Il Re Torrismondo/Atto quinto/Scena quinta

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Atto quinto - Scena quinta

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SCENA QUINTA

GERMONDO, CAMERIERO

GERMONDO

Qual suon dolente, il lieto dì perturba?
E di confuse voci, e d’alte strida
Qual tumulto s’aggira? e di temenza
Son questi, o di gran doglia incerti segni?
Forse è dentro il nemico, a pur s’aspetta?
Ma sia, che può: nen sarò giunto indarno:
E dar non si potrà Norvegio,o Dano
Del suo fallace ardir superbo vanto.
Qual follìa sì gli affida, o quale inganno,
Se Torrismondo ha ’l fido amico appresso?

CAMERIERO

Oimè! che Torrismondo altro nemico
Non ebbe, che sè stesso, e la sua fede.

GERMONDO

Qual nimicizia intendi, o che ragioni?

CAMERIERO

Ei, Signor, la vi spone, e qui la narra;
Perchè questa è sua carta; io fido servo.

GERMONDO

Oimè! quella, ch’io leggo, e quel ch’intendo!
Odi le sue parole, e ’l mio dolore:
« Scrivo innangi al morire, e tardi io Scrivo,
E tardi io muojo. Altri m’è corsa innanzi:
E la sua morte di morir m’insegna,
Perch’io muoja più mesto, e più dolente,
Una donna seguendo: e sia l’estremo,

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Chi ’l primo esser dovea, spargendo il sangue
Non per lavar, ma per fuggir la colpa,
Ch’or porterò, come gravoso pondo,
Per quest’ultima via. Morrò lasciando
Di moglie in vece a voi canuta madre;
Perchè la mia sorella a me la fede,
O ’l poterla osservare, a sè la vita,
A voi sè stessa ha tolto. O vero amico,
Se vero amico mi può far la morte,
Vero amico son io. Prendete il regno,
Non ricusate or la corona; el manto,
E d’amico, e di nome il pregio, e l’opre:
Siate a cadente vecchio alto sostegno
In vece mia. Non disprezzate i preghi,
Non disdegnate, in sull’orribil passo
Che tal mi chiami, e di tal nome onori
L’acerba morte mia, che tutto solve,
Fuor che l’obbligo mio, ch’a voi mi strinse;
Vivete voi, che ’l valor vostro è degno
D’eterna vita, e l’amicizia, e ’l merto.
Io chiedo questa grazia a voi morendo. »
Oh dolente principio, oh fin dolente!
Ma che pensa? dov’è? non vive ancora?

CAMERIERO

Visse, lasciò la moglie, or lascia il regno,
E l’uno è tuo, l’altra pur volle il Fato.

GERMONDO

Oscuro è quel che narri, e quel ch’accenna
Il tuo Signor.

CAMERIERO

Ei riconobbe Alvida,
La sua vera sorella, e poi s’uccise,
Come credo io, per emendare il fallo

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In voi commesso.

GERMONDO

Era sorella adunque?

CAMERIERO

Era, e saprete come.

GERMONDO

Ahi! troppo a torto
Tanto si diffidò del fido amico;
Che la mia fede, e non la sua; condanna
Colla sua morte. Oimè, qual grave colpa
Non perdona amicizia, o non difende?
Meno offeso m’avria volgendo il ferro
Contra il mio petto. Anzi in morir, dovea,
Ch’a lui diedi cagion d’acerba morte.
Ahi fortuna, ahi promesse, ahi fede, ahi fede!
Così t’osserva, e così dona il regno,
Così me prega?

CAMERIERO

Il Ciel fè scarso il dono,
E la sua Parca, e la Fortuna avversa,
Non l’ultimo voler, che tutto ei diede,
Quanto ei darvi potea.

GERMONDO

Tutto ei mi tolse,
Togliendomi sè stesso. Amior crudele,
Tu sei cagion: del mio spietato affanno.
Tu mi togli l’amico, e tu l’amata.
E tu gli uccidi, e mi trafiggi il petto
Con duo colpi mortali. Io tutto perdo,
Poichè lui perdo. Oimè, dolente acquisto,
Dannoso acquisto, in cui perde sè stessa
La nova sposa, e ’l Re sè stesso, e gli altri:
E ’l suo figliuol la madre, e ’l vero amico,

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L’amico suo, nè ritrovò l’amante:
La milizia l’onor, ch’orba divenne:
Questo regno il Signore: io la speranza
D’ogni mia gloria, e d’ogni mio diletto.
Perdere ancora il Cielo il Sol dovrebbe,
E ’l Sole i raggi, e la sua luce il giorno,
E per pietà celar l’oscura notte
Il fallo altrui col tenebroso manto:
Perdere il mare i lidi, e l’alte sponde
Gli ondosi fiumi, e ricoprir la terra
Ingrata; or che non sente, e non conosce
Il danno proprio, e non s’adira, e sterpe
Faggi, orni, pini, cerri, antiche querce,
Alti sepolcri, e d’infelice: morte
Dolente, e mesto albergo: o pur non crolla
Questa gran reggia, e le superbe torri:
E non percuote i monti a’ duri monti:
E non rompe i lor gioghi, e i gravi sassi
Non manda giù dall’aspre rupi al fondo:
E nel suo grembo alta ruina involve
Di mete, di colossi: e di colonne,
Perché sia non angusta, e ’ndegna tomba:
E da valli, e da selve, e da spelonche,
Con spaventose voci alto non mugge
Per far l’esequie coll’estremo pianto,
Che darà al mondo aneor perpetuo affanno.