Il Baretti - Anno II, nn. 6-7/Proust
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Lettera in morte di Jacques Riviére | ► |
PROUST
I.
Proust ha quasi terminato il suo turno di autore alla moda: dunque, si può parlare di Proust. Il vezzo, adesso, è di stroncarlo, o quasi: quanto meno, di far sentire che la sua causa è, da un pezzo, res judicata e che perfin le censure che gli si possono muovere sono risapute da tempo. Dicono, per esempio, così: — quel Proust che, dopo tanti anni e tante centinaia di pagine stipatissime, non ha finito ancora di raccontarci i casi suoi — oppure: — tregua, tregua con codesto Proust che si accinge a smontare i congegni del «bel mondo» parigino e si dà l’aria di fare delle rivelazioni su certa «franc-maçonnerie d’usages» e «héritage de traditions»: segreti di Pulcinella! che a Parigi qualunque persona di qualità li conosce tutti. — (Quasi che il romanzo di Proust debba considerarsi come una novissima versione dei Misteri di Parigi, rovesciata sullo sfondo del faubourg St. Germain). Dicono coteste cose, o altre tali. Vero è che ormai, con Proust, si sono ridotti ad avere cattivo gioco i professionisti della «scoperta» di novità letterarie; che sono poi quelli che amministrano ai poeti, nuovi venuti, la cresima di una prima nominanza. Proust: ormai tutti sanno di che si tratta. E la sua «fortuna» è forse entrata in quella crisi, da cui i discordi clamori del successo immediato usciranno composti e armonizzati nel più probo e scolio giudizio della vera gloria. Frattanto, cessata l’invasione dei turisti frettolosi, pare che, in un’aria rifattasi propizia e consenziente e fedele, tornino a fiorire i soavi biancospini delle siepi, du côté de Méséglise. E fiorisce, sulle vetrate della chiesa di Combray, l’apoteosi delle dame e dei signori onde quella terra fu illustre; e fioriscono i santi sulle guglie della cattedrale di Balbec. Swann con la sua galanteria che a noi pare un poco vieux jeux, tanto è squisita ed attenta, riaccompagna ogni sera la sua Odette; o s’illude di essere assorto in chi sa che gravi cure se, quando i pensieri gli fanno d’improvviso «scena vuota», si metta a rasciugare, con volto pensieroso, il suo monocolo; o tenta redimersi dall’umilazione di tante pene d’amore perdute per una poco spirituale donna, volgendo la mente ad uno studio che si propone di compiere, sulla pittura di Ver Meer. Lungo la marina di Balbec passa Albertine, sportiva ed altera, tra la petite bande delle amiche sue, jeunes filles en fleurs; mentre, di quella medesima marina, Elstir pittore ricrea la gloria e l’incanto sulle sue tele divinatrici.
Si cita a caso. Un indice dei morceaux choisis di Proust l’abbiamo tutti in mente; nè stenteremmo a metterci d’accordo sulle preferenze. Quella che conta, è la grande docilità con cui l’opera di Proust si assoggetta ad essere smembrata in morceaux choisis. Pure essa presenta, se altre mai, il carattere della continuità; ed in tal misura, che sembra affatto invisibile a chi ne segua l’ininterrotto, e quasi fatale, fluire. L’episodio non vi nasce come episodio, con qualche suo specifico colore e suono ed aspetto che lo sollevino sul contesto: anzi, il flusso del romanzo si serba indifferente al formarsi degli episodi nè si arresta, per isolarli, in pause di attesa che li precedano od in silenzi raccolti che li seguano. O forse che la continuità del dire proustiano è fittizia ed accessoria? è continuità della trama o di qualche altra macchina destinata a surrogare la continuità dell’ispirazione: continuità della terra calva e sassosa che, nel prato rado, si mostra tra le erbe? o si tratta, sì, di vera continuità, ma indifferente e simile alla voracità di certi mostri favolosi che si nutrono di alberi e pietre e paracarri: un potere di assorbire, senza scelta, qualunque materia e di ridurla tutta a un denominatore comune? ne uscirebbe una sequela vermiforme di anelli tutti uguali, infilati l’uno dopo l’altro; ed allora avrebbe ragione Paul Valéry che, in una conversazione riferita dal Cecchi, proponeva di sottoporre il romanzo di Proust all’esperimento che fanno i ragazzi coi vermi: mutilarlo di intere parti per constatare che la fisionomia non ne muta. Senonchè l’intenzione con cui ci accade spesso di evocare questo o quel tratto del romanzo proustiano, non tanto mira ad operare una scelta antologica, quanto ad immetterci direttamente nel cuore dell’opera di Proust, a farci respirare col ritmo di essa. La Recherche du temps perdu si lascia ridurre a frammenti perchè ogni suo frammento basta, in un certo senso, a indicarla tutta intera. Se ci proviamo a staccare un episodio da qualunque altro romanzo, sempre ritroveremo i segni della frattura: faccie scabre e sparse dei mobili luccicori della pietra grezza, che domandano di venire riconnesse con le faccie complementari da cui furono disgiunte. Ma un episodio di Proust non si isola tra due fratture, bensì risolve, trepido, in due echi e dolcemente vi si perde: e nell’una, par che palpiti la moltitudine sonora di tutte le figure precedenti; e nell’altra, che siano presentite le persuasioni liriche ed i germi da cui sorgeranno le figure seguenti. Con la debita discrezione, la Recherche può paragonarsi a quelle curve di cui i geometri sanno ricostruire l’andamento, quando ne conoscano un solo tratto; perchè, come dicono, ciascun tratto vale a denunciare la legge e la ragion del moto onde la curva fu descritta. Qualche volta, scorrendo su sè medesima, essa si annoda in una linea più attraente, su cui piace indugiare alquanto, ma quell’amabile disegno sta a provare, oltre che se stesso, tutto il resto del tracciato. Un wagneriano, se gli richiamate i nomi, anche soltanto i di Incantesimo del fuoco o di Preludio e morte di Isotta, produce in sè un certo equivalente fulmineo di tutte le musiche di Wagner, e di tutte le estasi e di tutti i rapimenti cui essa adduce: tutti quei Walhalla raggianti al sommo di eterei e sonori arcobaleni. Meglio che di un pot-pourri istantaneo, si parlerebbe di un vero mito della musicalità wagneriana: mito pregnante, simbolico e perfino leggermente esoterico, quale poteva riuscire, poniamo, per la fantasia pagana, una figurazione di Venere, adorata come patrona del tempo di primavera: la curva di un braccio proteso nell’aria chiudeva, nel suo molle giro, tutte le voci e gli effluvi e i sorrisi e gli amori della nuova stagione. Sentimenti analoghi proverà il lettore di Proust quando gli venga ricordato un punto qualunque della Recherche: le pagine sullo stile di Bergotte, puta caso, o la serata dei Guermantes all’Opéra. Certo, di ogni artista che ci sia famigliare, noi possediamo, in qualche regione conosciuta della nostra coltura, una cifra che, fino a nuovo ordine, ce lo rappresenta. Ma bene spesso è forza — chi non si contenti di sommarie approssimazioni — ritrovare, nel cuore di codeste cifre, le rappresentazioni particolari che esse condensano: così ritrovate, tali rappresentazioni rendono nuova luce, e si mantengono al calore di fusione, pronte a ridisciogliersi e ad orientarsi nel senso complessivo dell’opera che le reca. Con un ritmo siffatto, vedremo volta a volta la cifra di Flaubert concretarsi nella immagine della diligenza che conduce Emma Bovary a Rouen, o nella musica l’idillio tra Frèderic Moreau e Rosannette; o il nostro Verdi risolvere, caso per caso, nel terzo atto di Aida o nel preludio della Traviata. Invece per Proust, come già per Wagner, quella cifra vuole mantenersi in una complessità insolubile e rifiuta di esere distesa in figure particolari e discorsa per elementi analitici. Non si dipana; ma ha virtù di ricreare per noi, in un foi, tutta intera l’opera del maestro.
Per tentare di intenderci rapidamente, diciamo che Proust ammette di essere quintessenziato in una certa musica continua, in un riconoscibile tono, nel quale tutto il suo romanzo è sommerso. Un vero «tono Proust». Che si rivela attraverso qualsiasi frammento: non si esaurisce in alcuno. Ed esercita suggestioni così imperiose, che vien fatto di attribuirgli un’esistenza sua propria: staccata, astratta ed oggettiva. Basterebbe, in proposito, ricordare la strana necessità a cui soggiace chiunque rievochi un tratto della Recherche. Se volesse rammentare un episodio di Balzac o di Dostojewskji, costui si contenterebbe di fornircene un riassunto; ma, trovandosi alle prese con Proust, cambierà voce e imprimerà certe larghe inflessioni al suo dire e tenterà di smorzare le parole, suggerendole con un timbro velato e spento, simile a quello di persona dolente e alquanto remota. Si adoprerà cioè a comunicare almeno la nostalgia di un’intonazione che era nell’originale, e che, nelle parole sue, si è dissipata. Nè si tratta dello scrupolo di chi, citando, si trovi avere disfatto un bel verso in una prosa informe e sgraziata: che, in questo caso, il canto perduto par cito si trovi ancora nelle possibilità di quella prosa, quasi un limite di superiore perfezione ch’essa potrebbe tentare di conseguire ancora. Con Proust, sembra di avere rapito parole e figure da un universo dove vivevano in una delicatissima palpitazione e di esiliarle in un mondo povero e duro e sordo.
Nel tono proustiano si entra magicamente, fin dalla prima battuta del romanzo. Quando si legge nella prima riga di Du côté de chez Swann: «Longtemps je me suis couché de bonne heure», si ha l’impressione che il colpo di bacchetta di un invisibile direttore di orchestra abbia smossa la cellula sonora che propagherà la sua vibrazione indefinitamente, come un sasso lanciato dentro un’acqua calma. Tutta la Recherche, col suo meraviglioso pullulare di figure dettagliate, di particolari e notazioni penetranti, è decisa da questo stato di trepidazione musicale che Proust ha comunicato alla sua atmosfera. Subito, per controllare ed addomesticare il miracolo, egli cerca di descriverlo e simboleggiarlo in una materiale vibrazione sonora, procedente da una causa fisica, dilatantesi per una estensione determinata: «... j’entendais le sifflement des trains qui, plus ou moins eloigné, comme le chant d'un cicau dans une forêt, relevant les distances, décrivait l’étendue de la campagne déserte....». Si pensa un poco alla «brume doucement sonore» che Debussy aveva musicata in alcun suo preludio: ma poi si era ferrato a indicare — con movimenti di melodia appena accennati e trascorrenti come brividi leggevi — qualcuna delle suggestioni che potevano sorgerne. Per contro, la «brume doucement sonore» di Proust si concreta e si condensa in aspetti definiti, si modella e diventa successivamente tutte le cose onde il romanzo è pieno; inscrive la sua vibratile sostanza entro linee di chiaro disegno. La magia poetica di Proust consiste tutta, si direbbe, negli offici e nei riti con cui egli mantiene diffusa e viva e riconoscibile la sua trepida atmosfera; la quale poi da sola, come per sè stessa mossa, sembra consegnarsi a forme precise; con la volubile noncalenza, con la inconsapevolezza delle nuvole quando compongono i loro giochi figurativi, in preda alle plasticatrici fantasie del vento. Indifferentemente le nuvole, sullo schermo del cielo, avvicendano montagne e poi alberi e poi case e poi volti d’angeli. Così, nel romanzo di Proust, la grazia, poniamo, di un pesco in fiore cede il luogo che essa occupava in pieno «primo piano» ad un tratto della psicologia di Saint-Loup. Ed è questa la ragione del particolare modo di comportarsi dei personaggi di Proust: i quali entrano in scena di sbieco, furtivamente: e solo più tardi, senza che essi si siano dati la pena di compiere alcun tour de force, ci accorgiamo che erano personaggi importanti: per la frequenza delle loro venute in scena, o per il peso delle circostanze a cui li abbiamo veduti partecipare. Ma, per esempio, nello Swann, la file de cuisine, quando compare per la prima volta, non prende nè più nè meno di rilievo che lo stesso Swann, o che la ragguardevolissima Françoise.
La vasta sinfonia che fascia tutto il romanzo di Proust, ha un potere ancora più toccante. Perchè, intorno alle figure che sono emerse dal suo seno, non si arresta nè desiste dal palpitare: nè concede che esse si fissino mai. La sua animazione piena e sostanziosa segna, dietro le figure, la presenza di un’anima e perfino il posto che tale anima occupa. Mantiene le realtà che ha evocate in una ansia presaga, le persuade a confessarsi, a trovare voci affini, a scoprire presenze affettuosamente sorelle che rispondano ai loro richiami. E poi corona essa medesima i presagi e le attese, risolvendo la sua sonorità ancora indistinta in tanti piccoli tocchi calzanti e sensuosi: che rivelano, dentro ogni cosa che il romanzo sfiori, quelle qualità, quei particolari squisiti, che credevamo perduti o irreperibili e che ritroviamo con tanta ammirazione. Intorno ad ogni realtà che in essa cada, — si tratti pure della cosa più materiale o grossa o inerte, — la sinfonia Proustiana scava degli spechi pieni di echi donde esce l’anima profonda e segreta di quella realtà: come, nelle favole antiche, si affacciava fuor delle grotte sonore, per chi sapeva destarla, la Ninfa abitatrice. Non un’anima generica, ma proprio un’anima umana: fatta come la nostra, con risentimenti che somigliano ai nostri. Valga un esempio che è dei più vistosi, ma che non costituisce un movimento eccezionale, anzi è regolarissimo, nella scrittura del Nostro. I biancospini sfioriti di Balbec non si contentano di costeggiare decorativamente la strada lungo la quale il giovane Proust passeggia; ma si mettono a dialogare con lui, ad interrogarlo ed a rispondergli, e lo invitano a ritornare per la fioritura dell’anno prossimo. Infine, all’atmosfera della Recherche potrebbero trasferirsi le qualità che Proust osserva nell’aria della piccola città militare di Doncières (De côté de Guermantes I): un’aria che si è abituata talmente ad ospitare suoni guerrieri che ha finito col «contracter une sorte de perpetue vibratilité musicale et guerrière» dove «le bruit le plus grossier de charriot ou de tramway se prolonge en vagues appels de clairons». Anche nella Recherche, «le bruit le plus grossier» si diffonde e si spiega nelle voci di un’anima che inconsapevolmente tale rumore in sè racchiudeva. Di modo che le più sottili e preziose trovate, in Proust, ci commuovono ma non ci colpiscono di stupore, come accadrebbe se le incontrassimo presso altri poeti: perchè non giungono quali sorprese o felici accidenti o, come si dice, terni al lotto: sono già implicite nella sinfonia di cui Proust ci aveva trasmesso il fremito e non ne costituiscono se non il mirabile chiarimento. Ed hanno, per altro, il patetico di una voce umana che articoli un suono presentito, ma ancora vago. Come Wagner, Proust scava, davanti la scena, un suo golfo mistico dove viene tramata la musica che, attimo per attimo, crea e dirige il dramma: e, per l’ideale orchestra proustiana si giustificherebbe altrettanto bene l’osservazione che, alcuna volta, Mallarmé avanzava a proposito di quella wagneriana: «si l’orchestre cessait de deverser son enfluence le mime resterait, aussitôt, statue».
Di cotesta aura musicale l’autore ci aveva rivelato il segreto in quelle Journées de lecture che sono, anche cronologicamente, una vera prova avanti lettera della Recherche. Ivi è risuscitato l’incanto di quella che è stata l’età dell’oro per la lettura: l’infanzia, che un libro diletto bastava a rapire ed ismemorare. Il fanciullo si sentiva, allora, straniero a tutto il mondo d’intorno: lasciava a malincuore il libro per sedere a mensa tra parenti ed ospiti; ed i riti a cui assisteva, della mensa, gli si fermavano negli occhi ma non giungevano al cuore perduto ancora dietro le immagini del libro. Le parole che udiva gli penetravano in un orecchio che non gli pareva suo; le delizie primaverili del parco valevano a pena per offrigli un angolo raccolto dove riprendesse la lettura interrotta. Ma ora ciò che gli era sembrato vano ronzio del mondo circostante, e pettegolo cicaleccio dei famigliari ed inutile pompa di colori e di forme delle cose, gli si rivela come la vera e superstite e durabile poesia di quei giorni remoti. L’attenzione del fanciullo lettore era stata come una guaina sensibile che dentro di sè, imprigionava il suo principale oggetto, cioè la lettura, e su di esso faceva convergere tutti i suoi poteri sensitivi. D’intorno, frattanto, senza saputa del fanciullo, rumori voci e presenze s’insinuavano con cautela in qualche parte dell’anima che, beatamente divagata ed oziosa, resisteva al comando della volontà e perfino all’imperativo del piacere che le avrebbero imposto di concentrarsi tutta sul libro. Agli amabili inviti del mondo reagivano strati inconsapevoli della coscienza; che registravano quegli inviti, senza nemmeno curare di autenticarli con un nome, sublimandoli nel vago fluido di una musica indefinita. E’, questa musica, la sinfonia proustiana: il «tono Proust». Egli la ritrova e la riconosce adesso, accingendosi a ricordare le lontane journées de lecture. L’oggetto precipuo dell’attenzione di allora, adesso non lo tocca più: è vuota quella guaina, ma i poteri sensitivi di che era dotata, la attraversano e si diffondono per la sua faccia esterna ad esplorare l’atmosfera che la circondava. E non importa, ora, che quella musica si ritraduca negli identici strumenti che l’avevano prodotta in origine; non imporla che trovi i suoi equivalenti plastici e figurativi proprio negli aspetti e nelle forme donde essa era nata primamente. Non ci dobbiamo chiedere — e il precisare la domanda ne rivela già l’assurdo — se le luci, i colori, gli odori che Proust ci descrive siano quelli veri, quelli che veramente brillarono e gli sorrisero al tempo della sua fanciullezza. Autentico romanziere, e non storico nè scrittore di memorie, egli ci offre, per un fatto od una sensazione od un sentimento, particolari e notazioni verosimili e riesce, con l’artificio di giuste intonazioni e di adeguati ambienti, a farci scambiare il suo verosimile col nostro vero.
La Recherce è tutta costruita su movenze identiche a quelle da cui nascono le Journées; sempre l’autore parte in cerca di un’antica attenzione che ha smarrito il suo oggetto primitivo e che non ritrova se non la musica nella quale, senza darsene per intesa, si era allora lasciata calare. Le Journées, del resto, non sono se non una Recherche troncata alle prime pagine, con già tutti i temi che ritroveremo in Du côté de chez Swann: il giardino che sarà poi il giardino di Combray, l'interno della casa di villeggiatura con una grand’tante che somiglia affatto alla grand’mere della Recherche. E, quando vorrà dare principio al romanzo, Proust prenderà le mosse dall’attenzione che, fanciullo, egli volgeva a catturare il sonno renitente e ritroverà, per questa via errabonda e distratta, l’ambiente serale e notturno della casa di Combray, della propria stanza di Combray. Poi, per seguitare, andrà in traccia del gusto di un pezzo di madeleine inzuppato nel thè. E così avanti. Si darebbe ragione a Rivière che riassume Proust nella figura dell’uomo che non pratica tagli nella realtà, che non si preoccupa di scegliervi ciò che lo attrae o lo interessa o lo soddisfa, e di respingere il resto; senonchè tale devozione che non conosce preferenze, questo sentire tutto, percepire tutto, senza eccezione, questa — diceva Rivière — «sérénité presque insupportable du regard» vogliono essere considerati come il rovescio e la resipiscenza di una passata attenzione che aveva tutto escluso, per prendere di mira un solo oggetto. In seguito a siffatto rovesciamento, a siffatta resipiscenza, le temps perdu in una lunga serie di interessamenti particolari e limitati, viene rétrouvé.
II.
Hanno voluto, taluni, fare della memoria la preponderante facoltà di Proust. Impropria formula: massime se sia stata escogitata a spiegare la stupefacente ricchezza di particolari che pullulano intorno ad ogni argomento toccato dalla Recherche. Proust non musica affatto un libretto fornitogli dalla memoria. Del resto, segnalando il valore di pura verosimiglianza, e non di verità storica, delle descrizioni proustiane, abbiamo già — per questo lato — messa fuori causa la memoria, che sarebbe la naturale depositaria della verità storica. Ma coloro che hanno fatto, di Proust, principalmente il poeta della memoria, avranno avute intenzioni più sottili: che vale la pena di discutere.
Tutti i poeti hanno fornito, a modo loro, una riprova ad un esempio del vecchio adagio: primum vivere, deinde philosophari, scandendo sul ritmo binario di quell’adagio i momenti successivi secondo cui si e sviluppata, in una cronologia più o meno rigorosa, l’opera loro: prima vivere, e poi rendere lirica testimonianza delle cose vissute. Ma i due poli del vivere e dello scrivere pare che Proust li abbia toccati in più speciosa maniera e che, del suo passaggio dal primo al secondo, abbia fatta addirittura la ragione del romanzo suo. Prima la vita, e soltanto la vita; poi l’arte che si piega a rimembrarla: e questa è un poco la morale critica di quella leggenda, di colore leggermente estetizzante, che narra di un Proust chiuso in una stanza a doppia parete, esule dal mondo, e volto solo alla composizione della Recherche. Gli altri romanzieri sensibilmente avevano redente le esperienze della loro vita nelle favole dei loro eroi: talché gli eroi non apparivano semplici mandatari dell’autore ambasciatori di ricordi suoi, dei quali non portavano pena: il materiale mnemonico che fosse, per avventura, entrato a plasmare i loro temperamenti o caratteri aveva fatto blocco con essi e smarrite le natie sembianze. Nella compagine narrativa non si potevano più discernere, se non viziosamente, — a titolo di indiscrezione o di pettegolezzo — eventuali documenti della vita dell’autore; più o meno belle e buone invenzioni erano, che si giustificavano come aspetti artistici, coerenti ed umani della vita dell’eroe. Proust, all’incontro, non si costituisce — dicono — dei testimoni che vengano a sollevare la sua esperienza personale a trasfigurazioni fantastiche: quella esperienza, egli la consegna immediatamente al suo romanzo come cosa ricordata. E scrive, dunque, il romanzo della memoria. Ma allora va perduto uno dei caratteri, a nostro avviso, fondamentalissimi della Recherche. La quale si presenta come un corteo fantasmagorico, vera e propria féerie, di tutte le piccole cose e sensazioni e fatti che, sulle carte di Proust, auspice la persuasiva musica in cui egli li ha sommersi, hanno trovata l’anima loro: il genietto complicato e vario che li riempie, con tutta la vicenda ricca e mutabile dei suoi moti. E vi fu chi giustamente paragonò la Recherche alle Mille e una notte «d’un vizir moderne, fantasque, ténébreux et charmant». Quei genietti, quegli infusori natanti, commossi e luminosi sono i veri protagonisti del romanzo di Proust: il senso, mettiamo, della «petite phrase» della sonata di Vinteuil, o l’atmosfera della città di Doncières, o l’odore di una stanza d’albergo. E stanno alla vita pratica di Proust come qualunque protagonista di romanzo sta a quella del suo poeta. Che cosa rappresentino, di fronte a codesti infinitesimali protagonisti, le grandi figure dei personaggi (Swann, Françoise, Odette etc.) che compariscono e indugiano nella Recherche, vedremo qualche altra volta. Qui preme di notare che i protagonisti del romanzo proustiano occupano, non uno spazio materiale, bensì una durata: il terreno sul quale nascono, si posano, si succedono ordinatamente tra loro, sviluppano e intrecciano le loro microscopiche vicende, vorrà essere il luogo di tutte queste durate: cioè la memoria. Essa è veramente il paesaggio sul quale Proust situa i suoi eroi. E come i paesaggi di tutti i buoni romanzi interferiscono nella natura dei personaggi, la influenzano e, anche, la spiegano: offrono tutti i loro aspetti e le loro risorse per contrappuntare le fisionomie e gli sviluppi morali dei personaggi e, d’altra parte, pare si risentano in qualche modo dei casi che toccano a quelli — così la memoria è generosa, al romanzo di Proust, dei suoi filtri, delle sue tinte melodiose, delle sue patine sentimentali, delle sue vernici velate, delle sue patetiche brume. E segnatamente alleva e nutre quella attenta affettuosità che è tra i più indimenticabili contrassegni del tocco proustiano: gonfia dolcezza di che si rivestano le cose quando ci confessano senza più amareggiarci: quando cioè possiamo riferirle ad un passato che più non arroventa la nostra passione, ed a cui pure vogliamo bene perchè è il nostro passato.
Un filosofo spagnolo ha proposto di fregiare Proust col nome di «inventore», anzi che con quello un poco mistico di «creatore» che vien decretato genericamente ai poeti. Proust ha scoperto un nuovo filone di cose da descrivere: di un continente che ne era stato escluso fin qui, ha segnato la longitudine e la latitudine nella letteratura. A nostro avviso, quelle cose si possono radunare sotto il nome di idiosincrasie: Proust, poeta delle idiosincrasie. O meglio, di quelle che prima di lui, solevamo considerare sterili ed incomunicabili idiosincrasie. Una popolazione fitta, e anche molesta, che viveva nel subcosciente e ogni tanto mandava certi suoi oscuri avvisi e non cessava tuttavia di insidiare la nostra volontà di conoscerci e di discernerci intimamente. Era una posizione un poco tantalica, la nostra: a interrogare quelle idiosincrasie non si ritraeva se non poche parole teoriche di un linguaggio troppo viziosamente nostro. In segreto, si poteva anche venire a rassegnate transazioni, integrando il vago delle idiosincrasie con la nozione di un certo «non so che» resistente ad ogni indagine: fingendo, insomma, di aver capito tutto, ma se ci fossimo voluti aprire con altri circa quegli oscuri esseri abitanti il nostro spirito in una sorta di simbiosi incallita, sarebbero saltati in mezzo la certezza di non riuscire a farci intendere e, anche, una punta di pudore. Si parlava di sensazioni «caratteristiche»; e noi si pativa delle nostre, gli altri delle loro. Con mano cauta e scrupolosa, Proust è riuscito a sciogliere l’ordito impenetrabile delle idiosincrasie, rispettandone per altro la morbida ed ombrosa natura. Ce ne ha detto il segreto così chiaramente che tutti le abbiamo riconosciute: e nondimeno le ha lasciate libere tra le native aure del subcosciente. Basterebbe pensare a quel capitolo finale dello Swann intitolato: Noms de pays: les noms. Dei paesi sconosciuti, quando li vagheggiamo come possibili o desiderabili luoghi per un nostro soggiorno, ci foggiamo rappresentazioni in qualche modo somiglianti agli sfondi architettati dalla scenografia «sintetica»: dove pochi elementi generici: pezzi di muro, colonne, alberi mozzi o rupi, giocati sotto luci confacenti e capziose, si completano di tutti i dettagli tralasciati, che la nostra immaginazione aggiunge scegliendoli tra i più propizi ad incorniciare il dramma: e ne esce una scena valida ed espressiva più che qualunque veduta minuziosa e realistica. Ma, per inventare siffatte scenografie, noi diventiamo, alla moda di Rimbaud, degli «opéra fabuleux»: le figure sono illuminazioni saettanti e fugaci; le emozioni, evanescenti vertigini. Proust, di quei paesaggi evasivi e fragilmente fondati in qualche luogo imprecisabile e sognoso, riesce a rilevare la topografia, a dare una fotografia completa con i giusti lumi. Riesce, degli odori vaghi di città ignote, a distillare l’essenza. Del vagheggiamento di una città che non si è mai veduta, riesce a ordinare una figura non meno certa e irrevocabile di quel che sia il ricordo di una terra visitata. E ci offre la guida, il poetico Baedecker di quella Venezia, di quella Firenze che sono ancora allucinazioni fantasiose, fatte di reminiscenze letterarie, pezzi di cartoline illustrate, frammenti di sensazioni altrui e soprattutto del nostro ansioso desiderio di presentirle allorché le pensiamo mete di viaggio. Ancora: siffatti presentimenti, che ci erano parsi gratuiti, Proust li accerta e li invera con motivi fermi, quanto delicati: e il suo sogno di Venezia diventerà anche il nostro, quasi che egli ne abbia fissati gli elementi più indiscutibili. Perchè, quasi sempre, per cristallizzare quegli incatenamenti, egli muove da premesse positive e indubitabili: come sarebbe, per esempio, la sonorità dei nomi. E arriva a stabilire la poesia, la verità poetica delle audizioni colorate di cui non ci era stata descritta finora se non l’empirica fisiologia. Nè l’audizione rimane solo colorata: più feconda, diviene tattile e gustativa e olfattiva e si associa insomma a tutti e cinque i sensi e perfino a quel sesto senso di cui tutti parlano e che, nella fattispecie, si rivela forse come il residuo ultimo di tutte le nostre assimilazioni artistiche e, in largo senso, colturali. Ci accadrà allora, sotto l’influenza proustiana, di trovare la sonorità «mordorée» del nome di Guermantes, o di dover riconoscere, più squisitamente, che il nome di Parma reca in sè qualcosa di «mauve et lisse et doux» dove circolano «douceur stendhalienne» e «reflet des violettes».
Era naturale che a risultati come questi, Proust dovesse giungere mediante trasposizioni che rendessero sul registro di qualità più affabili e domestiche quelle essenze oscure e rapide che egli voleva adombrare. Senonchè la trasposizione, nella scrittura di lui, non è un paragone, non fa immagine: non ripete l’artificio solito di riversare su cose ignote — per il tramite di un come, più o meno esplicito — la luminosità delle cose conosciute. I punti di riferimento a cui le più riposte realtà si appoggiano, per esprimersi, vengono a far corpo con esse: vengono a verificare, con tutta naturalezza, aspetti mono segreti dell’indole e momenti meno difficili dell’esistenza di quelle. Del resto, come semplice impressione di lettura, Gide osservava già che «l’on en vient à douter lequel prête à l’autre le plus de vie, de lumière et d’amusement, et si le sentiment est secouru par l’image, ou si cette image volante n’attendait pas le sentiment pour s’y poser». Ma, meglio che un rivelatore di prestigiose associazioni, Proust ci appare un osservatore pacato: tutti gli stimoli che riceve, li affonda in una zona di sensorietà indifferenziata donde si dirameranno, come da una vera stazione centrale, perentori e decifrati messaggi per ciascuno dei sensi che li potrà ricevere con precisione.
La frase di Proust disegna, col giro delle sue articolazioni, i modi e le tappe del procedimento con che sono scoperti a volta a volta i risultati che la colmano. Proust si è inventata una frase lenta, volubile e insinuante che si tuffa nell’ombra del quasi inconscio, va a raccogliere il dato che cercava, erra con lui nelle fluttuazioni ancora cieche e un poco penose che esso deve durare per dispiegarsi, e infine esce, sorridente aperta e decorosamente trionfale, con la sua conquista. E’ fatta, anche, a somiglianza delle frasi melodiche di Chopin che sono, per il sentire di Proust: «phrases, au long col sinueux et démesuré... si libres, si flexibles, si tactiles, qui commencent par chercher et essayer leur place en dehors et bien loin de la direction de leur départ, bien loin du point où on avait pu espérer qu’atteindrait leur attouchement, en qui ne se jouent dans cet écart de fantaisie que pour revenir plus déliberement — d’un retour plus prémédité, avec plus de précision, comme sur un cristal qui résonnerait jusqu’à faire crier, — vous frapper au coeur». Le lente e studiose divagazioni nell’ombra iniziale e generatrice, sono quelle che giustificano la limpidità finale, che conferiscono l’adeguato peso all’asserzione e tolgono ogni sospetto di gratuità, mettiamo, a quel «mauve et lisse et doux» detto del nome di Parma: così come un antefatto lasciato supporre, con tutti i suoi sviluppi passionati e dolenti, rialza a valori di piena umanità le parole pronunziate davanti a noi dagli eroi dei grandi drammi. E la tortuosità sintattica di cui Proust fu accusato, deriva dai lunghi indugi nel prenatale limbo delle idee, dove non sono che presentimenti ravvolgenti in nube e reagenti tra loro in torbida confusione molecolose: Proust che, per l’indole stessa del suo stile, non può, nè deve, trascurare alcuna di quelle molecole e delle loro traiettorie, aveva l’obbligo di lasciare posto agli incisi e alle parentesi, e agli incisi negli incisi ed alle parentesi nelle parentesi. Ma sempre la frase si appunta verso una linearità finale, trova cadenze semplicissime e perspicue, sviluppa in una fioritura luminosa e gloriantesi in pieno sole, il faticoso groviglio delle sue radici. Si sorprende quasi sempre, nella cadenza, lo scatto del polso che, rovesciando la mano, porta la preda, oramai rassegnata alla sua dolce cattività, dall’ombra alla luce. E la trasparenza raggiunta sul finire della frase, la risale poi tutta intera: ristabilisce gli ordini, le conseguenze e le linee direttrici che erano state, in apparenza, smarrite: ogni sillaba della cadenza sembra chiudere il bandolo di uno dei fili ragionativi e musicali che s’erano confusi nella trama avviluppata del periodo.
Di più d’uno e, forse, di quasi tutti i maggiori poeti contemporanei — e massime dei francesi — si è inteso dire che possiedono il dono di rendere concreto, l’astratto. Proust invece non passa dal registro astratto a quello concreto; ma dalla concretezza di un mondo, per sua natura sensuale, tutto riluttante stupore, a quella di un mondo intelligibile. Anzi egli non assume, in generale, un dato astratto, quale che sia, per tradurlo, in veste sensibile, sulla pagina: ma prima lo sottopone ad una preparazione, ad un tirocino, dandogli un’esistenza di idiosincrasia. Il pudore con cui tasta e sommuove una materia, che avanti di salutare le albe della luce poetica, è divenuta così carnalmente sua, non è tra le ultime ragioni del fascino di Proust.
Giacomo Debenedetti.
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