Il Baretti - Anno II, nn. 6-7/Lettera in morte di Jacques Riviére

Da Wikisource.
Guglielmo Alberti

Lettera in morte di Jacques Riviére ../Proust ../Paul Valéry IncludiIntestazione 19 marzo 2020 100% Da definire

Proust Paul Valéry

[p. 2 modifica]

Lettera

in morte di Jacques Riviére

Les affections me viennent

beaucoup de l’esprit.


Caro Pilade,

incomincio col ringraziarli della tua lettera. Ma non sperare (o temere) che ti risponda. Non t’inganniamo nè l’uno nè l’altro circa il valore di questa corrispondenza. La tua, la mia esperienza è più larga di quel che a un disattento non paia. E la forma individuale del discorso non è che il pratico mezzo per tradurre nei termini più intelligibili che ci son consentiti, idee parecchio generali. Se hai stimato di poter rompere il silenzio, appunto è perché prender corpo non significava per te scendere a discussione polemica; ma solamente occupare una pausa con variazioni tue su di un tema così obbligato da essere irrecusabile come tutto quel che ci condiziona. Grazie dunque. E a me!

La lettera d’oggi ho indugiato un pezzo a scriverla. Perchè è una gran tentazione sempre quella che ci vorrebbe persuadere della inutilità della scrittura. Mentre d’altro canto come venirne a capo di quel segreto impegno con sè stessi di vederci un po’ più chiaro in certe questioni che del resto poi hai un bel svoltare e volerle eludere, non cessano di riproportisi a ogni canto di via. Vengo al fatto.

La morte di Jacques Riviére ha occupato i miei pensieri più di quel che non avrei immaginato. Questa morte (a trentott’anni) contro la quale i suoi amici narrano ch’egli accanitamente ha combattuto durante i pochi giorni della malattia. Lui che, or sono due anni circa, dichiarava: «cette espèce de rage avec laquelle je rèagis toujours dans le sens de la vie. Dans ma lutte pour vivre, je ne m’avouerai vaincu qu’en pendant le souffle même» (1).

Un certo disagio m’aveva sempre pervaso al contatto dell’opera di Riviére, una insoddisfazione per i limiti entro i quali lo vedevo sforzarsi a costringere l’emozioni. E mi spazientiva quella sua instancabile mania di ragionarle, teorizzarla, mania veramente che null’altro mi pareva guidare se non una vacua preoccupazione di nulla lasciar sfuggire all’analisi dei sentimenti umani o più precisamente del moi. Uno dei suoi convincimenti era appunto, come dice nel concludere una nota su «Dostoiewsky et l’insondable»: «En psychologie, la véritable profondeur c’est celle qu’on explore» (2).

Fin dalle Etudes, via via per i vari saggi pubblicati sulla Nouvelle Revue Française, fino ad Aimèe e più in qua, questa volontà la ritrovavo così insistente nel suo trar vita da sè soltanto senza giungere mai a metter frutti da poter staccare dal ramo (la grazia della fioritura di Aimèe vedi com’è riuscita artificiosa, quasi astratta, e priva di virtù simpatica!) che avevo finito per scostarmi alcun po’ infastidito da Riviére, come da uno sterile albero parlante, intento solo a indagare, cogliere e pago, pareva, di raccontare, le vie segrete della sua germinazione solitaria. Venivo così a non riuscire di considerare costui altrimenti di un ingenuo Narciso, chino sulla sua immagine riflessa dal flutto interiore. Mi sfuggiva a che grado gli era negato di amarsi. Questo è il punto. Per poco non gl’indirizzavo certi antichi versi di Cecchi:

Tu che ti accetti calmo come un albero!
E sullo strame
delle tue combinate insufficienze
tenace covi il tubero spugnoso
della tua arte!

E invece bisogna proprio arrendersi a constatare quanto scevra da ogni elemento non strettamente intellettuale sia la compiacenza d’una tale indagine. C’è qualche ingenuità dopo aver dichiarato: «C’est la passion de la connaissance qui m’anime» ad aggiunger subito: «la seule qui sont vraiment impie» (3). Ma il peculiare scrupolo di sincerità di Rivière ci rivela in queste parole il centro animatore della sua vita. Dove leggi impie intendi un aggettivo inteso a qualificare questo sentimento di curiosità appassionata, che gli fa preferire (stimandola egli possibile) una perfetta, positiva conoscenza di sè stesso a qualsiasi rifegrazione di sè in uno di quelli che egli chiamerà «de vastes mythes satisfaisants». (4). Preferenza incontrastabile, perchè irreducibile questo sentimento. Ridurlo, Riviére sentiva che per lui sarebbe equivalso ad annullarsi. Ma questa necessità incombente su di sè non è senza lacerazioni e contrasti che la prova: egli la sopporta più di quel che non l’ami. Piuttosto è come una frenesia, che lo pervade talora di gaiezza, ma di una gaiezza asciutta, solitaria. La sua particolare ammirazione per Stendhal si esprime in questa lode: «Jamais il n’esquive rien de lui-même. Pourtaut, corregge subito, je ne puis l’aimer sans gêne... il m'apparait déformé par l’excercice de cette sincérité que j’admire en lui. Je le vois peu à peu saisi par l’isolcement; peu à peu il perd communication avec les événements... il ne prend d’eux que le psychologique... il ne leur demande que de déclancher son âme» (5). E finalmente rivolgendosi a Stendhal — non solo, ma quasi anche o quella parte di sè stesso per la quale Stendhal è appunto giunto a toccarlo così profondamente, rompe in questa esclamazione: «Pauvre grande âme maladroite! Elle est exclue de partout. On s’est passé d’elle. Plus rien ne lui est domandé. Elle est frappée du grand malheur d’être inutile. Elle était trop attentive, elle hésitait au moindre sacrifice. Stendhal s’est attaché comme un confident à sa propre personne; il ne peut plus entrer nulle part avec celui-là qui le suit» (6).

Quanto a sè stesso, Riviére, in una sola frase riassume tutte le sue necessità, i suoi limiti le sue contraddizioni: «Il est plus difficile, et plus gai d'être sincère que d’être juste» (7). Più difficile. [p. 3 modifica] Rinunzia alla facilità. Ma rinunzia necessaria in quanto sola gli permette un conveniente e genuino impiego delle sue facoltà, il più completo rendimento di sè. Rinunzia quindi all’arte come lusinga premeditata, alla flatterie, alla seduzione del lettore. Non si darà che a questa paziente investigazione del cuore umano e dei suoi moti. Perchè soltanto nel perseguire questa investigazione una gaia lena lo anima, riprova, indubitabile segno della sua più particolare attitudine, quella in cui si può spender tutto nell’integrità più completa, disinteressatamente.

Il nodo originale (vorrei dire drammatico) della vita di Rivière è in questa istintiva prepotente necessità di vederci chiaro. Come dice dei suoi maestri Descartes, Racine, Marivaux, Ingres egli è mio di quelli che rifiutano l’ombra. (Ma la chiarezza di Racine non è spesso ingannevole, per vero! «une plus spécieuse ceinture» come dice Gide!) Riviére inclina violentemente a negare «l’infini psycologique» (8). Egli ricusa il mistero.

Il buio groviglio di radici sotterranee che ciascuno di noi è per sè stesso, e dall’approfondimento del quale, mediante una interpretazione inavitabile, il moralista si adopra soltanto a scoprire, a inventare, le condizioni di esistenza e di sviluppo della pianta «uomo» (come diceva Nietzsche) - Rivière non vuole, ma non può, che illuminarlo, palparlo, studiarlo. E’ un soufflé sans amour, un conseil brûlant che lo urge: «Apprend de toi ce qu’on peut en savoir!» (9).

Questa ricerca gli diventa una fine in sè. Del demonio interiore non si libera mediante la purgazione artistica. Gli è negato di potersi considerare come alcunché da render gradevole a chicchessia: «Je suis une chose pour moi, dont il faut que je m’empare par l’esprit. Je suis un objet d’expérience:... Je n’ai pas assez pour moi de cet amour que Dieu a pour sa créature. Je manque pour moi-même de charité. Je ne suis pas pour moi cet être baptisé, cette chère âme en epreuve ici-bas et qui d’abord doit être sauvée. Ah! je prie Dieu chaque jour qu’il me donne la vie éternelle, mais je ne sait m’aimer comme un être promis à cette formidable dignité» (10). Egli è dinanzi alla sua anima nel medesimo rapporto di François dinanzi a Aimée. E nell’opera di Riviére, che è tutta un rifiuto di ogni alchimia, la vicenda di François sta appunto a provare che nulla per lui poteva comportare in alcun modo di magico «l’étude - du bonheur que nul n’élude».

«Dans tout le personnage d’Aimée il y avait quelque chose qui ressemblait à la vérité. Et mon enthousiasme en le peignant, c’est bien celui qu’on eprouve lorsqu’on poursuit la vérité; une grande contention, une admiration pleine de cris empéchés, un transport sans cesse brisé par la crainte del mal voir, quelque chose d'effréné et d'essoufflè à la fois. Les traits que j'aperçois ne prétent pas sous l'effort de mon esprit, ils sont rebelles au foisonnement. Mais de les inscrire seulement, de relever chacun dans sa dure élégance, c'en est assez pour me remplir le coeur» (11).

Pilade, è dinanzi a questa modestia ostinata che m'inchino. Il giudizio sull’opera m’accorgo che troppo spesso rischia di trascinarne uno sull’autore: e proprio perchè dell’autore molto c’importa. Avviene così che quando la nostra sete di ammirazione è delusa il risentimento ci acceca. Sappiamo invece essere umili! Vedi l’esempio di Riviére: come coraggiosa e valida la sua accettazione. L’8 giugno 1912 scriveva a André Gide: «Mais je sais, je vois de mieux en mieux le domaine qui m’est résérvé, c’est à dire celui où mes conceptions se présentent avec le caractère de la nécessité. C’est le domaine de la psychologie pure. Je suis irrémédiablement condamné aux genres barbants, à faire de ces livres qu‘on ne peut pas lire, parce qu’ils ne représentent rien aux yeux. Tant pis! Il faut faire son metier, et pas celui du voisin... Croyez encore en moi, mais comme à un écrivain rasant. C’est ma seule valeur» (12).

Il valore di Rivière è in questa semplice subordinazione di sè non già ad alcunché che lo trascenda, ma, nella terrena gerarchia, alla parte che il senso d’una predestinazione interiore lo convince essergli assegnata. E il mio risentimento scopro che si alimentava proprio di quel che ora m’è ragione di ammirato rispetto. «Il y a beaucoup de grandeur dans un peu de vérité» (13). Il dono di quest’uomo a quelli del suo tempo si assomma nella sistematica confessione delle sue rigorose esperienze. Tutto il nostro tempo ve lo troviamo riflesso. Rivière non si è speso che a questa opera di rivivere altrui: e ricavarne le più precise mises au point nei riguardi del tempo e dello spazio. Siamo noi così impazienti da non saperci soddisfare di un tal dono? O forse che non amiamo abbastanza la verità?

Quel che più mi tocca l’animo nella vita di Jacques Rivière è quel suo sereno e doloroso rifiuto della part de Dieu. Sul letto di morte, dove disperatamente ha lottato gemendo, gli si sarà rivelato all’estremo, infine consolatore e vivificante, quell’appena percettibile anelito alla fede che un giorno s’era pur dovuto riconoscere in cuore? - «O frêle et étrange désir qui en moi n’es pas de moi!». E del quale, al termine della più disagevole delle sue confessioni, si chiedeva: «Est-ce la grâce!» (14).

Oreste.





(1) Une correspondance. N. R. F., 1 settembre 1924, pag. 309. (2) De Dostoiewsky et de l'insondable. N. R. F., 1 febbraio 1922, pag. 178. (3) De la foi. N. R, F. 1 dicembre 1912, pag. 993. (4) Marcel Proust et l’esprit positif. N.R.F., 1 gennaio 1923, pag. 182. (5) De la sincérité envers soi-même. N. R. F., 1 gennaio 1912, pag. 16. (6) Id. id., pag. 17. (7) Id. Id., pag. 9. (8) De Dostoiewsky et de l’insondable. N. R. F. 1 febbraio 1922, pag. 178. (9) De la foi. N. R. F., 1 dicembre 1912, pag. 993. (10) Id. id., pag. 994. (11) Aimée., pag. 82. (12) Hommage à Jacques Riviére. N. R. F., 1 aprile 1925, pag. 771. (13) La crise du concept de littérature. N. R. F., 1 febbraio 1924, pag. 170. (14) De la foi. N. R. F., 1 dicembre 1912, pag. 997.