Il Dio dei viventi/XIV

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Parte XIV

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XIII XV

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Del resto non andava in nessun luogo segreto: andava a far l’affar suo, a far aggiustare dal vecchio fabbro la forbice per potare.

Il vecchio fabbro, che era anche maniscalco e arrotino, abitava in un luogo strano, nella sagrestia di una piccola chiesa in rovina, qualche centinaio di metri distante dal paese.

Anni prima, sebbene vecchio già, era andato anche lui in America, ritornandone con un sacchetto di monete d’oro, quasi ricco quindi; la notte stessa del suo arrivo il sacchetto gli venne rubato: e adesso viveva nelle rovine della chiesetta e della sua vita.

Ma non parlava mai, se non interrogato, della sua disgrazia.

E del resto viveva abbastanza bene col suo guadagno, tanto più che in America aveva imparato diversi mestieri, e sapeva [p. 68 modifica]aggiustare gli strumenti a molla, le macchine da cucire e perfino i gioielli delle donne.

Una quiete infinita regnava intorno alla sua dimora: l’erba cresceva altissima intorno agli avanzi dei muri della chiesetta e davanti si stendeva un prato, così coperto di fioralisi che pareva riflettesse l’azzurro intenso del cielo di maggio.

Sotto una tettoia primitiva che funzionava da officina, il vecchio piccolo e tozzo e un po’ sciancato, con un testone calvo dal quale pareva che i capelli fossero scivolati per fermarsi in una lunga barba grigia, lavorava silenzioso davanti alla sua incudine: un mucchio di strumenti e di ferramenta era per terra.

Nel vedere Zebedeo non si mosse, non smise di lavorare, ma parve anche lui uscire dalla sua indifferenza per guardarlo con una certa curiosità.

Zebedeo trasse di sotto il cappotto la forbice e gliela porse: il lavoro da farei era minimo, si trattava di cambiare solo la molla rotta, e si poteva farlo lì per lì, [p. 69 modifica]ma non ostante le premure del cliente il fabbro mise lo strumento sul mucchio e disse:

— Bisogna aspettare il turno, puoi venire a prenderla domani sera. Oh, bada poi che io non assumo nessuna responsabilità se viene rubata.

Zebedeo lo sapeva, era una condizione che il vecchio faceva a tutti.

— Zio Michele, — disse, — vi lascio egualmente le forbici; se le rubano non sarà un danno come quello che fecero a voi quella volta.

Il vecchio sollevò il viso, lo guardò torvo, poi riprese a lavorare: ma Zebedeo non se ne andava: pareva provasse gusto, quella mattina, a ricordare al fabbro la sua disgrazia.

— Zio Michele, voi non avete saputo mai nulla del fatto?

— Se ne avessi saputo qualche cosa non me lo avresti domandato. In questo paese le cose si sanno da tutti, persino dai gatti.

— Ma la giustizia non s’è occupata di far ricerche? [p. 70 modifica]

— La giustizia? Il fuoco la bruci. Io credo che siano stati loro, quelli della giustizia, a rubarmi il sacchetto, tanto poco si sono occupati a ricercare il colpevole.

— Io, fossi stato in voi, non mi sarei dato pace. Avrei cercato per conto mio, avrei venduto l’anima al diavolo pur di sapere qualche cosa.

— Ho cercato, ho cercato: ho fatto fare il gioco delle carte, sono stato dalia fattucchiera, ho promesso una novena a Sant’Antonio se riuscivo a sapere qualche cosa, e qualche dubbio ce l’ho; ma come si fà, senza prove, senz’aiuto? Non mi resta che maledire. Oh, questo sì: quando tu mi vedi così tranquillo a lavorare, io recito un rosario di maledizioni: che ti si marcisca la mano con la quale mi hai spogliato, e l’altra mano ancora, e ogni giuntura ti si rallenti; che tu possa essere divorato vivo dai vermi, e ogni moneta rubata a me, frutto del mio sudore, ti serva a comprare medicamenti, e ti caschino gli occhi, e tua figlia e i suoi figli siano dispersi membro per membro, rosi [p. 71 modifica]dalla malattia e dal cancro, davanti a te impotente ad assisterli.

— Eh, basta! — disse Zebedeo. — Ce n’è per tutti gli assassini del mondo.

— No, non basta, figlio mio. È il mio unico conforto, e se mi togli quello è come mi derubi un’altra volta.

— Dio non vuole, a maledire così.

— Se non voleva, non doveva lasciarmi derubare. Non solo vuole, ma sono certo che è lui a farmi imprecare così: e le maledizioni cadono, Zebedeo, cadono! Vedrai che un giorno o l’altro la lebbra coprirà il corpo del mio assassino, ed egli verrà a chiedermi perdono. Ma io non perdonerò no: nè a lui, nè a sua madre, nè ai suoi figli.

Zebedeo lo ascoltava un po’ ironico; eppure provava un misterioso senso di terrore; pensava sempre alle maledizioni di Lia, alla mano morsicata di Bellia, e ripreso più a fondo dalla sua inquietudine tornò indietro, passò per le strade dove poteva incontrare il dottore.

Le strade erano tranquille, e tutto il paese steso al sole fra i prati fioriti si [p. 72 modifica]godeva il bel mattino di maggio; sui davanzali delle piccole finestre e sulle loggie di legno fiorivano entro recipienti rotti e vasi di sughero garofani e viole.

Gli uomini erano già al lavoro, e anche le donne sfaccendavano dentro casa; solo in un angolo della piazza, davanti a una rivendita di vino, i grossi proprietari trattavano i loro affari o chiacchieravano di cose inutili.

Altre volte anche lui usava frequentare quel posto, quella compagnia: adesso passò dritto duro salutando appena con la testa: e di nuovo si sentiva seguito dallo sguardo di quegli uomini che gli sembravano nemici sebbene tutti suoi amici e parenti.

Ed ecco che senza volerlo spinto da una forza invisibile si trova davanti alla porta di Lia: la strada faceva gomito colla piazza, ed era una delle più popolari e povere del paese, sterrata, con casupole basse che parevano tane: la casa di Lia, a un piano, tinta di bianco, con la porta nuova e un balconcino di ferro era un palazzo fra tanta miseria. [p. 73 modifica]Sul balconcino stava un ragazzetto smilzo e nero con un libro in mano: i suoi lunghi e dolci occhi neri scintillarono nel vedere e riconoscere il passante. E il passante se ne accorse; e quello sguardo lo punse più che tutti gli altri.

Perchè il ragazzetto era il figlio del povero Basilio.