Il Canzoniere (Bandello)/Le Rime Estravaganti/II - A la sua Ecuba il Bandello

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Le Rime Estravaganti
II - A la sua Ecuba il Bandello

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II.

È la Canzone di chiusa dell’Ecuba di Euripide, con la quale il Bandello traduttore invia la sua versione, com’è specificato nella lettera dedicatoria: «a la Cristianissima Prencipessa Margarita di Francia, sorella unica del Cristianissimo re Francesco, Serenissima reina di Navarra, duchessa di Alenzon e di Berris, l’obedientissimo et umillimo suo servitore il Bandello», dove, fra l’altro, si legge: «havendo già di molti dì per mio trastullo l’Ecuba di Euripide, poeta tragico, fatta italiana e messa a mio modo in rima, sempre con altre cose mie ho tenuta nascosta... astretto dagli amici miei, che mie ciance istimano essere qualche cosa, questa mia tragedia dar fora ho deliberato... E così come messaggera di qualche altra mia composizione italiana le mando, affinch’a l’altre cose mie assicuri la strada. Ma dubitando che senza guida e scudo da me le dessi congedo, ch’a mille pericoli la esponevo..... deliberai essa mia Ecuba sotto le ali de lo splendidissimo nome vostro mandar fora ed a quello consacrarla; tenendo per fermo che nè più impenetrabile scudo, nè più fidata guida poteva darle». A quest’epoca il Bandello non conosceva ancora «nè per pratica, nè per presenza» la futura autrice dell’Heptaméron, ma solo per udita dire, per le lodi fattene da Cesare Fregoso e per la lettura dei suoi poetici scritti: «.....in le sue rime — soggiunge — come in uno trasparente e lucidissimo speglio la veggio ed ammiro». Questa dedicatoria è datata da «Castel Giferedo al XX di giuglio del MDXXXVIIII». Così testualmente trovasi a pagg. 11-15 dell’ediz. cit. del Mansi, dove la Canzone è a pagg. 125-127.

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A la sua Ecuba
il Bandello


Ecuba che sei stata
     Sì beata, e felice1,
     Poi misera e infelice2
     Quanto mai Donna al mondo fosse nata:
     5Ecco che fortunata,
     E trarti for di guai
     Può quella a cui tu vai;
     Quella3 ch’altiera, e sola
     Per le bocche di dotti viva vola.
     10Questa è colei che ’n terra
     È specchio d’ogni bene4,
     E tanta gratia tiene
     Che ’n lei ragion mai sempre il senso atterra.
     Pace ivi senza guerra5
     15Han le virtuti unite,
     E fan ch’in lei s’addite
     Con vera castitate.
     Quanta ebbe gratia mai qual fosse etate.
Ella a le Muse nido
     20Fatt’ha del casto petto,
     Con quel chiaro intelletto,
     Angelico, divin, veloce, e fido.
     Indi ne vola il grido
     Del suo limato stile6
     25Da l’Indo adusto a Tile,7
     Che fanno i tanti versi
A l’alme di profitto dolci, e tersi,
     Che nel suo sacro speglio,

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     Lucido, e trasparente,
     30Si mira l’alma, e sente
     Quanto è grave il peccato novo e veglio8.
     E volta a Dio9, il meglio
     Cerca allor di seguire,
     Bramando di morire
     35Per far del ciel acquisto
     E star mai sempre lieta col suo Cristo.
Nè per ciò punto sdegna
     Questa nobil Regina,
     S’alcun talor s’inchina
     40Di Parnaso seguir l’altiera insegna.
     Anzi, quant’è più degna
     Di sangue, regno ed oro.
     Più prezza il verde alloro
     E col real favore10
     45Rend’ai Poeti il meritato onore.11
     Or dunque senza pare
     Questo mio picciol dono
     Ch’umil vi sporgo e dono,
     Piacciavi umanamente12 d’accettare.
     50E ch’altro può donare
     A sì reale altezza
     L’infima mia bassezza
     Ch’opra di carte e inchiostri.
     Se le gemme sprezzate, perle ed ostri?
55Via più voi fate stima
     D’un bell’ingegno ed alma
     Vertù, d’una pura alma,
     Che di quant’oro, e regni il volgo stima.
     Questo vi fa la prima
     60Di quanti mai la Fama
     Al suo trionfo chiama;

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     Ch’ n corpo ancor mortale
     63Chiara vi rende, sacra ed immortale.

Note

  1. V. 1-2. Ecuba, beata e felice fu nel primo suo tempo quando sacerdotessa di Apollo e moglie di Priamo, re di Troia, vide crescerle intorno una ventina di figli tra i quali i famosissimi, per fama diversa, Paride ed Ettore.
  2. V. 3. Poi misera e infelice quando caduta Troia, dopo l’eccidio dei suoi, Ecuba fu tratta in ischiavitù da Ulisse. — Ecco, a questo proposito, premesso alla versione di cui qui si discorre, ivi, pp. 16-17, l’«Argomento in l’Ecuba del Bandello. Da poi la distruzione di Troja, li Greci navigando nel Chersoneso, che è provincia dirimpetto a la Tracia, pervennero dove era il sepolcro di Achille. Venuto il Re Agamennone, e udita la lite da tutte due le parti, contra il Tiranno pronuncia la sentenzia; come contra colui che non già per favorire li Greci, ma per l’ingordigia di rubare l’oro, ha Polidoro crudelmente e contra le leggi del sacrosanto ospizio ammazzato». E a p. 18: «Le persone che parlano in la Favola: L’ombra di Polidoro, morto; Hecuba reina de li Troiani; Coro di Donne Troiane; Polissena figliuola di Ecuba; Ulisse; Taltibio trombetta; La serva d’Ecuba; Agamennone re; Polimestor re della Tracia. La scena de la Favola si metta in Chersoneso per iscontro de la Tracia. Il Coro è di Donne troiane serve, che sono per dare aiuto a la loro infelice e sfortunata Reina».
  3. V. 7. Quella, Margherita, regina di Navarra, ti trae fuori dei guai, dice, con iperbole poetica, e intende, forse, con le sue accoglienze oneste e liete. — La frase è piuttosto da considerarsi come un mezzo per trapassare a dire non più di Ecuba, ma di Margherita della quale poi tutta la canzone si risolve in lode. Le lodi per la Navarrese sono ribadite al C. IV dei Canti XI.
  4. V. 11. Specchio d’ogni bene. Il miglior commento ci è porto dal Bandello stesso nella già spigolata dedicatoria prosastica dove anche è detto che la di lei «vivace e chiara fama de la [sua] cortesia e umanità infinità empie di sè non solo l’Europa, ma tutte le altre partì del mondo».
  5. V. 14. È il petrarchesco: «Pace non trovo, e non ho da far guerra», Canz., CXXXIV, v. 1.
  6. Vv. 19-25. Anche a questo passo può servir da chiosa un brano della detta prefatoria: «...Sovvenutomi — dice — che voi sacratissima Regina, molto vi dilettavate dì leggere i libri de la lingua Italiana e che non solo agli studii umani e delle sacre lettere date opera, ma che anco in idioma francese molte belle rime dottamente e cristianamente avete composto, deliberai esta mia Ecuba sotto le ali de lo splendidissimo nome vostro mandarfora». E più sotto conferma ancora che del «chiaro grido» di lei, e cioè della di lei vasta reputazione «le rime sue stampate ne fanno ferma fede».
  7. V. 25. Da l’Indo, dall’Indo, fiume dell’India a Tile «l’ultima Tule» degli antichi, isola posta in luogo imprecisato nell’estremo occidente, tra l’Inghilterra e le Orcadi. Tutta la frase ha valore generico per designare lontananza stragrande, da un punto all’altro del globo, ai confini del mondo; cfr. Petrarca, CXLVII, v. 10.
  8. V. 31. Il peccato novo e veglio, recente e antico, l’anima peccatrice riconosce mirando nel terso specchio di virtù del cuore di Margherita.
  9. V. 32. E volta a Dio, nella detta dedica il Bandello proclama «che tra’ Cristiani, pochissimi pari e nessuno superiore se le trova».
  10. V. 44. Col real favore del re fratello esercita un illuminato mecenatismo proteggendo letterati francesi e stranieri. Per gli italiani sia lecito il rinvio al secondo dei profili, dedicato per l’appunto a Margherita, contenuti nel volumetto Dame di Francia, ediz. cit.
  11. Vv. 39-45. S’alcun scrive versi. Tra quanti poeti protesse sono segnalabili in Francia Clement Marot, per tacere d’altri molti, in Italia, oltre il Bandello, Vittoria Colonna, che le inviò tutto un suo manipoletto di rime.
  12. V. 49. Umanamente, con umanità, benevolenza. Già nella lettera di dedica aveva così espresso questo concetto: «di modo che non dubito punto esser appo tutti iscusato e che voi (la vostra mercè) non vi sdegnarete questo mio picciol dono accettare. E quantunque alquanto la Religione l’animo mio e la mente mi commuova, per ciò che al vostro sacro Nume troppo avvicinato mi sono, e forse più di quello era convenevole, dovendosi li Regi buoni e le Regine ottime e sacre, come voi sete, non altrimenti che a par degli Iddii onorare e riverire, io pure mi confido, che imitando voi la divina bontate, al dono che vi mando non risguardarete, ma pensarete a la sincerità di core, con la quale ve lo dono; considerando anco, che li poveri, che non ponno argento e oro a Iddio offrire, con un poco d’incenso lo riveriscano e adorano e uno mazzo di fiori a li sacri altari rappresentano».