbero esatto d’uno stato d’animo ingenerato dalla guerra del settanta; del risveglio imperialistico d'una Germania imbaldanzita da agevoli vittorie. Persino tra le file dei social-democratici che professavano in quell’epoca l’umanitarismo più avanzato, il primo libro del poeta di Kiel, esprimente un ideale di azione battaglieresca agli antipodi con le utopie pacifiste, non dura fatica soverchia a scavarsi un solco d’entusiasmo purpureo.

Liliencron è il tipo perfetto del germanico primitivo, appena levigato dal flusso d’un gorgo secolare, del «Wehrmauri», dell’uomo di guerra, la cui nostalgia permanente, durante il corso dell’esistenza che le sussegue, è la vita reggimentale, la giocondità rozza dei camerati coetanei, e «tutti quei rosei giorni, tutta quell'austera disciplina di sè medesimi», per allegar qui le parole stesse del Poeta.

D’altronde, Detlev von Liliencron non fa della retorica: le campagne d’Austria e di Francia lo sorgiungono in prima linea, con la fronte eretta verso il nemico; ed il suo corpo ne reca una duplice ferita gloriosa.

Per fermo, lex tibi Mars ebbe più senso, per lui, che lex tibi Ars. Sino al crepuscolo ultimo, al bagliore pallido del suo declino di vita, il lirico nudre, nel sangue, la passione indomita delle cavalcate, delle quintane notturne, dei bivacchi sotto il cielo aperto; una esaltazione fervida per la vita pugnace. «Viva il re! Anche nel momento più disperato della monarchia, avrò sul morione il cilestro fiore della fedeltà». Liliencron si sente uno con la sua terra: per lui il despota è tuttavia il riflesso di Dio. Uno dei suoi amici che gli furon più presso, narra come negli anni dopo il congedo, il Poeta si ponesse, alcune sere, accanto a un fonografo, e ascoltasse, in preda ad una eccitazione vivace, le marce militari eseguite dallo strumento. La sua persona atticciata, atletica, potente, s’impennava ai primi squilli dell’inno cui risuonarono le fanfare del Kurfürst; e, caracollando nel breve ambito della stanza, egli simulava l’ambio dei palafreni di Sedlitz.

Tutta la lirica di Liliencron nasce da tale empito, tra il fumo delle esplosioni, o le folate gelide delle aurore che precedono l’attacco; o nei vesperi, quando sulla terra, ove gli uomini s’argomentano a massacrarsi, il cielo piove un suo fievole sorriso d’opale.

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Una poesia tutta d’un pezzo, quadrata come le bugne di basalto che forman la facciata d’un tempio seicentesco. Compatta come una piramide. Non pèrvia a nessun alito molle; ma, talvòlta, tra slanci e galoppi, tutta in tremito d’una angoscia atroce. Liliencron è triste molto di rado: ma tocca, allora, le ultime profondità dell’ambascia desolata, quasi lugubre. Il dolore, se espresso in, cotesta lirica, è tremendo, e agghiada, come il gemito d’un padre che s’abbatta sulla salma d’un figliuolo unico: come il lamento d’un cieco smarrito in una vastitudine immensa, nella tenebra.

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«Sono il più crasso naturalista» scrive il Poeta, in uno dei momenti in cui l’anima prostrata, macera, prova quasi sollievo a straziarsi.

E ancor che l’espressione sia nata da un bisogno di ristoro attraverso l’insulto, noi possiamo, togliendo l’aggiunto «crasso», considerarla pur tuttavia, ai fini della nostra indagine sulla essenza informatrice dell’arte liliencroniana, come vera. Nel lirico di cui teniamo discorso, che ebbe pur lampi d’intuizione precorritori, il naturalismo trova uno dei suoi pilieri ben saldi. L’intimo contenuto di quest’arte, la sua facoltà di vibrare al soffio, sono assai scarsi. O in cima a uno slancio, sul sommo d’un tripudio — sulla piana realtà — o lo stronco completo, la ruina totale. Non v’hanno di quelle zone mediane tra l’eloquio e il grido, che costituiscono il terreno d’intesa e di pacificazione in cui le melodie posson disciogliersi a ghirlande armoniose. O tutto, o nulla: assolutismo ad ogni costo, sì nel mondo materiale sì nello spirituale. In «Poggfred», l’ultimo libro di Liliencron, è scritto: «poter dimenticare, e, pur essendo in vita, considerarsi come defunto, è l’unica felicità che esista sulla terra». E nel «Desiderio postremo»: «Avanti, verso la vittoria! Tremate, o terre! Foschia di scoppi, carneficina. Avanti, senza vacillare! La strada s’allunga tra il bagliore e la polveraja: i vessilli palpitano: avanti!».

E, come la sua opera, la vita del Poeta appare perfettamente conchiusa: un monile ferruminato, esatto, sui polsi di Calliope.

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L’influsso di Liliencron è notevole: non vasto: egli era troppo remoto dalla realtà durevole, troppo saturo di ciò che la sua epoca esprimeva di caduco; ma chiaramente osservabile in parecchie individualità contemporanee. Sovra tutto, il beneficio da lui arrecato alla poesia tedesca, è quello d’un progresso nel senso del semplice, d’una apertura di radaje, nell’aver disserrato le peschiere d’una gora già putre per soverchi sedimenti romantici, nell’aver veduto il mondo con occhi limpidi, forse. Egli ha, per primo, sovvenuto i giovani nel travaglio iniziale di spastojamento, d’infrazione di ritorte, nel saggio d’un anelito indipendente. D’altronde, se la visione è, in Liliencron, quasi sempre rigida, delineata a staglio, quasi già inquadrata fra le sàgome d’una cornice, non gli manca talora il gusto delle lontananze. Nel fervor d’un combattimento, un gregario grida d’improvviso: «Ieri, il nostro antico monarca venne proclamato imperatore!». Il Poeta commenta:

«Le batterie ululano un potente saluto di bronzo,
il sole scialbo d’inverno gitta uno sguardo sghembo
distenebrando le nubi,
e la battaglia s’illumina, color solfureo tutta,
persino a un plotone che marcia, remotissimo,
avverso gli orizzonti cerulei...»

Nè gli fa difetto l’amore alla Natura. Nel seno della Berecinzia, gli son disvelate le ingenue beatitudini: e il senso d’una proprietà puerile gli nasce nell’animo: «Amo ogni fusto come se lo possedessi». E, nel riprodurne gli spettacoli ogni ora cangevoli, non è a lui contesa una certa prestezza e lievità di pennello, e brevità di tocco. Gli si deve, in Germania, la rivalutazione d’una forma sin allora poco adoperata a contener un groppo d’elementi descrittivi: la così detta siciliana, quasi simile alla ottava italica, che Liliencron piega ad affetti di efficacia singolare, e che acquista in tedesco — per recar un esempio evidente — lo stesso squisito sapore della nona rima di Dino Compagni, allor quando è ripresa, con intenti coloristici del pari, da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi.

Affiora cosi, nella poesia liliencroniana, un esitante impressionismo, suscettibile d’infinite sfumature di sviluppo; e che, come quello pittorico, è nato dal medesimo bisogno della libera luce. Ma Detlev non è andato oltre, nei segreti avvolgimenti di questa tecnica: e la sensazione che si riceve da liriche costruite secondo tali dettami è, più che quella d’un esile fil di voce maestrevolmente inflesso, d’un canto modulato a voce piena, e intermesso d’un colpo.

Dehmel.


«Il Poeta non è dèdito più a sognar in secluse
baje azzurre.
Egli rimira, fuor dai castelli, lanciarsi
impetuose gualdane.
Il suo piede calca le salme dei criminali.
Il suo capo s’erge ad accompagnar i popoli,
E diventa il condottiere, l'annunziatore.
La fiamma della sua parola divien musica,
Egli instituisce la grande società degli Stati;
il diritto delle cittadinanze umane,
la repubblica augusta.

Il melopeo non è per Riccardo Dehmel tutto ciò completamente. Ma se il figlio del tagliatore di Wendisch-Hermsdorf ha da esser ricondotto, come genesi spirituale, a Detlev, è appunto in grazia di questo contatto con il proprio tempo, che — nel caso si muta, da un interesse circa la possibilità d’espansione nazionale, in un interesse circa le possibilità di miglioramento del costume, e di accelerazione della venuta di un’epoca ideale. Poiché il Poeta è il fabbro dell’avvenire; il suo stigma consiste nella chiara conscienza della idea morale del tempo. Qui viene a operarsi chiaro il distacco di Dehmel dal suo progenitore. Detlev, non ostante si trovino in lui germi e semente di novità nasciture, è tuttavia un genuino prodotto del naturalismo. Dehmel, per contro, fa primamente atto di fede avversa, scagliandosi con deciso empito contro i baluardi che il naturalismo sostengono, con un libello agile, ricco di puniate, dràstico, geniale. «Poetizzazione e trasfigurazione della realtà, anche per ciò che attiene alla forma: altrimenti siamo perduti. Perchè indugiarci a pescare, con vangajole e canneraye umili, in un stagno? Lanciamo il nostro battello sovra un lago profondo: le reti vi si dismaglieranno». Dehmel vuol disgombrare il campo dai logli e dai rómbici parassiti, a ciò che vi crescano i fiori vermigli del Sogno, e le fulgide spiche che si graniscono d’oro.

•••

Il verso libero, in Germania, ha una storia alquanto diversa che altrove. Non si tratta della subitanea scoperta e della tumultuaria adozione, a poco a poco più diffusa, di procedimenti tecnici apparsi come l’unica via di salvezza dalla schiavitù delle strofi consacrate, avanzanti con passo catafratto implacabile grevissimo; non è da parlar del fenomeno Gustave Kahn, col relativo lancio d’un manifesto, e clamoroso battesimo di novi aèdi e di nove rapsodie. Il vecchio di Weimar, con somma disinvoltura, l’aveva già perfettamente instaurato, e se ne servito più volte con una volubilità divina. Egli conosce ed usa magnificamente anche il polimetro, filiazione moderata delle teorie liberistiche. Ma ancor prima di Goethe, esisteva, nelle lettere germaniche, un moto di opposizione contro la rima fortemente accentuato. Già nel settecento s’era spezzato qualche giavellotto contro la bastia allora tetragona, e Drollingen scrive: «la rima è come, in tempo di guerra, il tamburo dell’arruolatore. Una torma di cialtroni la segue, ma le persone dabbene se ne tengono discoste». La lotta contro la rima fu da principio una lotta contro l’alessandrino, per l’avvento di versi disparati, come il verso dell’ode, l’endecasillabo sciolto, l’esametro. Dopo Klopstock, appaiono i ritmi liberi: ma il loro uso è lacedemonicamente limitato: nè è concesso al poeta d’adoprarli fuorché in effusioni inniche.

In reame alemanno, il primo che si faccia araldo delle libertà ritmiche assentite in America da Whitman al verso, è Arno Holz. Egli, monocolo in terra per allora ben guercia, sciorina un proclama dal titolo senza dubbio sonoro: «Rivoluzione della lirica», ove sono esposti, in periodi — per citar una frase catulliana — davvero politi «arida pùmice» i cànoni statutari del nuovo regime. Al proclama seguono i famosi due libri del «Fantaso»; cui si potrebbe applicare il detto dell’antico sapiente: «nihil sub sole novi», in quanto al contenuto. La forma instaura una sorte di curioso ritorno ai carmi bisantini della decadenza; poiché l’intero effetto d’ogni lirica — più che liriche posson dirsi briciole di lirismo — consiste quasi sempre in una armoniosa disposizione tipografica, in una «mise en page», che si propone l’unico soddisfacimento dell’occhio.

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Nella critica che Arno Holz muove alla poesia vigente all’epoca di pubblicazione del suo manifesto rivoluzionario, si trova questo brano: «lo scopo della poesia attuale non è un ritmo che viva in grazia di ciò che per suo mezzo giunge ad esprimersi, bensì un ritmo che gioisce della propria esistenza considerata meramente come tale». A un principio siffatto vien posto a fronte l’altro: «noi vogliamo una lirica che rinunzi ad ogni mera musica verbale, e che sia unicamente suscitata da un ritmo il quale viva soltanto in grazia di ciò che per suo mezzo giunge ad esprimersi». Era sancito con ciò un dogma esattissimo: quello dell’esistenza d’un ritmo solamente interiore. Ma si abdicava, d’altra parte, a tutte le infinite posibilità di suggestione e di evocazione offerte dalla musica verbale, dalla melodia periodica o discontinua che sembra generarsi sulla superficie delle parole come un madóre leggero sulle pareti d’una coppa di cristallo.

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Lo sforzo di Dehmel è, invece, verso l’intimo, «Tutte le cose intime sono melodiose» osserva il filosofo.

Dehmel non poteva appagarsi d’un nudo ritmo, d’un ritmo spogliato della clàmide risplendente delle armonie. Egli scende nel profondo dove tutte le musiche sono in potenza. Ne discovre le radici, scavandone d’ogni intorno le zolle; e le radiche ignude, ristorate da portentose rugiade, vengono in succhio, mettono le brocche, si dispiegano in gemme, sbocciano i calici. Il verso libero di Dehmel riceve un crisma più alto che non le esigue costruzioni simmetriche, le ingegnose sovrapposizioni di valori lineari escogitate da Arno Holz. Il creatore può considerar tutto questo, come dice Schumann, «danze di elfi», lievi minuzie. A contener il getto incandescente delle sue inspirazioni, si ricerca altro crogiuolo.

Ricordate con quale ammirevole sapienza l’umorista di Düsseldorf, fanciullo dalle deliziose effusioni, che si volge alla patria, dopo d’averla diuturnamente bestemmiata, con quel movimento incantevole: «O Germania, o mio lontano amore!» abbia foggiato il verso libero, appena macolandolo di rime, nel «Mare del nord?» Ivi il ritmo si sfrena in un baccanale superbo, o si fa segreto e misterioso come una formula rùnica, rùhbola sommesso come i timpani dell’uragano, o flutta sontuoso e triste come gli sciàmiti occidentali. Dehmel riceve la tradizione di questa tecnica dalle mani di Heine. Potentemente ripiegato su sé, crea nel suo spirito l’Universo, più che non si dia a notarne le parvenze con uno sguardo attento al palpito della realtà fugace. La lirica di Arno Holz è statica, musiva: tarsia di gemme, il cui fulgorio non saputo armonizzare suscita l’impressione d’un distacco di toni frigidi; quella di Dehmel mirabilmente fluida, gorgo che si fa musica nel suo stesso trascorrere verso la foce. L’una, specchio che riflette, sol con una lucentezza più grande, le imagini degli oggetti: l’altra, ramo che vibra non appena un aligero, con un salto aereo, vi venga a sostarsi, o lo abbandoni scoccando verso l’Azzurro.

O mia pallida sposa! O nuvola scialba
nelle braccia dell’uragano! O capo tremulo
recline, fuor dai tuoi veli, sovra il mio grembo!
Ora tu t’invermigli, o segretamente volenterosa,
ora tu dischiudi gli occhi trasfigurati dal cuore,
ora fuor dalle labbra ti prorompe il mio nome


Siamo soli. Deh, vieni: oggi non v’hanno da es-
oggi tutte le luci rispondono, (sere ombre:
tu l’irrori d’un lago di luce,
tu, o àlbatro bianco!
Io divieto alla castità dei cieli
d’ascoltarci: odi: il velario fràscia: vieni!
Accecherò ogni spiraglio, ( genteo,
si che nè pur la notte, la notte azzurrina ed arsì
che nè pur la pura vampa siderale
si turbi invidiosamente nel mirare la tua purità.


Getta la corona mìrtea, getta il cintiglio, vieni,
sei sola! Le giovini rose soltanto,
ebbre di sonno, chine sul nostro talamo,
sognano, palpitanti d’effluvio,
al purpureo dischiudersi delle pavide gemme.


E come in sogno, come su leggeri effluvi,
da luce a luce con corusche mani
io scivolo e ti accenno.
Ora cadono e spajono
chiari, via da noi, tutti i velami terrestri;
tu sali verso di me sovra fiotti di seta.
e, seno sul seno, sopraffatti da brividi abbaglianti,
ravvolti nella ampia nube di tenebre d’orò,
ci cullano ali distendèntisi lontane,
l’uno in grembo dell’altra giacendo
nei giardini dell’Eternità.
Le fiamme della passione crescono,
i rivoli dell’adempimento (litudine:
mescono in uno le anime che palpitavano nella so-
palpito in palpito, versati in luce dissanguano,
folli di nostalgia, i desideri che si dibattono;
in alto sale, come un gorgo, beata sino alla morte,
(fa volontà,
mentre, assetato, la circonfluisce l’alito dell’onni-
(potenza,
e l’Amore abbassa l’ali che solcano il mondo,
per riposar dei suoi voli presso il cuore di Dio,
mostrando, per anche, le lacrime che risplendono
al sua fiato fecondatore,
Io sento — senti tu, o Amata?
murmurare le fonti della Vita:
ebrio, balbetto la parola creatrice...».


•••

In indoli come quella di Dehmel, l’interesse verso i grandi problemi sociali è un modo di rimorso per il troppo amore mostrato a se stessi nell’aver per innanzi costretto la poesia a fissar come unico segno l’anima mutevole dell’individuo. Perciò, quanto, al Poeta, in simil caso, suggerisce il sorgere d’un sentimento siffatto, reca l’impronta d’una innaturalezza, d’una poco sapidità conspicua. La lirica del vero Dehmel è, per contrario, essenzialmente una lirica di confessione, di partecipazione personale. Egli prova un acuto piacer doloroso a ignudarsi, a prendervi alla gola con una rivelazione sùbita e paurosa. «C’è in noi qualcosa di perennemente solitario: questo appunto ci unisce». Il suo singulto è sempre sincero; la sua lancetta si affonda sempre nella carne viva. E’ in lui il duolo che insidia le fibre più riposte dell’anima, ivi appiattato come un morbo dissolvitore ed inestirpabile: come la cùscuta che oprrime e soffoca il fiore fragrante del caprifoglio. La sua rada gaiezza non è quella del sole ampio, ma quella d’un cielo autunnale che buratta la luce da un velo immobile e bianco di nuvole. Il canto di fanciulli che si anunzia negli ultimi versi della «Città calma», più che lenir e spegnere, con la sua placida coralità, il grigiore evocato in noi dalle modulazioni delle prime strofi, lo rende più acerbo. Se dovessi trovar per Dehmel una frase che mi paresse circoscrivere il senso speciale, il gusto ed il sapore della sua lirica, la assomiglierei ad una musica udita un giorno in compagnia d’una persona infinitamente diletta, e riascoltata dopo che essa è scomparsa dalla nostra vita per sempre.

«Èspero bianco
bacia, soave,
i rami.
Un sussurrìo persiste
tra i frondami,
come se il bosco,
stanco,
ceda alle lusinghe d’un sogno:
o Diletta...

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Pescaje tranquille
specchiano argentei salci che vi
brillano.
L’ombra trema
su l’onda,
l’aura geme
fra i pioppi;
noi siamo immersi in un sogno
profondo.


Le lontananze fulgono
e fanno un gesto di pace.
La nostalgia
solleva, pallida,
il suo umile velo ceruleo
sin verso le plaghe del cielo:
oh sparire, oh vanire
in un illimite sogno...».


«Quando la pioggia
sgronda dalle
docce,
di notte, tu giaci ed ascolti:
son chiusi i serrami: niuno
può penetrar in casa,


E tu giaci sola;
sola: e murmuri: «Oh, fosse,
foss’egli qui...».
Allora qualcuno picchia,
picchia forte
alla porta:
si che l’orologio ne trema
— tu ascolti? — sommesso,
fievole, leggero...
E, quindi a poco,
s’instaura una calma mortale...».

Gustavo Falke.

Gustavo Falke è il sidere della poesia alemanna tra il 1890 e il 1910, e ne domina tutto il cielo, benché esso sia cosparso di costellazioni lucidissime. Egli sta, solo, sulla vastitudine azzurra; solo e desolato, e si consuma nel proprio fulgore.

Il Poeta è di Lubecca, la libera città rèttasi con liberi statuti, con poche altre, emergente dalla fitta rete di ghilde anseàtiche onde s’eran avvinti in mutua dipendenza i borghi del medio evo.

Ma la sua vita è trascorsa quasi per intero ad Amburgo, ch’egli considerava patria elettiva. Doveva impiantarvi, per voler dei parenti, un negozio di libri; ma preferì fermarvi la sua attività di didatta. Egli ha insegnato musica: era maestro di piano.

Niun pretesto più comodo ad un ermenèuta — non è vero? — per districar dalle ombre della selva lirica le scaturigini variamente armoniose che vi rimurmurano.

Falke comincia a produrre sul tardo; e, esempio di modestia raro, senza troppa fede in sé stesso. A sua medesima detta, una lettera elogiativa di Detlev, giuntagli quando aveva già toccato le soglie del quarantesimo anno, lo rafferma nella, convinzione d' esser uno dei porfirogeniti. «Da allora, fui poeta con una certa saldezza». Pubblicava in quel tempo la prima raccolta di liriche: «Mynheer la morte»(1891).

La curva evolutiva di Falke è connaturale ad ogni verace poesia: dal pittoresco al lineare, dall'abbagliante al semplice, dal violento al calmo. Egli delimita precisamente le dighe del suo mondo interno: «un’intima, una tranquilla esperienza, poetizzata in parole, suoni imagini». Entro una siffatta demarcazione di confini, possiamo distinguere però tre regioni differenti.

Da principio è il regno del raccoglimento familiare, è quel genere di lirica che, per primo, il Pascoli ha instaurato tra noi; è quella felicità che sboccia allor quando s’è radunati a cerco intorno al crepuscolo languente dei focolari: herddämmerglück. E’ quel senso così particolare ai germanici, e così fecondo, nella loro istoria musicale e letteraria, di conseguenze creative. Quel compenetrarsi, quel convibrare delle anime nell’atmosfera senza mutamento delle stanze serali, quando, dopo il giorno laborioso, l’agitato respiro si placa, e lo spirito s’adagia nel sopore del sogno. Sorgono allora i temi, i canti, che di necessità hanno le stimate di una profonda nostalgia.

Poiché nostalgia, dice Lenau,

«è l’approssimarsi dell’amore,
nostalgia, l’essenza delle dimande mai paghe,
e d’ogni più grande gesto dell’uomo;
nostalgia, è il prodigio delle rinunzie celesti».

Chiunque ha dimestichezza con la musa di Edoardo Grieg, il musico che meglio di niun altro ha saputo colpir il nòcciolo di questi sentimenti, comprende di leggèri. E nel senso di quei motivi delicatissimi, di quella semplice squisita atmosfera, son tenute le prime poesie di Falke. Nella silenziosa penombra, appena intermessa dallo svampo e dal chiocco del ceppo che brucia sull’alare, sgorgano liriche come: «Pausa » in cui il Poeta cerca, e crede d’aver trovato, una conciliazione fra le aspirazioni impetuose del cuore, e la felicità borghese della famiglia: «il ritmo, insomma, che giace nell’antinomia tra il desiderio e il dovere».

Ma tale illusorio contentamento comincia ad essere scosso dal predominio inevitabile delle

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forze che operano, anche inconscio Falke, nei gùrgitì oscuri dell’anima sua. Allora il silenzio delle camere tepenti, il sorriso dei bimbi, le placide lune delle lampade sbocciate sui maintili candidi delle tavole, non hanno per lui più significato; e la calma è solcata da appelli inquietanti, il velo delle penombre si squarcia, il passo dell’ore risuona.

Ed ecco il Poeta volgersi, fuor dalle pareti domestiche, alla materna Natura per chiederle un dittamo che lo disacerbi: per domandarle che ella faccia sopra di lui il gesto di Amleto: «Peace o perturbed spirit».

Eccolo fra i tramiti solitari della campagna snicurbana, a scrutar il mistero delle pietre, a smarrirsi dinanzi il guaime pur mo’ nato, ad interrogar le fogliette dei mandorli, in cerca d’una pace che lo evita, allor quando proprio egli crede d’averla carpita e di possederla prigione. Ecco ch’egli riprende contatto con gli esseri più umili per assimilarsi a loro, per sentirsene, in certo qual modo, consanguineo.

«Un solitario tramite lungh'esso
tombe: l’eco d’una vita
esiguissima: il ronzo
de’ dìtteri: e, fra l’erba,
un grillo.


Lieve undular di steli
che trascolorano a un soffio;
la chiarità meridiana;
e — d’intorno — la calma,
la pace...».

Ma tutti gli sforzi succedono vani. Falke prova la tortura d’Amfortas che sente mordersi il petto dalla piaga che aperse i fianchi del galileo. Gli sembra d’aver gustato il filtro di Tristano: «Io, io lo composi! Dall’angoscia paterna, dall’ansia materna, dalle lacrime d’amore, dal riso e dal pianto, dalla voluttà e dalle ferite, io trassi il veleno del filtro!». Il Poeta giunge a quel punto in cui dalla furibonda fornace dello spirito s’innalzano incendii paurosi. Attinge il sommo del parossismo sinfonico. Fantastici lampi sguisciano nella tenebra. Il suo paesaggio interiore assume non so che di difforme, di allucinato, di spettrale. Nasce allora un frammento portentoso: «La vallèa delle fiamme».

«Una rupe, intercisa in neri spechi,
circoscrive una valle, non per anche
calpesta da vestigio d' uomo o làbili
orme di fiera. Niun ronzio d’insetto,
niun vol d’uccelli, niun àlito d’essere
vivo rompon la calma solitudine
di questa valle. Ed ivi sull’ignudo
fondo, fiorisce il càlcare un giardino —
meravigliosamente — armonioso di fiamme.


Alte, solenni come templi,
vi brucian due solinghe vampe, gèmine,
azzurre, simili a cipressi, quasi
immobili. Sommessamente tremano,
in alto, aguzzi. I vertici del fuoco,
E attorno, tutto è simile a un’ajola
di fiamme. Qui, tranquille, risplendenti
d’un fulgore perpetuo; là, agitate,
svolazzanti, in tempesta: alla lontana,
affaticate, fievoli, languenti
d’un bagliore postremo, Lingueggiando
qui, in un tripudio e un giòlito selvaggio,
come danze di spade: palpitando
lunge, d’un doloroso sforzo, come
anime oppresse d’un insonne fascio
di nostalgie.


Nel gioco delle luci,
vibrano, alterne, sovra l'elivo, l’ombre:
in ridde senza tregua il giorno, quando,
sovra d’esse, s' illumina l’imagine
del cielo, e le rischiara: in ridde senza
tregue la notte, quando il cupo volto
della tenebra péncola sul botro,
e indietreggia, repente, sbigottito
dai fuochi azzurri. E, ad ora ad ora, estinguersi


una fiammella stanca, con un piano
singulto, che disperdesi nell’inno,
nel cantico di questo prodigioso
giardino. Ma corolle nòve sgorgano
dal sasso. Il lor profumo è canto. Un lieve,
un lene canto, che, di tempo in tempo,
rado, inforza più pieno. Ed, a fatica
visibile, un vapor sottile, un fiato
fine salgono e adunanti, in esigue
nuvole, al sommo; e — simili a verginee
anime ch’han sognato tutto il sogno
della Vita — vaniscono ne l'aure».