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Il Parlamento del Regno d'Italia/Eugenio Del Giudice

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Eugenio Del Giudice

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Giuseppe Pastore Giuseppe Gallotti

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senatore.


Vi ha molta gente al di d’oggi che si dà vanto di tenere in ispregio la nobiltà dei natali. Per parte nostra ci sembra questa un’esagerazione proveniente il più spesso da bassi sentimenti d’invidia, ove non.de rivi da degradazione di giudizio e di sentimento.

Per chi nasce d’antica schiatta il menarne vanto soverchio, prova pochezza di mente, come del resto prova pochezza di mente, il menar vanto di qualsiasi altro pregio che al destino sia piaciuto concederci al nostro apparire in questo mondo. - Resta a vedere poi se si possa neppure menar vanto di quel che mediante i nostri sforzi e l’impiego efficace del qualsiasi nostro ingegno, ci sia stato dato di conseguire unçuibus atque rostris qui in terra.

È sempre bello esser modesti, perchè la modestia è arra sicura di moderazione e di assennatezza.

Ma che non sia bello e buono il potersi dire: il mio antenato tale nel tal tempo (e più lontano quel tempo è tanto meglio per noi) fu un personaggio, e compiè le tali e tali altre gesta che ha inscritte nelle sue immortali pagine, l’istoria a noi sembra non possa da uomo alcuno che possieda fior di senno, menomamente revocarsi in dubbio.

E questo diciamo a proposito appunto dei Del Giudice, la cui genealogia autenticamente dimostrata pongasi ben mente a questa condizione di autenticità [p. 975 modifica]così necessaria quando si tratta di pesche per addentro le tenebre di molti secoli — risale a Sergio, conte di Amalfi nell’862!

A cominciare poi da quel Ruggiero normanno che fu fondatore dalla monarchia napoletana, esistono chirografi riferentisi a chiari personaggi di quella casata, dei quali, come è naturale, le cronache, e più tardi l’istoria si occupano, e tra cui ricorderemo un Marino cardinale e camerlengo di papa Urbano VI nel XIV secolo, un Baffillo conte di Častro e luogotenente generale di Luigi XI re di Francia, cui fu dato imparentarsi colla casa sovrana d’Albret di Navarra, sposando una figlia di essa, un Marcello duca e generale ai servigi della Spagna, illustratosi in modo assai segnalato in quelle lunghe e strategiche guerre di Paesi Bassi, che furono la prima cagione della rovina di quel famoso impero nel quale ai tempi di Carlo V non tramontava mai il sole.

Il barone Eugenio discendente da sì grande stirpe, è nato nel 1809 in Calabria nel feudo di Belmonte che la sua famiglia ha acquistato dai principi Pignatelli.

Il suo esordire nella vita pubblica fu al momento in cui Ferdinando II saliva nel 1831 sul trono di Napoli, dando promesse, ahimè! pur troppo crudelmente fallaci di governo mite e fors’anco liberale.

Il novello re che aveva concesse amnistie e che si diceva animato da sentimenti nobili e cavallereschi prese a percorrere subito le provincie ed ebbe per tutto festosa accoglienza.

In Calabria s’istituì una guardia d’onore per accompagnare il giovine sovrano nel suo giro, composta dell’eletta dei giovani appartenenti alle più cospicue famiglie di quella ricca provincia. Il barone Eugenio fu chiamato a far parte di quel corpo col grado di capo-pelottone.

Ma il Borbone non istette gran tempo a palesarsi per quello che era, e il miserando caso dei fratelli Bandiera valse ad aprire gli occhi ai più ciechi; tanto che il Del Giudice, commosso a giustissimo sdegno dette la sua dimissione del grado onorifico accordatogli e cominciò ad essere uno dei più attivi [p. 976 modifica]promotori di un movimento che valesse a scuotere il giogo ogni di più insopportabile.

Venne il 1848 e il Del Giudice fu di quelli che si misero con tutta l’abnegazione e lo slancio possibile in quel moto che dette tanta speranza agl’Italiani e che per disgrazia non riusci ad altro che a stragi, a condanne e a prigionie. E di ciò devesi saper buon grado al Del Giudice, giacchè in un paese ove per isventura l’asservimento datava da lungi non era cosa agevole il determinarsi a rompere in faccia senza ritegno all’oppressore secolare, e molti che pure avrebbero posseduti i mezzi di sostenere egregiamente la causa patria, e che in cuor loro sarebbesi sentiti dispostissimi a farlo, non si arrischiarono mai a dichiararsi con franchezza dando così ansa al partito del re, e scoraggiando e nuocendo d’altrettanto a quello che sosteneva gl’incontrovertibili dritti della nazione.

Il Del Giudice si recò di persona al campo degl’insorti, e vi addusse due piccoli cannoni di bronzo ch’egli aveva nel suo castello, e che poscia caddero in mano delle truppe borboniche.

Si può immaginare una volta compiuto il massacro del 15 maggio, se il Governo di Ferdinando II cui quel grand’uomo di stato inglese, il Gladestone caratterizzò di negazione d’Iddio si desse à perseguitare il barone Del Giudice!

Per sentenza pronunciata dal tribunale di Cosenza, (si sa cosa fossero quei tribunali, e con quanta giustizia date le sentenze che emanavano da essi!) il nostro protagonista venne condannato ai ferri.

Nel tempo in cui scontava una pena che forma oggi uno dei più bei titoli alla benemerenza dei suoi concittadini, ebbe notizia che il genitore della propria consorte, dal quale era amato con amore proprio paterno, stavasi per morire di crudelissima irremediabile malattia.

Non è a dire quanto ardesse di desiderio di riabbracciarlo prima del momento funesto in cui la tomba per sempre glielo rapisse. — Chiese, supplico, perchè sotto scorta gli fosse concesso di riabbracciarlo, ma in vano, che i suoi custodi si mostrarono sordi alle [p. 977 modifica]caldissime sue preghiere. — Allora, conscio della corruzione che regnava in tutte le sfere governative a cominciare dalle più elevate, scendendo alle infime, propose gli si accordasse il permesso da lui con tanta istanza invocato a prezzo d’oro. — Ed allora il permesso, segretamente è vero, ma pure gli fu concesso, e il Del Giudice ebbe la trista consolazione di riabbracciare il suocero prima che questi morisse; vero è che quel permesso gli costava 2000 lire!

Ma la persecuzione, la prigionia non valsero a muovere il nostro protagonista dal suo proposito; ei restò fedele alla patria, e gli avvenimenti faustissimi e provvidenziali del 1860 lo trovarono pronto a secondarli con tutto il suo potere e l’operosità sua indefessa.

Nominato maggiore comandante la guardia nazionale di Paola, eletto consigliere provinciale, fu creato dal re Vittorio Emanuele a senatore del regno nel 1862, quando il sovrano galantuomo fu in Napoli, ove ricevette le calde e liete accoglienze.

Il barone Del Giudice, come tutti i veri nobili di razza, è l’uomo il più affabile, e diremo anche il più democratico che possa darsi; tanto che il generale Garibaldi lo tiene per suo buon amico. Egli va annoverato nel numero di quei senatori, i quali nella cerchia segnata dalla natura delle nostre istituzioni costituzionali, caldeggiano lo sviluppo di un progresso ampio e sicuro.